Era la mia nonna materna, una figura importantissima della mia vita, della quale ho parlato spesso, ma ne voglio parlare ancora. Era importante, perché io passavo con lei le mie giornate di fanciullo, essendo entrambi i genitori al lavoro dal mattino alla sera, perché mi ha voluto un gran bene e mi ha sempre difeso e perché mi ha insegnato il dialetto, che era la sua vera lingua, il quale è sempre stato per me e pratica usuale prima ed anche materia di studio poi.
-
Era nata nel 1882 da famiglia poverissima e, praticamente, non era mai andata a scuola, ma era la nonna ideale che auguro di avere ad ogni bambino. Il suo nome, bello, breve e nobile, ma che nessuno si sogna più di dare oggi ad una figlia invece degli esotici Samantha, Deborah, Cinzia e cose del genere, è di origine germanica (o ebraica nella forma "Adah") col significato di "nobile" (o "adornata"). Ma un giorno mi disse: "Sai? C'è anche un fiume che si chiama così": si vede che qualcuno, nel passare l'Adda, glielo aveva riferito, …senza dare molta importanza alle due "d"!
Era nata alle Roveri, oggi un quartiere di Bologna, ma allora era un piccolo centro di campagna ed aveva un'amica bolognese (della quale non ricordo il nome) che parlava con la caratteristica "flemma" petroniana e diceva: "L'ètra sìra mé a andó a chèsa…", espressione che mia nonna non usava, ciò è la dimostrazione che un secolo fa il dialetto di città si differenziava ancora molto da quello anche della più prossima campagna. Oggi anche in città si dice: "L’ètra sìra mé a andé a cà"!
I suoi insegnamenti erano forse rozzi, ma efficaci, tanto che ancora li ricordo: mi diceva che, se non stavo buono, sarebbe venuta la "burda" o il "luppo" (cioè il lupo, sempre per la poca importanza delle doppie!), cose che mi terrorizzavano, ma io stavo buono, sicuramente …più buono di certi infernali marmocchi d'oggi, allevati con il metodo Montessori!
Era nata nel 1882 da famiglia poverissima e, praticamente, non era mai andata a scuola, ma era la nonna ideale che auguro di avere ad ogni bambino. Il suo nome, bello, breve e nobile, ma che nessuno si sogna più di dare oggi ad una figlia invece degli esotici Samantha, Deborah, Cinzia e cose del genere, è di origine germanica (o ebraica nella forma "Adah") col significato di "nobile" (o "adornata"). Ma un giorno mi disse: "Sai? C'è anche un fiume che si chiama così": si vede che qualcuno, nel passare l'Adda, glielo aveva riferito, …senza dare molta importanza alle due "d"!
Era nata alle Roveri, oggi un quartiere di Bologna, ma allora era un piccolo centro di campagna ed aveva un'amica bolognese (della quale non ricordo il nome) che parlava con la caratteristica "flemma" petroniana e diceva: "L'ètra sìra mé a andó a chèsa…", espressione che mia nonna non usava, ciò è la dimostrazione che un secolo fa il dialetto di città si differenziava ancora molto da quello anche della più prossima campagna. Oggi anche in città si dice: "L’ètra sìra mé a andé a cà"!
I suoi insegnamenti erano forse rozzi, ma efficaci, tanto che ancora li ricordo: mi diceva che, se non stavo buono, sarebbe venuta la "burda" o il "luppo" (cioè il lupo, sempre per la poca importanza delle doppie!), cose che mi terrorizzavano, ma io stavo buono, sicuramente …più buono di certi infernali marmocchi d'oggi, allevati con il metodo Montessori!
-
Per insegnarmi a rendere al proprietario le cose trovate, mi diceva:
"Al Sgnàur al dìs…re…re, chi tróva la róba a la dàga a chi l’é e al Dièvel al dìs ro…ro, chi tróva la róba l'é la só!" Un misto di religiosità e d'insegnamento spicciolo, ma è sempre ai risultati che bisogna guardare: io sono cresciuto con un'onestà endemica della quale non mi sono mai fatto vanto, poiché per me sarebbe stato molto più difficile rubare!
Mi raccontava anche varie frottole popolari, come quella che spiegava perché le donne dovevano stare in chiesa col fazzoletto in testa, mentre gli uomini potevano restare a capo scoperto: "Él dón égli àn tótt i cavì maledétt, mànch ón e i ómen tótt i cavì bandètt, mànch ón"! Seppi poi che il motivo era diverso: un tempo i capelli lunghi non erano cosa per donne perbene (vedi Maddalena), perciò occorreva coprirli.
Mi diceva che la notte di S.Antonio, protettore degli animali (17 gennaio), tutte le bestie parlavano e ci credeva! Infatti raccontava la storia di un "bióich" (il bifolco, cioè chi governa le stalle), il quale dormiva nella stalla e certi suoi amici gli fecero uno scherzo atroce: si nascosero dietro una mangiatoia e dissero con voce…bovina: "Stanót a purtàn al bióich a la bùsa" (stanotte seppelliremo il bifolco)…e il poveretto morì d'un colpo (l'infarto di una volta).
Per insegnarmi a rendere al proprietario le cose trovate, mi diceva:
"Al Sgnàur al dìs…re…re, chi tróva la róba a la dàga a chi l’é e al Dièvel al dìs ro…ro, chi tróva la róba l'é la só!" Un misto di religiosità e d'insegnamento spicciolo, ma è sempre ai risultati che bisogna guardare: io sono cresciuto con un'onestà endemica della quale non mi sono mai fatto vanto, poiché per me sarebbe stato molto più difficile rubare!
Mi raccontava anche varie frottole popolari, come quella che spiegava perché le donne dovevano stare in chiesa col fazzoletto in testa, mentre gli uomini potevano restare a capo scoperto: "Él dón égli àn tótt i cavì maledétt, mànch ón e i ómen tótt i cavì bandètt, mànch ón"! Seppi poi che il motivo era diverso: un tempo i capelli lunghi non erano cosa per donne perbene (vedi Maddalena), perciò occorreva coprirli.
Mi diceva che la notte di S.Antonio, protettore degli animali (17 gennaio), tutte le bestie parlavano e ci credeva! Infatti raccontava la storia di un "bióich" (il bifolco, cioè chi governa le stalle), il quale dormiva nella stalla e certi suoi amici gli fecero uno scherzo atroce: si nascosero dietro una mangiatoia e dissero con voce…bovina: "Stanót a purtàn al bióich a la bùsa" (stanotte seppelliremo il bifolco)…e il poveretto morì d'un colpo (l'infarto di una volta).
-
Raccontava spesso quei detti che facevano ridere i bolognesi d'allora, come quello del padrone meravigliato del fatto che Patella, il suo fattore, avesse due cani e la botta e risposta dei due era così:
Raccontava spesso quei detti che facevano ridere i bolognesi d'allora, come quello del padrone meravigliato del fatto che Patella, il suo fattore, avesse due cani e la botta e risposta dei due era così:
-
- "Quaión, Patèla, a avì du càn!"
- "Quaiàn, padràn, ch'avì da dèri da magnèr!"
- "Quaión, Patèla, a avì du càn!"
- "Quaiàn, padràn, ch'avì da dèri da magnèr!"
-
Era dolce con me e mi faceva giocare con le dita, recitando la famosa filastrocca che, anni dopo, avrei incontrata ancora sui libri di Menarini: "Pin Pinèl da l'óli bèl, da l'óli fén còntr'a Martén, galén-na zópa sàura a una fiópa, ecc, ecc,". Mi raccontava le favole per farmi addormentare e alcune me le raccontava in italiano, o almeno in quella lingua che lei credeva fosse italiano; il lupo, travestito da gatta, diceva: "Menini, menini, venite a prendere il mio titino", traduzione dell'antico "mnén", cioè "micetto", che oggi si chiama solo "gatén".
Alla fine delle favole in dialetto, la formula era sempre la stessa: "I fénn un gràn nóz e strangóz, ch'an i vanzé gnànch un ós: ai vanzé sàul una ftlén-na ed parsótt, che ch'al làuv ed (Pavlén) al le magné tótt": la versione bolognese di "E vissero felici e contenti", dove però il nome del "làuv" (in italo-bolognese "lupo o lupone", cioè "ingordo"), cambiava ogni volta.
A volte, per farmi sorridere, mi faceva il gioco della "topaccia" (traduzione italiana di "pundgàza"): arrotolava uno straccio a forma di un grosso topo, lo teneva su un braccio e, mentre con una mano lo accarezzava, con l'altra lo faceva scattare in avanti e io ridevo ogni volta!
Era dolce con me e mi faceva giocare con le dita, recitando la famosa filastrocca che, anni dopo, avrei incontrata ancora sui libri di Menarini: "Pin Pinèl da l'óli bèl, da l'óli fén còntr'a Martén, galén-na zópa sàura a una fiópa, ecc, ecc,". Mi raccontava le favole per farmi addormentare e alcune me le raccontava in italiano, o almeno in quella lingua che lei credeva fosse italiano; il lupo, travestito da gatta, diceva: "Menini, menini, venite a prendere il mio titino", traduzione dell'antico "mnén", cioè "micetto", che oggi si chiama solo "gatén".
Alla fine delle favole in dialetto, la formula era sempre la stessa: "I fénn un gràn nóz e strangóz, ch'an i vanzé gnànch un ós: ai vanzé sàul una ftlén-na ed parsótt, che ch'al làuv ed (Pavlén) al le magné tótt": la versione bolognese di "E vissero felici e contenti", dove però il nome del "làuv" (in italo-bolognese "lupo o lupone", cioè "ingordo"), cambiava ogni volta.
A volte, per farmi sorridere, mi faceva il gioco della "topaccia" (traduzione italiana di "pundgàza"): arrotolava uno straccio a forma di un grosso topo, lo teneva su un braccio e, mentre con una mano lo accarezzava, con l'altra lo faceva scattare in avanti e io ridevo ogni volta!
-
Mi difendeva talvolta dall'ira di mio padre (erano i tempi nei quali ancora vigeva la regola del "santo smataflone"), quando io facevo i capricci e lui mi allentava una sberla: "S'av saltéss vì él màn!" diceva furente, poiché con mio padre si davano del "voi”, tuttavia loro due si volevano bene come madre e figlio, tanto che ancora oggi mio padre, ormai ultranovantenne, si commuove quando parla di lei.
Quando lui a tavola si lamentava che la bistecca era dura, lei rispondeva stizzita: "A sì vó ch'avì i dént ch'in tàien brìsa!"
Odiava le donne pettegole e le apostrofava: "Ch'la sbraghiràn-na ed ch'la bragàn-na", come odiava le giovani poco inibite: "Li lé l'é una bagaiàtta, l’é un avànz da baladùr!".
L'usatissimo e bolognesissimo "Sócc'mel" era per lei espressione troppo volgare e preferiva "Cóchmel" o il famoso "Sóccia l'óv" (Soccialovo!). E ancora ricordo, con tenerezza, quando mi veniva a svegliare al mattino: "Paolo, svegliati: è le otto!", traducendo alla lettera il dialetto che dice: "L'é ‘gli ót!" e non come il recente ed italianizzato "I en égli ót"!
Mi difendeva talvolta dall'ira di mio padre (erano i tempi nei quali ancora vigeva la regola del "santo smataflone"), quando io facevo i capricci e lui mi allentava una sberla: "S'av saltéss vì él màn!" diceva furente, poiché con mio padre si davano del "voi”, tuttavia loro due si volevano bene come madre e figlio, tanto che ancora oggi mio padre, ormai ultranovantenne, si commuove quando parla di lei.
Quando lui a tavola si lamentava che la bistecca era dura, lei rispondeva stizzita: "A sì vó ch'avì i dént ch'in tàien brìsa!"
Odiava le donne pettegole e le apostrofava: "Ch'la sbraghiràn-na ed ch'la bragàn-na", come odiava le giovani poco inibite: "Li lé l'é una bagaiàtta, l’é un avànz da baladùr!".
L'usatissimo e bolognesissimo "Sócc'mel" era per lei espressione troppo volgare e preferiva "Cóchmel" o il famoso "Sóccia l'óv" (Soccialovo!). E ancora ricordo, con tenerezza, quando mi veniva a svegliare al mattino: "Paolo, svegliati: è le otto!", traducendo alla lettera il dialetto che dice: "L'é ‘gli ót!" e non come il recente ed italianizzato "I en égli ót"!
-
Paolo Canè
Grazie di questo bel racconto, mi ha riportato il ricordo di mia nonna Gisa e delle sue favole in dialetto, e delle tante parole che ora risuonano solo nella mia testa. Alessandra
RispondiEliminaGrazie di questo bel racconto, mi ha riportato il ricordo di mia nonna Gisa e delle sue favole in dialetto, e delle tante parole che ora risuonano solo nella mia testa. Alessandra
RispondiElimina