Un argomento che interessa tutti, poiché ognuno ha i suoi guai di salute. In dialetto, per indicare il proprio stato o per rispondere alla domanda: cùmm stèt? cùmm vèla? (come stai?) si usano diverse espressioni del tutto simili a quelle italiane: an stàgh brìsa tànt bàn (non sto tanto bene), a stàgh bàn, benéssum (sto bene, benissimo), a stàgh acsé acsé, spesso abbreviato in acsé 'csé (sto così così), a stàgh mèl (sto male) e diverse altre espressioni, come ad esempio a stàgh ed mérda (sto di m…) oppure ch'mé trì int 'na scràna (come tre in una sedia, cioè non benissimo), frase alla quale alcuni aggiungono ...e ón in pì ch'al stà d'asptèr, spesso abbreviato in astèr (e un altro in piedi che aspetta). Ma l'espressione più frequente usata da chi non sta bene ed anche la più curiosa è: a stàgh póch bàn (sto poco bene o, nel buffo italo-bolognese, "sto… pocobene"), che non significa ciò che significherebbe in italiano, cioè "sto poco bene", ma significa proprio "sto male": incù a stàgh póch bàn (oggi sto male). Esiste, come ho detto, anche stèr mèl, ma questa espressione viene riferita a che è moribondo: Alfrédo al stà mèl (Alfredo sta per morire). In occasione di uno svenimento, esiste anche il verbo sv'gnìr e pure svenimànt, forma moderna per il più antico smalvén, perciò si dice: l'é sv'gnó (è svenuto-a), ma l'espressione più petroniana è: ai'é v'gnó mèl (gli-le è venuto male), usata anche in italiano, dove invece è corretto dire: "si è sentito-a male". S'ai pàns, am vén mèl (se ci penso, svengo) è forma diffusissima, quando qualcuno deve fare una cosa controvoglia. Il raffreddore è al fardàur, ma il raffreddamento (o il raffreddore stesso) viene espresso anche con la fardàia, che passa al femminile e che ha insita anche un poco d'ironia. Ho già detto dell'antica forma bandéssel-la (benedicilo-a) come augurio per uno starnuto, ma si dice molto più spesso salute, come in italiano. Salute che ha altri significati: t'è una bèla salùt (hai un bel po' di fortuna) oppure vùt ch'at dàga la salùt? (cosa vuoi di più da me?) o ancora a lulà ai pózza la salùt, quando qualcuno fa qualcosa di pericoloso. Nei casi gravi in cui qualcuno è colpito da infarto, ictus, collasso e cose del genere, benché il primo abbia un suo termine moderno (infèrt), una volta si diceva semplicemente e genericamente ai é v'gnó un càulp (gli-le è venuto un colpo) oppure, sempre che su queste cose si possa scherzare, in modo più spiritoso un botasó (un "buttasù") di origine a me ignota, ma è un'espressione ormai quasi scomparsa. Invece ch'at véggna un càulp (ti pigliasse un accidente) è un malaugurio ancora ben vivo. Per significare la perdita d'equilibrio, dovuta a sbalzi di pressione o all'età, le forme sono svariate: an stàgh b'sa drétt (non sto in piedi), a dàgh égli ànnd (ondeggio), a fàgh dàu carè (faccio due…carreggiate), am prélla la tèsta o al zócch (ho il capogiro) ed altre espressioni colorite. All'ironia si presta particolarmente un disturbo come la dissenteria o la diarrèa: ai ò al squézz oppure incù a squézz ch'mé un'óca, senza contare che la dissenteria (termine troppo dotto) ha una sua antica definizione già buffa di per sé: la cagarèla! Ma sono molti i disturbi che hanno un buffo nome, più o meno in uso: gherspén (afta), pustéma (ascesso), brusacùl (prurito anale), mèl d'la préda (calcoli), mèl lusertén (chiodo solare), mèl d'la vàca (dolore muscolare), znèster (lombaggine), gazù (morbillo), gutón (parotite), lazarén (orzaiolo) fèrsa o félsa (rosolia), avintadùra (ernia), bàggn (foruncolo), e altri.
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Paolo Canè
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