Come un conoscente non è un amico, così non è detto che ciò che conosciamo (poco o tanto) lo sappiamo. “Conosco l’inglese”, “Conosco la Sicilia”, “Conosco il mio lavoro” sono frasi che si dicono, ma sapere veramente queste cose è impossibile. Eppure c’è tanta gente, in buona parte ignorante, che, solo per avere parlato il dialetto da sempre, crede di saperlo, anzi, crede di saperlo tutto! Al contrario, per sapere una cosa non occorre soltanto praticarla, bisogna studiarla. Senza studiare, nessuno può dire di sapere, anche se più si studia e più si capisce di…non sapere!
In materia di dialetto, alcuni dicono: “Questo termine è sbagliato”, ma in realtà si tratta di una parola che essi non hanno mai usato, mentre per altri è consueta. Prendiamo il caso di “zapèl” (pasticcio, confusione di cose): è una parola che io non uso, nella mia famiglia non l’ho mai udita, i dizionari moderni non la riportano, eppure viene comunemente usata da molti bolognesi, pertanto non posso dire che è sbagliata! Questi dizionari non riportano nemmeno “smasuchèr” (mettere a mollo panni e stoviglie, prima del lavaggio vero e proprio), eppure, pur non essendo parola molto conosciuta, nella mia famiglia è sempre stata usata: è giusta o sbagliata?
Ci sono altre parole che pure non vengono citate, ma è giusto così, in quanto si tratta di parole obsolete: è il caso di “uguèl” (nei testi più antichi ho trovato spesso “eguàl”) che significa, o meglio, significava “uguale”, ma che oggi nessuno più usa. Oggi abbiamo unicamente “prezìs”, stessa parola per due significati: uguale e preciso. Diciamo infatti: “L’é prezìs a só pèder” oppure il noto “Prezìs al brègh ed Délmo” col significato di “uguale”, ma anche “Prezìs cumpàgna a un arlóii svézzer” col significato di “preciso, esatto”.
Altre parole ancora sono riportate dai dizionari, ma con lievi differenze rispetto a come le conosciamo e le usiamo noi. Un esempio è “ed giangón”, ironicamente usato anche in italo-bolognese (di giangóni), che, analogamente all’altra forma simile “ed tarquàider” che abbiamo già visto in un capitolo precedente, significa “sbilenco”, “di traverso”. Io e la mia famiglia abbiamo sempre usato “giangón”, con la “o” chiusa, ma i suddetti dizionari riportano “giangàn” con la “o” (o con la “a”, come faccio io) aperta. In verità entrambe le forme vengono usate nel dialetto parlato: c’è che dice “giangón” e c’è chi dice “giangàn”, ma certo i primi non possono dire che gli altri sbagliano e viceversa.
In materia di dialetto, alcuni dicono: “Questo termine è sbagliato”, ma in realtà si tratta di una parola che essi non hanno mai usato, mentre per altri è consueta. Prendiamo il caso di “zapèl” (pasticcio, confusione di cose): è una parola che io non uso, nella mia famiglia non l’ho mai udita, i dizionari moderni non la riportano, eppure viene comunemente usata da molti bolognesi, pertanto non posso dire che è sbagliata! Questi dizionari non riportano nemmeno “smasuchèr” (mettere a mollo panni e stoviglie, prima del lavaggio vero e proprio), eppure, pur non essendo parola molto conosciuta, nella mia famiglia è sempre stata usata: è giusta o sbagliata?
Ci sono altre parole che pure non vengono citate, ma è giusto così, in quanto si tratta di parole obsolete: è il caso di “uguèl” (nei testi più antichi ho trovato spesso “eguàl”) che significa, o meglio, significava “uguale”, ma che oggi nessuno più usa. Oggi abbiamo unicamente “prezìs”, stessa parola per due significati: uguale e preciso. Diciamo infatti: “L’é prezìs a só pèder” oppure il noto “Prezìs al brègh ed Délmo” col significato di “uguale”, ma anche “Prezìs cumpàgna a un arlóii svézzer” col significato di “preciso, esatto”.
Altre parole ancora sono riportate dai dizionari, ma con lievi differenze rispetto a come le conosciamo e le usiamo noi. Un esempio è “ed giangón”, ironicamente usato anche in italo-bolognese (di giangóni), che, analogamente all’altra forma simile “ed tarquàider” che abbiamo già visto in un capitolo precedente, significa “sbilenco”, “di traverso”. Io e la mia famiglia abbiamo sempre usato “giangón”, con la “o” chiusa, ma i suddetti dizionari riportano “giangàn” con la “o” (o con la “a”, come faccio io) aperta. In verità entrambe le forme vengono usate nel dialetto parlato: c’è che dice “giangón” e c’è chi dice “giangàn”, ma certo i primi non possono dire che gli altri sbagliano e viceversa.
Siccome però anch’io (come tutti gli altri) non posso dire di “sapere” il dialetto, soltanto perché lo parlo da sempre, potrei pensare che “zapèl” e “smasuchèr” siano termini campagnoli (chi non ha contadini tra i suoi avi?), seppure usati a Bologna. Potrei pensare che “uguèl” sia ancora usato da pochi vecchi petroniani. Potrei pensare che io, la mia famiglia e migliaia di concittadini, abbiamo sempre sbagliato a dire “ed giangón” con la “o” chiusa. Tutto è possibile, ma per stabilire queste cose dovremmo avere ciò che non abbiamo, cioè regole, grammatiche e dizionari. Le prime non esistono, mentre di dizionari ce ne sono anche troppi (molti dei quali peraltro antichi e superati), ma, in queste condizioni, chi può dire quali siano i dizionari giusti? Chi può affermare con certezza che una parola o un discorso si dicano e si scrivano in un certo modo anziché in un altro?
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Paolo Canè
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