martedì 9 dicembre 2008

IL MISTERO DELLA “C” (MA ANCHE DELLA “G”)!

In un precedente capitolo, parlando della "c" apostrofata iniziale (c'càrrer, C'món-na) avevo pensato di mettere una "h" per rendere la "c" dura e così differenziarla da quella dolce. Poi avevo pensato di scriverle allo stesso modo (obiettando tuttavia che due grafie uguali non possono avere due diverse pronunce) e lasciare al lettore il compito di capire quando si trattava di "c" dolce o dura. Ma avevo anche aggiunto di non esserne del tutto convinto. E ancora non ne sono convinto affatto!
Dato però che debbo arrangiarmi, come tutti hanno fatto finora, ho deciso che, per quel che mi riguarda, la "c", davanti ad un'altra consonante, se apostrofata sarà sempre dolce: c'càrrer, c'piasàir, c'nómm, ecc., mentre quella non apostrofata sarà sempre dura: Cmón-na, cminzipièr, cmandèr, ecc. Forse il lettore avrà qualche iniziale esitazione, ma almeno avremo due diverse grafie per due diverse pronunce,...senza andare ad inventare soluzioni strane! La "c" dolce: ho già detto spesso che questa moderna soluzione si applica per quelle parole che una volta iniziavano per "ds" (dscàrrer, dspiasàir, come l'italiano "discorrere" e "dispiacere") dove, in un primo tempo, è caduta la "i" e, in seguito, il gruppo "ds" si è trasformato, nel dialetto parlato, in "c", che, davanti ad un'altra consonante, prende l'apostrofo.
Semmai dovremmo farci una domanda: perché le parole derivate da dscàrrer e dspiasàir prendono la "c", mentre quelle derivate da dsnèr e dsgósst prendono la "g" (g'nèr e g'gósst)? Non ho una risposta, ma, come al solito, posso solo fare una supposizione: le parole prima latine e poi italiane "discorrere" e "dispiacere" prevedono la "s" aspra di "seno", mentre "desinare" e "disgusto" hanno quella dolce di "casa". Sembrerebbe dunque che ad "s" aspra corrisponda la "c" e a quella dolce la "g" e…potrebbe anche essere giusto! Analogamente anche le parole che hanno a che vedere con "testa": c'tàn (testone), c'timóni (testimonio) e c'tamànt (testamento).
La "c" dura: se, da un lato, sono contento di aver risolto il mio piccolo problema, dall'altro credo che si debba fare qualche eccezione (altrimenti che regola sarebbe?).
Perciò la "h" resta nei casi di "che" e "quello": ch'al vén e un perfetto esempio, poiché significa sia "che (egli) viene" che "quel vino", mentre calvén senz'acca è… Calvino! Scherzo, ovviamente! Gli esempi sono mille: quàlla ch'la và (che), ch'al bèl sugèt (quel), ecc. In italiano nel primo caso abbiamo la "c" e nel secondo la "q" (in dialetto la "q" iniziale, per "quella", non si usa più, infatti una volta si scriveva q'la), ma nella grafia dialettale penso che la "h" faciliti convenientemente la lettura. Senza considerare che l'antico ch'al (quel) veniva scritto cal, come fosse… un callo!
Ci sono inoltre i casi di "come" e "cosa", parole nelle quali, venendo a cadere la "o" sarà bene aggiungere oltre all'apostrofo, anche la "h" (ch'mé e ch'sa), altrimenti si avrebbe c'mé e c'sa o, peggio, cme e csa, che sarebbero molto ardui da leggere.
Esistono infine altri casi nei quali l'aggiunta della "h", oltre che essere giusta, rende più facile la lettura a prima vista e sono, ad esempio: ch'tè (coso) dove la grafia c'tè o, peggio, ctè potrebbero indurre a quella "c" dolce che non è; póch (poco), che non sarebbe corretto scrivere póc, poiché la "c" è dura, perciò anche il suo diminutivo puch'tén mi piace scriverlo col la "h" e l'apostrofo! E ancora sèghma (tipo buffo), sburzighlén (capriccio, formicolio) e tanti altri casi ancora.
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Paolo Canè

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