martedì 4 novembre 2008

3 x 7 = 21

La differenza tra la lingua e il dialetto non sta soltanto tra le diverse regole fonetiche, morfologiche e grammaticali, né sul fatto che in lingua tutto ciò è consolidato e regolato, mentre nel dialetto è approssimativo ed opinabile. La differenza sta anche nello spirito delle due parlate: l’italiano è in qualche modo solenne ed è parlato da persone più colte, mentre il dialetto (soprattutto il nostro), forse perché parlato da persone meno acculturate, è sempre ironico, pungente ed infarcito di proverbi, di modi di dire e di “formule espressive” condivise che, spesso, non vogliono significare nulla! Per le persone di scarsa cultura è molto facile, direi quasi indispensabile, ricorrere a frasi fatte, non certo perché manca la fantasia (quella c’è eccome!), ma perché i parlanti hanno maggiori difficoltà ad esprimere un concetto proprio, fatto all’istante, che possa rendere l’idea di ciò che vogliono dire. Dunque si ricorre al proverbio o al discorso “inutile”, quest’ultimo allo scopo di riempire il silenzio di chi trova difficoltà a proseguire, nonché di rendere il discorso, in qualche modo, più solenne e, nel caso dei bolognesi, più buffo, ironico e gradevole all’interlocutore.
Queste non sono caratteristiche esclusive del bolognese, ma particolarità più accentuate da noi che altrove: un modo di esprimersi che ci portiamo anche quando parliamo in italiano, ciò che rende la nostra parlata gradita a molti, se non a tutti.
Il bolognese è considerato simpatico, pacione ed allegro un po’ da tutti: non è vero, o almeno, non è sempre così, ma il nostro modo di parlare e di essere lo fa credere.
Ho notato che anche gli altri dialetti tendono spesso all’ironia, alla presa in giro e ad essere infiorati di proverbi, modi di dire e frasi fatte: evidentemente la medesima condizione di scarsità culturale produce gli stessi effetti dappertutto.
Nel corso delle mie (oziose) elucubrazioni su questa materia, ho fatto mille esempi su ciò che intendo dire. Ora farò un esempio di frase fatta ed inutile ancora abbastanza diffusa, anche se ormai assente dalla bocca dei giovani.
“Trì và a sèt ventión, un frànch e un sóld!”
Cosa significa? Significa “tre per sette, ventuno” e…nulla! Ma vediamo di fare l’analisi di questa formula, anzi, visto che essa è in via d’estinzione, facciamone… l’autopsia! È una frase che dice chi fa di conto, ma non per significare semplicemente che tre per sette faccia ventuno,quanto per ironizzare su un conteggio approssimativo o per dire qualcosa di buffo o per mascherare con la voce un conto mnemonico, prendendo tempo, con quella formula, prima di dare il risultato. Una cosa molto più facile da dire che da spiegare! È comunque una frase che merita qualche riflessione: la moltiplicazione, che in italiano fa “tre per sette”, in dialetto fa “trì và a sèt”, o almeno, lo faceva una volta (non mi si chieda perché!), mentre oggi si dice comunemente “trì par sèt”. Il “frànch” era la lira: esisteva anche “lìra” col suo plurale “lìr”, ma normalmente si usava “frànch”, invariato al singolare e al plurale, forse per influenza francese ed è questo uno dei motivi per cui alcuni, erroneamente, imparentavano il nostro dialetto con quella lingua. Infine il “sóld” (che al plurale significa ancora oggi “denaro”) era la moneta da 5 centesimi, come lo “scùd” era quella da 5 lire: due parole derivate dalla lingua (soldo e scudo). Per fare una lira occorrevano 20 soldi, ed ecco il significato della frase: 21 è una lira più un soldo!
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Paolo Canè

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