Evidentemente siamo nati per soffrire, poiché tutte le cose belle e divertenti della vita sono dannose o proibite. Una di queste cose è il gioco, specialmente il gioco delle carte: ci sono esempi di figure religiose fatte con l’impasto di carte sequestrate al popolo, come il Cristo (su un disegno attribuito al Giambologna) che si può ammirare nella Chiesa di Santa Maria dei Servi e probabilmente anche la Deposizione del Piò in quella di Santo Stefano a Bologna. Vizio antico, il quale ha lasciato, nella nostra parlata, frasi e locuzioni che ad esso si riferiscono, oltre ad una precisa terminologia dialettale che è caratteristica e divertente. La briscola giocata parlando in dialetto e tutt’altra cosa che in italiano e ciò vale anche per gli altri giochi!A proposito di briscola è curioso il termine “càra”, cioè l’asso o il tre, che, nonostante la forma apparentemente femminile, è maschile. Curioso è anche il termine “èser incargiulè”, essere “incartati”, quando cioè si è in possesso di soli “carichi”, senza nessuna scartina, in modo che non si possa “andèr a léss”! Anche il termine “scartén” è maschile, contrariamente al suo corrispondente italiano che è femminile. Il termine “incargiulè” non è riportato dai dizionari e mi viene anche contestato da mio padre, il quale dice essere inesistente, eppure io l’ho sentito usare molte volte e… anche da lui! Sempre dalla briscola vengono i modi di dire “fèr s’santón”, cioè arrivare allo scopo (anche se di poco), e “al cànta cómme al dù ‘d càpp, quànd brésscla l’é bastón”, detto di persona che non conta nulla. Pensavo venisse dal gioco delle carte anche il detto italiano “abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno” usato quando si è già fatto tanto e basta poco per completare, però si narra che un papa, dovendo fare 30 nuovi cardinali ed avendo dimenticato un personaggio importante, ne fece 31 e da qui il detto! Si dice anche “Ciapèr al dù ‘d càpp” per significare una bella lavata di testa o una sonora sconfitta! Si dice inoltre “Zughèr un càra (o un càr) da óng’ ” (ma c’è anche l’italiano “calare un carico da undici”), cioè mettere in tavola un argomento convincente. Buffi sono i soprannomi confidenziali che hanno alcune carte: “la Delén-na” è il fante di coppe (credo), “l’Anzlén” è l’asso di spade e la “Tóca” è quello di denari, poiché, almeno nelle carte piacentine, l’asso di spade è raffigurato come un angelo e quello di denari come un’aquila coronata, detta ironicamente “Tóca” (la tacchina), termine peraltro usato sia per l’omonimo gioco, che è un tressette giocato in tre, sia per una persona imbranata, soprattutto se automobilista poco sveglio! Curioso è il fatto che i quattro semi (bastoni, coppe, spade e denari) si chiamino in dialetto come in italiano (dove si usa più spesso “ori” che “denari”), mentre, nel nostro particolare linguaggio italo-bolognese, preferiamo chiamare i denari “le denare” se non addirittura “denara”!
Nel tressette è curioso il termine “la pólla” (a volte detta anche “la crécca”), cioè la “combinazione napoletana” di asso, due e tre: è molto probabile che “polla” sia una abbreviazione distorta di “napoletana”, in omaggio alla città dove nacque il tressette. Diffusa anche la buffa esclamazione “Bòia ed trì trì e la pólla ed càpp”, che si dice per…non dire di peggio! “Busèr a denèr”, come anche l’omologo italiano, significa chiedere soldi, parafrasando il “bussare” cioè chiedere di giocare la carta migliore. Il gioco prevede le sole parole di “bussare”, “strisciare” e “volare”: le prime due forme sono simili all’italiano (“a bóss, a stréss”), mentre per la terza si dice, piuttosto che “a vàul”, “an n’ò pió ed quàssti”!
Dallo scopone (altro gioco napoletano!), viene il termine “settebello” (“sètbèl”), il sette di denari che ha particolare valore e che è stato dato sia ad un treno, sia alla squadra di pallanuoto, composta appunto di sette elementi. A Bologna preferiamo la scopa o lo sbarazzino, che prevedono anche il “re bello” (“rà bèl”), il quale però non ha dato origine a nessun modo di dire, forse perché siamo… in una Repubblica!Infine il gioco, bello e difficile, detto “Otzànt” (Ottocento) che si fa col “chèrt lónghi” (il Tarocco o Tarocchino Bolognese), un mazzo che comprende, oltre ai quattro semi della briscola, anche alcune “figure” o “numeri” o “trionfi” e che, proprio grazie ad essi, era ed è ancora adatto ai giochi divinatori delle cartomanti. Il numero 13, che rappresenta la Morte, con tanto di scheletro e falce, ha dato origine al modo di dire “al pèr al tràgg’ ed tariànf” riferito a persona molto magra o malmessa. Si dice inoltre “Lulé l’à bèle cuért al màt” di persona che ha già raggiunto un buon risultato (con valore simile al precedente “fèr s’santón”), poiché la figura del Matto (in italiano: il Folle) non si gioca, ma si “copre”, cioè la si tiene come acquisita. Tra queste figure c’è anche “al Mànd” (il Mondo) e non è escluso che il modo di dire “Lulé l’à al mànd in màn”, riferito ad uno che ha tutto, sia di provenienza analoga.
Forse il gioco più squisitamente bolognese, oltre il citato “Otzànt”, è “la Matàza” (Mattazza) che si può giocare sia con le carte piacentine che coi tarocchi, con i quali si dice sia un gioco bellissimo. È una sorta di tressette che si gioca in tre o in quattro, ciascuno per conto proprio, ma che prevede occasionali alleanze, nel quale si perde sia facendo troppi punti, sia non facendone nessuno! Un gioco che non ha particolari terminologie, se non le stesse del tressette, a parte il curioso “andèr a dùr” (andare a…duro!), contrapposto ad “andèr a squézz” (andare a…squizzo!): il primo indica una richiesta di alleanza e il secondo indica il suo contrario!
Ci sono altri giochi di carte che hanno dato origine a diversi modi di dire, ma sono giochi che, pur diffusissimi anche a Bologna, si fanno soprattutto in ambienti meno popolari, dove si parla normalmente in italiano. Sono giochi fatti con le “carte francesi”, che sarebbe più corretto chiamare “carte franche”, poiché pare che siano nate o almeno che si riferiscano a Calo Magno, Re dei Franchi.
Dal poker abbiamo le parole “tris” e “poker”, riferite a qualsiasi combinazione di cose o persone che siano tre o quattro. La locuzione “il piatto piange” e altre, come “bluffare” (pronunciato “bleffare”), vengono usate per descrivere comportamenti o situazioni simili a quelli del gioco. Il detto “fare il buio” che equivale “alla cieca”.Dal bridge viene il termine “grande slam” usato principalmente nel tennis, quando un giocatore riesce a vincere i quattro tornei più importanti nel corso dello stesso anno.Dal sette e mezzo la parola “d’emblée”, cioè d’acchito. “Rispondere picche”, cioè no.Ma si tratta di giochi e di termini internazionali che non hanno più quel sapore, squisitamente bolognese, che possono avere la briscola, il tressette, la mattazza, il massino e tanti altri giochi che si fanno con la carte piacentine o col “chèrt lónghi”! (A proposito: “al cavàl ‘d càpp” era il nome dato ad un ronzino!)
Paolo Canè
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