mercoledì 3 settembre 2008

IL BOLOGNESE IN CUCINA

Lungi da me l’idea di parlare di cucina, argomento già fin troppo trattato da ogni rete televisiva, da centinaia di libri e riviste, del quale, peraltro, non capisco nulla.
Voglio solo parlare di alcuni arnesi della cucina, il cui nome è apparentemente strano, poiché abbastanza lontano dal termine della lingua. Tralascerò quindi moltissime parole come “p’gnàta, misclén, tàza, curtèl, cuérc’, ecc.”, poiché non molto dissimili dalle corrispondenti in italiano “pignatta, mestolo, tazza, coltello, coperchio, ecc.”
La terminologia che riguarda, oltre la cucina, tutti i mestieri tradizionali (falegname, muratore, meccanico, ecc.) comprende molte parole tipicamente dialettali e questo succede in tutti i dialetti. Parole che vengono spesso “italianizzate” dando origine a buffi incroci che sono comprensibili solo agli utenti di quel dialetto. Ma vediamo alcuni termini che riguardano la cucina, con i corrispettivi italiani, italo-bolognesi e con qualche tentativo di spiegazione etimologica:
buvinèl (imbuto), parola ormai sconosciuta ai giovani, ma che non ha altro termine, se non lo scherzoso “buvinello”, detto anche a chi è molto fortunato (bu…). Ogni regione ha il suo termine tipico: qualcosa di simile a “embusùr” (Piemonte), “pidariòl” (Romagna), ecc., il primo simile a ”imboccatore”, di chiara influenza francese (anche se il termine ufficiale è “entonnoir”, infatti “entonner” significa “mettere in botte”), il secondo…non so proprio da dove derivi! Il nostro “buvinèl” potrebbe avere a che fare con la radice “buv-“ (pure d’origine transalpina) che è alla base di altre parole, come “buvette=bettola, osteria” ed è forse lo stesso “bu” inserito nella parola “imbuto”, ma anche “be-“, “bi-“ di bere, bibita,ecc., stavolta di certa origine latina. Una fonte fa risalire “buvinèl” a “imbutinello”…sarà vero?
calzàider (secchio), più propriamente “secchio di rame”, termine usato anche dai muratori, che è però in fase di avanzata obsolescenza, poiché è ormai sconosciuto anche a molti adulti, in quanto sostituito da “mastèla”. Questo antico termine dovrebbe derivare da una voce del latino medievale del tipo “calcitrum”.
gradèla (graticola) che solo scherzosamente noi chiamiamo “gradella”, magari senza sapere che “gratella” è parola antica, ma ancora esistente come diminutivo di “grata”, come, del resto, lo è anche “graticola”, più aderente però al latino “graticula”.
pistadùra (tagliere) termine che a Bologna portiamo con disinvoltura, pari pari, in italiano, anche perché “tagliere” ci fa pensare ad un’altra cosa (vedi in seguito). E come “tagliere” si riferisce evidentemente a “tagliare”, così “pistadura” si riferisce a “pestare”, ma è anche probabile che perpetui un antico “pestatoia”, come, del resto, “pestatoio” è il ceppo su cui si pestano le castagne secche. Alcuni bolognesi, che intendono parlare bene l’italiano, rifiutano il termine “tagliere”, preferendo “mortaio” che però è cosa diversa, in quanto a forma di scodella e non piana.
ramén-na (schiumarola): chi chiama questo attrezzo col nome tosco-italiano, rischia di non essere capito, poiché da noi si dice sempre ed invariabilmente “ramina”! E’ probabile che il suo nome si riferisca al fatto che l’attrezzo era (e spesso è) di rame.
róla (teglia),che noi traduciamo in “ruola”,ma possiamo anche chiamarla giustamente “teglia”, poiché in dialetto esiste anche il termine “tàiia” col bellissimo diminutivo “tién” (colui o colei che tengono insieme la famiglia sono chiamati, secondo un vecchio detto, “quàll ch’tén drétt al tién”!).
ruscaróla (pattumiera), vecchio termine, ormai sostituito dal brutto “patumìra”, che si riferisce al nostro “róssch”, tradotto invariabilmente in “rusco”, parolina breve e perfetta che dovrebbe essere adottata anche dall’italiano, dove peraltro esiste, ma come “altro nome del pungitopo”!
scudèla (tazza), qui s’inserisce un malinteso tutto petroniano!In italiano la “scodella” è una grossa tazza, mentre per noi è il “piatto fondo”, quello usato per la pasta o per la minestra brodo (tra l’altro, il termine “minestra” è da noi usato anche per la pasta e per qualsiasi tipo di primo!). Perciò questo tipo di piatto, che in altre regioni si chiama “piatto fondo, fondina, piatto cupo,ecc.,da noi viene chiamato universalmente “scodella”.
sculadùr (colabrodo o colapasta) è parola dialettale che non è mai tradotta in italo- bolognese. Sembrerebbe simile ad un antico “scolatoio”, abbastanza simile ai termini in lingua, che fa parte delle tante parole bolognesi che iniziano per “s” come rafforzativo del loro intrinseco significato (scanzlèr, stravultèrs, spigazèr, ecc.), ciò che probabilmente accadeva anche in lingua e talvolta ancora accade (svuotare, col significato di vuotare completamente). Esiste anche l’ormai poco usato “passén” per indicare il “colino”, cioè un colabrodo di piccole dimensioni, che alcuni chiamano “culén”, incuranti del doppio senso!
spartùra (madia), termine antico che ormai non esiste più, anche perché la madia stessa non esiste più. È un termine che può apparire nei testi antichi, nelle poesie e nelle “zirudelle”, ma volerlo ancora usare oggi è un inutile esibizionismo.
sprunèla (rotella tagliapasta), il nome italiano di questo piccolo attrezzo è troppo lungo oltre che vagamente buffo. Per noi è invariabilmente la “spronella” e si usa quando si fanno in tortellini! Certamente deriva il suo nome dallo “sperone” che appunto ricorda nella sua forma di ruota dentata. Esiste in italiano anche il termine “spronella” o “speronella”, ma è il nome di una pianta!
stièr (acquaio) che noi tutti chiamiamo “secchiaio”, probabilmente perché un tempo, anche in mancanza del rubinetto, aveva un gancio al quale stava appeso il secchio. Si riferisce unicamente a quello di cucina, poiché quello del bagno si chiama “lavandén” e cioè “lavandino” (lavello)! È strano il fatto che solo il caso di “stièr” richiami la parola italiana “secchio” che, come abbiamo visto, era “calzèider” ed è “mastèla”. Singolare è il detto “lulé l’à al césso e al stièr in cà” per definire chi ha tutte le comodità, con riferimento ai tempi nei quali tali servizi erano, in comune, fuori casa!
tirabursàn (cavatappi), senza stare a sottilizzare se “tirabursàn” o “tirabursòn” (in questo e in mille altri casi le due pronunce coesistono), è l’unico termine per questo attrezzo che noi italianizziamo in “tiraborsone” solo quando scherziamo, per tacere del diffuso,pure scherzoso,“tirabusàn”. È notoriamente parola francese (tirebouchon) che fa parte, più o meno storpiata, di tutti i dialetti italiani dalle Alpi alla Sicilia.tulìr (spianatoia). Come nessuno chiamerebbe “tagliere” la “pistadùra”, così nessuno chiamerebbe “spianatoia” il “tulìr”, che a Bologna è per tutti il “tagliere”.
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Paolo Canè

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