Mai come in questi ultimi anni, da quando sono andato in pensione, mi ero goduto la compagnia di mio padre: una fortuna di pochi, quella di aver superato i 60 anni con un padre che ha superato i 90, ancor vivo e vispo! Abbiamo sempre vissuto insieme e lavorato insieme ed ora ci vediamo un film tutti i giorni, traffichiamo in giardino e andiamo spesso in giro (Ch'me i tùch par l'èra!); ora, più che mai, è per me un'inesauribile fonte di termini bolognesi, come, del resto, è sempre stato unitamente a mia nonna. Girando per la nostra bella campagna, ogni tanto sbotta con termini che esistono, ma che non avevo mai udito prima, come arpàigh (erpice), arpghèr (lavorare con l'erpice), biróz (tutolo: il torsolo della pannocchia) e ghén (uomo rozzo): "…una vólta qué ai éra di pió fàt ghén!". Sono termini che mi incuriosiscono e che vanno a far parte del mio bagaglio dialettale, ma che sopra tutto mi divertono, poiché uno dei piaceri di parlare dialetto è proprio quello di sorridere davanti a certe parole e certe osservazioni a volte iperboliche, a volte pungenti com'è lo spirito petroniano! Ogni tanto discutiamo su certi termini che io ho studiato in un modo e che lui pronuncia in un altro, ma sono molte di più le cose che imparo: si è parlato recentemente dell'imperfetto del verbo essere, poiché alcuni dicono l'éra (come diciamo entrambi) e altri dicono l'ìra e lui sosteneva che questo secondo modo fosse romagnolo. Può darsi che sia romagnolo, ma io credo che si tratti anche di un bolognese della campagna o della montagna, che si è insediato a Bologna per via del diffuso urbanesimo: infatti anche Musi canta: "...L'éra Fasól ch'ludèva la Fricci…". A volte dissertiamo su parole controverse, come zirudèla (filastrocca) che qualche dizionario chiama zerudèla e qualche volta si trova, nei vecchi componimenti, come zè rudèla, senza contare che alcuni dizionari riportano l’antica definizione, ormai superata: "componimento in versi ottonari in occasione dei pranzi di nozze", mentre noi crediamo che sia spesso anche in versi settenari e non necessariamente riservata ai soli pranzi di nozze! Altre volte c'imbattiamo in termini che conosciamo entrambi, ma che in nessuno dei miei dizionari e libri (anche in quelli di Menarini) vengono citati, come ad esempio peróc' che significa "occhio pesto". Parole che non tutti i dizionari riportano, almeno quelli recenti, come "zàgn" che, oltre al significato di "zanni" (Gianni: servo buffo della Commedia dell'Arte), significa, sopra tutto nella più nota forma vezzeggiativa di "zagnócch", un vento di tramontana molto freddo. Ciò che, come altre già citate, sembra una strana espressione soltanto bolognese, ma che troviamo simile, ad esempio, nel romanesco che usa, con l'identico significato, la parola "gianna" o "giannetta"! Parole antiche ormai scomparse: tempo fa stavo zappando il terreno per fare l'orto e lui mi dice: "L'órt l'à d'ès'r a sulàn", una strana espressione per dire che deve essere "al sole"! E ancora, parlando del suo amico di infanzia Flavio Foschini: "Só pèder al fèva al calzulèr e ló al fèva al furmàtta!" …e sfido chiunque a sapere che il "furmàtta" era colui che fabbricava le forme di legno per le scarpe! Parlando insieme, notiamo la ricchezza del nostro dialetto che usa per "ala" la parola "èglia" se si tratta di un uccello, ma anche la parola "èla" se si tratta, ad esempio, del ruolo di un calciatore o dell'ala di un castello. Per "forchetta" usa "furzén-na" se si tratta della posata e anche "furcàtta" se si tratta della forchetta di uno spiedo: nulla a che vedere con "furzèla" che è sia la forcella della bicicletta, sia una parte della fionda ("al tirén") sia il sostegno per i fili del bucato! E ancora parliamo di stranezze, come alcune parole che in bolognese sono femminili, mentre in italiano sono maschili: avevo già accennato da qualche altra parte all'aceto, al sonno, allo zolfo (l'asà, la sànn, la sàulfna, tutte femminili, osservando che quest'ultima è molto più vicina del toscano al latino "sulfur") ed abbiamo aggiunto anche "la C'món-na" (il Comune), che è pure femminile, forse perché riferita più all'antica "la Comune" che non al Comune medievale. Ma ce ne sono altre, come, pare, "la glézzin" (il glicine) trovata in una poesia di Sgarzi , "la pùz" (il poggio), ecc.
-
E ancora un'espressione curiosa di mio padre, oltre alla già citata "tàia, tàia, mó l'é sàmper cùrt" (lo credo bene: non c'è dubbio che a tagliare si allunghi!), riferendosi ad una famiglia nella quale è la moglie quella che tiene insieme la famiglia stessa: "l'é lì ch'la tén drétt al tién!" (tién = piccola teglia), e solo l'immaginare chi porta lentamente un tegamino, facendo attenzione a non rovesciare una goccia, fa sorridere. Passando vicino ad un campo arato, mi ha parlato del "cùlter" e della "lèga", parole sconosciute a chi è sempre vissuto in città, per quanto cùlter, di chiara origine latina (cultrum), è citato in ogni vocabolario italiano, latino, etimologico e bolognese ed è la parte dell’aratro, il ferro (Culter=Cultello) che taglia la terra verticalmente. È evidente che anche il “coltello” deriva dalla stessa radice. La lèga (con è aperta e non chiusa) è invece il solco fatto dal cùlter. È parola di probabile origine longobarda (me lo dice l’orecchio, ma non ho trovato indicazioni al riguardo) ed è citata da pochi vocabolari bolognesi, senza alcun riscontro nella lingua italiana. Esclusa la parentela con la misura di lunghezza (lega) e improbabile la derivazione dal tedesco "legen", da cui "lage" che significa più “giacimento” che “solco”. Chissà! Al murèl (plur: murì) è una parte del campo. Al malgàtt è il fusto del granturco e triblèr significa triturare: tutti termini ignoti alla maggior parte dei dizionari. E già che siamo in campagna, ho notato che in bolognese vi sono curiose stranezze: la parola "érba" (erba), nella sua forma diminutiva (erbetta) fa "arbén-na" con la "a" e non con la "e" (come òmen-umarén, ecc.). Avevo già notato come, in tedesco, certi diminutivi cambiano la parola originale (Frau>Freulein) , ma non mi sembra d’aver mai trovato, in nessuna lingua, il cambiamento della lettera iniziale! E le discussioni eterne con mio padre sulle sfumature fonetiche! È l’antico scontro tra chi ha usato tanto e studiato poco e chi ha usato poco e studiato tanto! Un esempio per tutti sono certe parole che i parlanti possono pronunciare indifferentemente "o" oppure "a". La bislacca frase "A sòn andè int un cantòn sòtta al pònt", si può sentir pronunciare anche "A sàn andè int un cantàn sàtta al pànt": mio padre è per la prima ed io per la seconda, anche se poi, parlando, talvolta lui pronuncia a mio modo ed io a suo modo! Ma forse, come al solito, la verità sta nel mezzo: in realtà entrambi pronunciamo una vocale che non è né "o" e né "a"! Ma qui entriamo nel difficile!
E ancora un'espressione curiosa di mio padre, oltre alla già citata "tàia, tàia, mó l'é sàmper cùrt" (lo credo bene: non c'è dubbio che a tagliare si allunghi!), riferendosi ad una famiglia nella quale è la moglie quella che tiene insieme la famiglia stessa: "l'é lì ch'la tén drétt al tién!" (tién = piccola teglia), e solo l'immaginare chi porta lentamente un tegamino, facendo attenzione a non rovesciare una goccia, fa sorridere. Passando vicino ad un campo arato, mi ha parlato del "cùlter" e della "lèga", parole sconosciute a chi è sempre vissuto in città, per quanto cùlter, di chiara origine latina (cultrum), è citato in ogni vocabolario italiano, latino, etimologico e bolognese ed è la parte dell’aratro, il ferro (Culter=Cultello) che taglia la terra verticalmente. È evidente che anche il “coltello” deriva dalla stessa radice. La lèga (con è aperta e non chiusa) è invece il solco fatto dal cùlter. È parola di probabile origine longobarda (me lo dice l’orecchio, ma non ho trovato indicazioni al riguardo) ed è citata da pochi vocabolari bolognesi, senza alcun riscontro nella lingua italiana. Esclusa la parentela con la misura di lunghezza (lega) e improbabile la derivazione dal tedesco "legen", da cui "lage" che significa più “giacimento” che “solco”. Chissà! Al murèl (plur: murì) è una parte del campo. Al malgàtt è il fusto del granturco e triblèr significa triturare: tutti termini ignoti alla maggior parte dei dizionari. E già che siamo in campagna, ho notato che in bolognese vi sono curiose stranezze: la parola "érba" (erba), nella sua forma diminutiva (erbetta) fa "arbén-na" con la "a" e non con la "e" (come òmen-umarén, ecc.). Avevo già notato come, in tedesco, certi diminutivi cambiano la parola originale (Frau>Freulein) , ma non mi sembra d’aver mai trovato, in nessuna lingua, il cambiamento della lettera iniziale! E le discussioni eterne con mio padre sulle sfumature fonetiche! È l’antico scontro tra chi ha usato tanto e studiato poco e chi ha usato poco e studiato tanto! Un esempio per tutti sono certe parole che i parlanti possono pronunciare indifferentemente "o" oppure "a". La bislacca frase "A sòn andè int un cantòn sòtta al pònt", si può sentir pronunciare anche "A sàn andè int un cantàn sàtta al pànt": mio padre è per la prima ed io per la seconda, anche se poi, parlando, talvolta lui pronuncia a mio modo ed io a suo modo! Ma forse, come al solito, la verità sta nel mezzo: in realtà entrambi pronunciamo una vocale che non è né "o" e né "a"! Ma qui entriamo nel difficile!
-
Come ho già detto altre volte, io sono abbastanza fedele alle teorie ed ai sistemi di Alberto Menarini, a differenza di altri (anche più importanti di me) i quali, per ignoranza o per presunzione, non lo fanno. Una delle poche deroghe che mi permetto di fare (oltre all’abuso degli accenti, finalizzato ad una più facile lettura a colpo d’occhio) è il "non uso" della "h" nelle tre voci del verbo "avere", sia perché ritengo inutile una consonante muta, sia perché anche in italiano è concesso (o almeno lo era, anche se brutto) "ò, ài, ànno". In italiano "anno" e "hanno" si scrivono diversamente, ma si pronunciano uguali, in dialetto "àn" e "àn" si scrivono uguali (o almeno io li scrivo uguali), ma si pronunciano diversamente, poiché la "n" di "àn" (anno 2008) è palatale, mentre la "n" di "àn" (essi hanno) è nasale, oltre al fatto che la prima parola prevede un suono più lungo della “à”. Menarini avrebbe scritto la prima "àn" con l’accento, la seconda con la "h" e con il puntino sulla "n" ed avrebbe lasciato "an" senza nessun altro segno per il terzo caso del bolognese che è la negazione "non", spesso accompagnata dal rafforzativo "brìsa": "an vóii brìsa" = non voglio. Complicato, vero?
Come ho già detto altre volte, io sono abbastanza fedele alle teorie ed ai sistemi di Alberto Menarini, a differenza di altri (anche più importanti di me) i quali, per ignoranza o per presunzione, non lo fanno. Una delle poche deroghe che mi permetto di fare (oltre all’abuso degli accenti, finalizzato ad una più facile lettura a colpo d’occhio) è il "non uso" della "h" nelle tre voci del verbo "avere", sia perché ritengo inutile una consonante muta, sia perché anche in italiano è concesso (o almeno lo era, anche se brutto) "ò, ài, ànno". In italiano "anno" e "hanno" si scrivono diversamente, ma si pronunciano uguali, in dialetto "àn" e "àn" si scrivono uguali (o almeno io li scrivo uguali), ma si pronunciano diversamente, poiché la "n" di "àn" (anno 2008) è palatale, mentre la "n" di "àn" (essi hanno) è nasale, oltre al fatto che la prima parola prevede un suono più lungo della “à”. Menarini avrebbe scritto la prima "àn" con l’accento, la seconda con la "h" e con il puntino sulla "n" ed avrebbe lasciato "an" senza nessun altro segno per il terzo caso del bolognese che è la negazione "non", spesso accompagnata dal rafforzativo "brìsa": "an vóii brìsa" = non voglio. Complicato, vero?
-
A proposito dei verbi "avere" ed "essere" ed anche degli accenti, una piccola dimostrazione di quanto questi ultimi siano importanti la vediamo nelle due forme interrogative "éla- él" ed "èla-èl": l’accento acuto (suono chiuso) indica il verbo "essere", mentre quello grave (suono aperto) indica il verbo "avere". Passando vicino ad un campo di barbabietole, mio padre mi racconta dei tempi nei quali esse si raccoglievano ad una ad una con un "ranzén", cioè con un apposito uncino. I miei dizionari indicano per uncino il termine "anzén", tuttavia, dato che io do maggior credito ad un novantenne che ha sempre parlato in dialetto, piuttosto che ad un giovanotto fresco di laurea (magari breve!), che ha scoperto il dialetto solo di recente, sono più propenso per la forma "ranzén"! E ancora i suoi famosi modi di dire che noi "giovani" (si fa per dire…) non usiamo più: "…e vì la mègra!" (nel senso di "E dài; E via così") oppure: "Sàtta al pórdgh dal scuért" (un posto inesistente). Pare che la "magra" sia riferita alle scartine nel gioco delle carte, ma potrebbe anche avere origini agricole. Il secondo modo di dire è uno dei tanti, un po’ iperbolici, un po’ assurdi, che si dicono (ma dovrei dire si dicevano) tanto per dire, tanto per ridere, in omaggio al più schietto e tipico umorismo petroniano. Proprio come il succitato: "Tàia, tàia, mó l’é sàmper cùrt"! Da ultimo (ne parlavamo recentemente) l’espressione "uno per uno", sia nel senso di "uno per ciascuno" che in quello di "ad uno ad uno": in italiano sono uguali, ma in dialetto sono rispettivamente "ón pr’àn" e "ón pr’ón"!
-
Noi trascorriamo così il pigro tempo della nostra pensione: guardiamo film, stiamo in giardino, andiamo in giro, parliamo di sport o di politica, ma sopra tutto parliamo il nostro caro dialetto…finché siamo in tempo!
Noi trascorriamo così il pigro tempo della nostra pensione: guardiamo film, stiamo in giardino, andiamo in giro, parliamo di sport o di politica, ma sopra tutto parliamo il nostro caro dialetto…finché siamo in tempo!
-
Paolo Canè
Paolo Canè
Nessun commento:
Posta un commento