Avevo quattro o cinque anni, quando vivevo sfollato con la famiglia a Castel de’ Britti e la vecchia chiesa, oggi in disuso perché pericolante, aveva un campanile con quattro campane. Ricordo ancora il suono gioioso dei giorni di festa, quando suonavano a stormo o a martello, non so, ma so che noi li chiamavamo “i dóppi”.
I campanari bolognesi, da sempre tra i migliori d’Italia, erano uomini forti e coraggiosi: per manovrare quei mastodonti di bronzo, in piedi, sui tralicci del campanile, ci voleva forza, poiché ognuno aveva una campana che teneva con le mani in bilico, per poi lasciarla andare quando era il momento. Teneva il battaglio (al batóc’) fermo con una mano e nell’altra una corda che serviva per fare tornare lo strumento nella sua posizione iniziale, in attesa del prossimo tocco. Quattro erano le campane dei doppi, di quattro misure diverse, con quattro suoni diversi: oltre alle doti suddette era anche necessario andare in tempo, proprio come per suonare in orchestra! I quattro suoni (che noi bambini chiamavamo “din-da-la-don”) si possono confrontare alle note SOL-RE-MI-DO in rapida successione ed occorreva qualche minuto prima che tale successione diventasse perfetta. A volte la terza campana suonava prima della seconda e il risultato era perciò SOL-MI-RE-DO oppure anche RE-SOL-MI-DO che era bello lo stesso! Il frastuono e le vibrazioni sul campanile erano terribili, per questo a chi ci sente male si dice “campanèr”. I campanari avevano accanto il fiasco del vino e parlavano tassativamente in bolognese; il capo dava gli ordini: “Dàu ed dindén-na e ónna ed dindón” (ricordo ancora queste parole), dove “dindén-na” era la campana piccola e “dindón” quella grande.
Qualche anno dopo, quando ero un po’ più grandicello, il campanaro mi lasciava suonare la campana del mezzogiorno: io, orologio alla mano, non aspettavo altro, qualche secondo prima cominciavo a tirare la corda, finché la campana avviata non cominciava i suoi rintocchi. Che gioia per gli orecchi! Mi attaccavo alla corda che mi faceva alzare da terra di almeno un metro! Il campanaro era un vecchio vizzo e calvo che aveva una gran passione per il “barbera” coltivato nella sua vigna e sapeva suonare qualche motivo con le campane: quando ne aveva voglia, prendeva due catenelle nelle due mani e altre due nei piedi (le catenelle erano fissate ai quattro battagli) e suonava gioiosi motivetti con quelle sole quattro note.Le campane, i campanari e i campanili hanno da sempre avuto significati diversi nel nostro dialetto, come del resto anche nella lingua. “Campanèr” è dunque il sordo; “Stèr in campèna” significa stare all’erta; “Una brótta campèna” è una brutta notizia; “Campanéll” è sia lo sparo verticale del cacciatore che il tiro in alto dato alla palla nel gioco del calcio; “Ascultèr el dàu campèn” significa sentire le due versioni di uno stesso fatto; “Campanén” è una piccola campana, ma anche il campanello della bicicletta e perfino quello, magari elettrico, di casa: Menarini ricorda la filastrocca, riferita al Palazzo degli Strazzaroli, il quale avrebbe “Nóv pórt, nóv f’nèster, nóv f’nistrén, la Madóna col campanén”. Io invece ricordo la mia lieta ed inconsapevole infanzia (c’era la guerra), quando ascoltavo il suono dei “dóppi” e la cantilena che mi sussurrava mia nonna: “Din, Dàn, dón, la campèna di frè Simón…”. Tutti suoni che stanno svanendo nel tempo… come i campanari…come il bel dialetto bolognese.
I campanari bolognesi, da sempre tra i migliori d’Italia, erano uomini forti e coraggiosi: per manovrare quei mastodonti di bronzo, in piedi, sui tralicci del campanile, ci voleva forza, poiché ognuno aveva una campana che teneva con le mani in bilico, per poi lasciarla andare quando era il momento. Teneva il battaglio (al batóc’) fermo con una mano e nell’altra una corda che serviva per fare tornare lo strumento nella sua posizione iniziale, in attesa del prossimo tocco. Quattro erano le campane dei doppi, di quattro misure diverse, con quattro suoni diversi: oltre alle doti suddette era anche necessario andare in tempo, proprio come per suonare in orchestra! I quattro suoni (che noi bambini chiamavamo “din-da-la-don”) si possono confrontare alle note SOL-RE-MI-DO in rapida successione ed occorreva qualche minuto prima che tale successione diventasse perfetta. A volte la terza campana suonava prima della seconda e il risultato era perciò SOL-MI-RE-DO oppure anche RE-SOL-MI-DO che era bello lo stesso! Il frastuono e le vibrazioni sul campanile erano terribili, per questo a chi ci sente male si dice “campanèr”. I campanari avevano accanto il fiasco del vino e parlavano tassativamente in bolognese; il capo dava gli ordini: “Dàu ed dindén-na e ónna ed dindón” (ricordo ancora queste parole), dove “dindén-na” era la campana piccola e “dindón” quella grande.
Qualche anno dopo, quando ero un po’ più grandicello, il campanaro mi lasciava suonare la campana del mezzogiorno: io, orologio alla mano, non aspettavo altro, qualche secondo prima cominciavo a tirare la corda, finché la campana avviata non cominciava i suoi rintocchi. Che gioia per gli orecchi! Mi attaccavo alla corda che mi faceva alzare da terra di almeno un metro! Il campanaro era un vecchio vizzo e calvo che aveva una gran passione per il “barbera” coltivato nella sua vigna e sapeva suonare qualche motivo con le campane: quando ne aveva voglia, prendeva due catenelle nelle due mani e altre due nei piedi (le catenelle erano fissate ai quattro battagli) e suonava gioiosi motivetti con quelle sole quattro note.Le campane, i campanari e i campanili hanno da sempre avuto significati diversi nel nostro dialetto, come del resto anche nella lingua. “Campanèr” è dunque il sordo; “Stèr in campèna” significa stare all’erta; “Una brótta campèna” è una brutta notizia; “Campanéll” è sia lo sparo verticale del cacciatore che il tiro in alto dato alla palla nel gioco del calcio; “Ascultèr el dàu campèn” significa sentire le due versioni di uno stesso fatto; “Campanén” è una piccola campana, ma anche il campanello della bicicletta e perfino quello, magari elettrico, di casa: Menarini ricorda la filastrocca, riferita al Palazzo degli Strazzaroli, il quale avrebbe “Nóv pórt, nóv f’nèster, nóv f’nistrén, la Madóna col campanén”. Io invece ricordo la mia lieta ed inconsapevole infanzia (c’era la guerra), quando ascoltavo il suono dei “dóppi” e la cantilena che mi sussurrava mia nonna: “Din, Dàn, dón, la campèna di frè Simón…”. Tutti suoni che stanno svanendo nel tempo… come i campanari…come il bel dialetto bolognese.
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Paolo Canè
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