martedì 25 novembre 2008

LA QUESTIONE DEGLI ACCENTI E DEGLI APOSTROFI

È una questione “schiccia” (come si dice da noi), quanto meno lo è per me che scrivo in bolognese da anni, ma sono ben lontano dall’avere certezze su un dialetto che, in quanto tale, non ha regole né grafiche, né fonetiche, né sintattiche. Come ho già detto più volte, io cerco di seguire gli insegnamenti di Alberto Menarini, ma, così come fece lui, anch’io, nel mio piccolo, ho dovuto trovare un mio sistema. Egli infatti adottò il puntino sulla “n” nasale e sulle “s” e “z” dolci, ciò che io non potevo fare con la macchina da scrivere e non posso nemmeno fare con il “computer”, così ho adottato il suo vecchio sistema per le “n” nasali (n-n), ma solo per le parole al femminile, lasciando al lettore il compito di capire da sé quando la “n” al maschile sia nasale, così come quando le “s” e le “z” siano dolci. Rispetto a lui io esagero con accenti e apostrofi, non perché ritenga sbagliato il suo sistema (anche la lingua italiana ha eliminato quasi tutti tali segni diacritici), ma perché sono convinto che il lettore principiante (e tutti siamo principianti, poiché nessuno ci ha mai insegnato il dialetto!), possa essere agevolato nella non facile lettura. Magari è solo una mia convinzione, ma credo che anche un eccesso di accenti, sia meglio che fare nuove invenzioni grafiche, le quali obbligherebbero ad un ragionamento chi è già in difficoltà per decifrare ciò che non è abituato a leggere.
L’italiano aveva i suoi begli accenti (se non sbaglio, il dizionario Pedròcchi li riporta ancora, perfino in copertina!), ma ora ne sono rimasti pochi. Ad esempio nelle voci verbali future come “vedrò, andrò”, ecc. dato che quella “ò” non è altro che la voce del verbo “avere”, poiché così si è formato il tempo futuro: andrò significa “andare ho”, come risulta da antichi testi medievali e anche in certi dialetti. Ricordo che, nella bella canzone napoletana “Era de maggio”, Salvatore Di Giacomo (anche per far rima con “maggio”) usa il verbo “turnaràggio” (aggio a turnà), cioè “tornerò”. Accenti li troviamo sulle parole tronche: “cioè”, “perché” (ecco due casi di accenti grave e acuto: su cioè la “e” è aperta e su perché è chiusa), “però” e anche…”Canè”! Mentre ne troviamo pochi su parole che possono creare ambiguità (classico è l’esempio di àncora e ancóra), come “là” per distinguere questo avverbio di luogo dall’articolo femminile e dalla nota musicale. Anche i tedeschi hanno fatto come noi e la vecchia accentazione si trova oggi solo nelle scritture a mano di alcuni anziani. I francesi non ne possono fare a meno (gravi e acuti), mentre io penso che potrebbero, poiché in quella lingua non ci sono dubbi di pronuncia: quasi tutte le parole sono accentate sull’ultima sillaba! Invece essi hanno anche l’accento circonflesso che si trova soprattutto e curiosamente su parole che hanno avuto in passato la “s”, consonante che vive nelle corrispondenti parole italiane: âne=asino, être=essere, apprêter= apprestare e mille altre. Gli inglesi, tanto per completare la carrellata sulle principali lingue europee, di accenti non ne hanno, d’altronde quella è una lingua che detiene il record della praticità. Per tornare al nostro italiano, è abbastanza comprensibile che esso si modernizzi ed elimini alcuni elementi: da secoli è sparita la “k”, è sparita la “j”, sono sparite le dieresi, gli accenti circonflessi e gran parte degli altri accenti, i quali, tuttavia, sarebbero ancora utili, se non altro per eliminare i nostri tanti dubbi e per evitare parecchi penosi errori, anche da parte di persone di buona cultura.

Ho sentito in televisione bestialità come “Orgosòlo”, “Nuòro” e “Frìuli” e almeno il 90% degli italiani non sa che si dice “scandinàvo” e non “scandìnavo”! E questi non sono che quattro esempi tra mille! Esimi linguisti, come Aldo Gabrielli, hanno pubblicato diversi libri sulle ambiguità della nostra lingua e molte di esse sono nate proprio a causa della mancanza degli accenti. Infatti è molto frequente che una parola sbagliata, a furia di essere usata anche da scrittori e poeti, cessi di essere “sbagliata” per diventare “consentita”. Moltissime sono le parole per le quali troviamo “si dice così, ma è consentito dire anche così”, ciò che nel latino non sarebbe mai successo.
Parole come “àlacre, alchìmia, amàca, cucùlo, diàtriba, gòmena, monòlito, ecc.” hanno una loro accentazione etimologicamente corretta, ma, dato che quasi sempre vengono pronunciate con quella sbagliata, finiscono per essere accettate e perciò anche i linguisti consentono la doppia forma. Ma non si tratta solo di accenti: spesso capita che alcuni errori di grammatica finiscano per diventare…corretti. A titolo di unico esempio, ricordo come incredibilmente “pomodori” sia diventata la forma plurale e corretta di “pomo d’oro”: avanti così, avremo presto anche i “capostazioni”!
Dunque è inevitabile che la lingua cambi e di conseguenza che spariscano gli accenti, ma poi non lamentiamoci se la gente dice Orgosòlo, Nuòro e Frìuli!
Per tornare al nostro dialetto, il Menarini mette gli accenti solo dove sono necessari (e certo fa bene!), ma io li metto quasi su ogni parola per togliere ogni dubbio e, come ho detto, per facilitare la lettura a prima vista, poi magari, quando avremo imparato tutti a leggere bene, forse…ne toglierò anch’io una buona parte!
Vediamo qualche esempio di come scrive Menarini (in grassetto) e come scrivo io:
Cum él stè? (com’è stato?), io metto l’accento sulla “u” e anche l’apostrofo, perciò: Cùm’él stè?. An ho durmé gnanc una gàzza (non ho dormito per nulla), io non metto la “h” nel verbo “avere” (ma è una mia scelta arbitraria), al cui posto metto l’accento (mé ai ò, té t’è, ló l’à, làur i àn), inoltre, nella parola “gnànch”, oltre a mettere l’accento, aggiungo anche la “h” per indurre il lettore al suono duro della “c”, perciò: An ò durmé gnànch una gàzza. Ai dà dòu gazz (piove appena), io metto l’accento su “gàzz” oltre a scrivere “dàu”, ma questo è un problema di pronuncia di difficile soluzione, poiché in moltissime parole una parte di bolognesi dice “ò” e un’altra parte (me compreso!) dice “à”. Dunque: ai dà dàu gàzz. An ciap brisa dimondi, mo am la sgavàgn (non guadagno molto, ma me la cavo), in questa frase io metto ben 4 accenti in più: probabilmente è giusta la grafia del Maestro, ma io credo che il mio modo sia più comprensibile per chi legge, cioè “An ciàp brìsa dimóndi, mó am la sgavàgn”.
Per quanto riguarda gli accenti non è moltissima la differenza tra come faceva il grande studioso a cui mi riferisco e come faccio io: potrei fare molti altri esempi, tuttavia la differenza resterebbe poca. Credo che chi ha voluto riesumare o, peggio, inventare altri accenti abbia fatto un lavoro inutile. Forse anche fuorviante.
Ripeto che il solo motivo per il quale io insisto con l’eccesso di accenti è quello di rendere più comprensiva la lettura, come se tutti noi fossimo dei bambini alla prime armi, del resto, se tutti noi avessimo imparato a scuola l’italiano accentato, forse oggi faremmo meno errori, quando parliamo la nostra bellissima lingua!

Ugualmente “schiccia” è la questione degli apostrofi, segni che indicano l’elisione di una vocale o il troncamento di una parola. Segni che esistono principalmente nelle lingue con molte vocali (italiano e francese) e quasi per nulla nelle altre. In tedesco, a quanto mi risulta, non esistono e in inglese esistevano forse una volta, ma oggi vivono soltanto in alcuni cognomi irlandesi (O’Hara, O’Neil, dove “O’” sta per il genitivo “of”) e nella forma del genitivo sassone. In italiano sono frequentissimi nei casi delle preposizioni o degli articoli, in presenza di parole che iniziano con vocale (l’albero, dell’acqua), frequenti in altri casi, però quasi solo in Toscana (gl’inglesi) , ma abbastanza rari nei troncamenti delle parole. A memoria mi vengono in mente “po’” per “poco”, “fa’, va’ e di’”! per “ fai, vai e dici”, “fra’ per “frate”, quest’ultimo in avanzata fase di…obsolescenza! Ma credo che in passato i casi fossero molto più frequenti ed usati, basti pensare a certi nomi di vari toponimi come con “Camastra”, Ca’ Selvatica” (per Casa) , Castelnuovo ne’ Monti, Castel de’ Britti, ecc.
Il dialetto bolognese che, non dimentichiamolo, è un dialetto italiano, segue (deve seguire!) le stesse regole della lingua italiana: l’àlber, l’óngia, l’óss (l’albero, l’unghia, l’uscio), ovviamente tranne quelle parole che hanno incorporato l’articolo e che quindi ne richiedono un altro: la làddra, al làm, la làza, al lusgnól, la làssca (l’edera, l’amo, l’accia, l’usignolo, l’esca). In casi come questi mi resta il dubbio sul fiume Idice e l’omonima frazione di San Lazzaro che in dialetto suonano Léc’, ma non mi è chiaro se si debba scrivere l’Édc’ oppure se sia stato incorporato l’articolo, nel qual caso si dovrebbe scrivere al Lédc’, ma propendo per la prima ipotesi. In dialetto la questione è più complicata, per due principali motivi:
- a differenza dell’italiano, sono molte le abbreviazioni e le elisioni, peraltro tipiche di un linguaggio solo parlato, e l’apostrofazione diventa assolutamente necessaria.
Sono i casi di ch’la (quella), ch’m’èt fàt? (come hai fatto?) e molti altri.
- il nostro dialetto (come quasi tutti quelli settentrionali) risente dell’unica eredità che ci hanno lasciato i barbari nei lunghi secoli della loro dominazione e delle loro invasioni: la caduta di molte vocali, perciò, anche in questo caso, gli apostrofi, messi opportunamente dove c’era una vocale, favoriscono una più agevole lettura. Sono i casi di p’sàir, v’làir, v’gnìr, g’gósst, c’càrrer, ecc. (potere, volere, venire, dispiacere, parlare) dove sono cadute le vocali, i quali si potrebbero anche scrivere psàir, vlàir, vgnìr, per non parlare degli antiquati (ed inesatti) dsgóst e dscòrrer, ma credo che l’apostrofo faccia capire meglio al lettore, oltre che ad essere più opportuno, poiché evidenzia che in quel punto, una volta, c’era una vocale. Sono tutti discorsi che faccio a me stesso per spiegarmi e per spiegare, ma non essendoci una regola alla quale attenersi, tutto può essere messo in discussione. Nessuno potrà mai dire che ho ragione, ma… nemmeno che ho torto!
Un dubbio che mi tormenta da anni riguarda la “c” apostrofata. Il Comune, si sa, si dice la C’món-na, che si potrebbe anche scrivere la Cmón-na o, col più recente metodo Menarini, la C’mónna, col puntino sopra la prima “n” poiché nasale. In ogni caso, come fa il lettore a capire, a prima vista, che quella “c” è dura? Abbiamo già visto che il verbo “parlare” (discorrere), forse attraverso discorrer, poi dscòrrer, è approdato all’attuale pronuncia (e perciò anche alla grafia) di c’càrrer.

Così anche c’piasàir (dispiacere), c’nómm (moina), ecc. Tutti casi nei quali la “c” è dolce e perciò ecco il problema: come distinguere C’món-na da c’càrrer? Non è possibile che una stessa grafia si possa leggere in due modi diversi! Se fossi un pazzo, sarei andato a disseppellire la “k” ad avrei scritto K’món-na, ma credo che non sia proprio il caso: di pazzi ce ne sono già abbastanza in giro! Perciò i casi sono due: o scrivere C’món-na e c’càrrer, lasciando al povero lettore il compito di sapere se si tratti di “c” aspra o dolce, oppure ricorrere ad un “escamotage” e rendere la “c” aspra con la “h”, come esige la regola nella lingua italiana. Confesso di averlo già fatto in parecchie occasioni, anche se la grafia appare buffa, con una “h” che in italiano non c’è, ma non ne sono ancora del tutto convinto! (Problema che ho risolto a pag. 46!).
Ma vediamo, anche per gli apostrofi, qualche confronto tra il Menarini (in grassetto) e il sottoscritto: lulé l é un ban da gninta (quel tizio è un fannullone), io metto l’apostrofo, oltre a qualche accento in più, perciò: lulé l’é un bàn da gnìnta. Talvolta però lo mette anche Menarini, infatti: l’é come me (è come me), frase che io scrivo l’é cóme mé, aggiungendo accenti e talvolta scrivendo cómme con due “m”, poiché è così che molti bolognesi pronunciano. Cm èt fat? (come hai fatto?), dove io metto l’apostrofo e magari anche la famigerata “h”, oltre ad un accento in più: Ch’m èt fàt? Cal ragàz ch’é lé (quel ragazzo lì), come sopra: Ch’al ragàz ch’é lé. Però una sgnófla ed taiadèl ch’fèva póra (una grande quantità di tagliatelle) è una frase che io scrivo esattamente come lui. Quasi la stessa cosa per ch’l’ha rimpé (che ha riempito), classico esempio di elisioni a catena (che lui ha riempito), dove io tolgo soltanto la “h” dalla voce del verbo “avere”e scrivo ch’l’à rimpé.
Ed anche in questo caso occorre dire che le differenze sono poco rilevanti.
Nel caso della preposizione femminile “della”, ho trovato sia dla che d’la ed è ovvio che io preferisca la forma con l’apostrofo che sottolinea la caduta della “e” e, rispetto all’italiano, anche di una “l”, ma questa delle consonanti doppie non rispettate ( in special modo nel Veneto) è un’altra eredità dei barbari. Quando però il sostantivo che segue inizia per vocale, si dovrebbe scrivere d’l’amìgh (dell’amico), con un apostrofo che sostituisce la vocale e l’altro che ricalca le regole della lingua italiana. In questi casi, spesso (anzi, quasi sempre) io preferisco la forma dl’amìgh che è forse meno corretta, ma più agevole da scrivere e da leggere. Faccio notare che amigh (amico) lo scrivo con la “h” per indurre alla pronuncia della “g” dura, mentre il femminile fa naturalmente “amìga”.
Anche se non c’entrano nulla con accenti e apostrofi, voglio qui ricordare un altro paio di cosette. In italiano, tra il singolare ed il plurale, cambia soltanto la vocale finale (bolognese, bolognesi), mentre in dialetto il finale resta uguale e cambiano le penultime vocali (bulgnàis, bulgnìs): ciò che accade spesso in tedesco! Tra le tante anomalie, faccio notare l’ennesima doppia forma usata per uno stesso verbo: “quella cosa non serve a nulla”, si può dire ch’al quèl an sérv a gnìnta, ma anche ch’al quèl an séruv a gnìnta e sono corrette entrambe le forme sérv e séruv! Ma altre stranezze analoghe le vediamo nel prossimo capitolo…e ne vedremo anche in seguito.
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Paolo Canè

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