I “misteri” del nostro dialetto sono legati soprattutto alla nostra ignoranza e la mia personale ignoranza mi vieta di capire ancora alcune cose, delle quali parlerò qui di seguito, ma è certo che i “misteri” sono molti di più!
dimóndi: significa “ molto-molti-molte”. Ho già scritto più volte che è un avverbio invariabile, che non esistono altre parole con lo stesso significato e che non ho la più pallida idea di dove questa parola derivi! Sono anni che cerco invano una spiegazione e continuo a non trovarla, perciò è giusto che dimóndi faccia parte di questo capitolo sui “misteri”. La sola (magra) consolazione è che, almeno per quanto risulta dalla mia esigua biblioteca, nessuno, nemmeno Menarini, ne ha trovato l’origine, anzi, tutti usano questa parola, ma nessuno spiega da dove nasca!
ció: altra parola che nessun dizionario riporta e nessuno dei libri in mio possesso ne parla. Si tratta di un’esclamazione, di un’interiezione che fa parte integrante del dialetto romagnolo, ma anche dei dialetti emiliani parlati, quanto meno, nei paesi intorno a Bologna, forse per la vicinanza della Romagna. Non si usa affatto nel bolognese di città, dove, anzi, è considerata un’esclamazione volgare e contadinesca.
Da dove derivi nessuno lo sa: non ha nulla a che vedere con il pronome dimostrativo della lingua “ciò” (= questa cosa) e nemmeno con la voce bolognese “ciù” che è il nome dell’assiolo, un uccello abbastanza comune. Apparentemente non ha nulla a che fare con l’italiano e col latino. Che cosa significhi è ugualmente difficile da spiegare: significa tutto e…nulla! Può voler dire “dico io” (ai sàn andè e, ció, an i éra pió inción) oppure “ehi tu” (Ció, dùvv vèt?) oppure “fate attenzione” (Ció, stè aténti ch’al càsca!) e mille altre cose ancora. Non fa parte del dialetto di città, ma è ovvio che, specialmente tra gli anziani, si sente ancora dire ovunque, per la presenza di bolognesi d’origine romagnola o campagnola. Ho pensato (…ma potrei anche sbagliare) che questo tipo di interiezione, come anche molti frasi fatte, sono tipici delle persone di scarsa cultura, le quali, proprio perché non sempre hanno la parola pronta, ricorrono o a frasi dette da altri o ad esclamazioni “multiuso” come ció che non significano nulla, ma che servono sia per riempire un attimo di silenzio, sia per dire qualcosa che al momento…non viene e che difficilmente verrà!
schécc’-schéccia, al contrario questa parola si trova in ogni dizionario ed è stata trattata da molti linguisti, tra i quali Menarini che ne dà esaurienti esemplificazioni. Significa “camuso” (di naso) ossia “piatto”, “schiacciato”, “rincagnato” e la sua etimologia, collegata al verbo “squizèr”, è nota e condivisa anche da studiosi di altri dialetti. Ma non è nell’etimologia il “mistero” di cui voglio parlare, bensì nell’uso che ne facciamo a Bologna sia della parola, al maschile e al femminile, che dei suoi diminutivi e accrescitivi: schicén, schiciàn, schiciàn-na, ecc. e soprattutto perché!
Infatti i significati sono di quattro tipi, diversi tra di loro e con valori diversi:
- “Pirén al schécc’” è un certo Pietro che ha il naso camuso.
- “L’é una fazànda schéccia” è un affare difficile, complicato.
- “Té t’i la m’ schicén-na”, tu sei il mio tesoro
dimóndi: significa “ molto-molti-molte”. Ho già scritto più volte che è un avverbio invariabile, che non esistono altre parole con lo stesso significato e che non ho la più pallida idea di dove questa parola derivi! Sono anni che cerco invano una spiegazione e continuo a non trovarla, perciò è giusto che dimóndi faccia parte di questo capitolo sui “misteri”. La sola (magra) consolazione è che, almeno per quanto risulta dalla mia esigua biblioteca, nessuno, nemmeno Menarini, ne ha trovato l’origine, anzi, tutti usano questa parola, ma nessuno spiega da dove nasca!
ció: altra parola che nessun dizionario riporta e nessuno dei libri in mio possesso ne parla. Si tratta di un’esclamazione, di un’interiezione che fa parte integrante del dialetto romagnolo, ma anche dei dialetti emiliani parlati, quanto meno, nei paesi intorno a Bologna, forse per la vicinanza della Romagna. Non si usa affatto nel bolognese di città, dove, anzi, è considerata un’esclamazione volgare e contadinesca.
Da dove derivi nessuno lo sa: non ha nulla a che vedere con il pronome dimostrativo della lingua “ciò” (= questa cosa) e nemmeno con la voce bolognese “ciù” che è il nome dell’assiolo, un uccello abbastanza comune. Apparentemente non ha nulla a che fare con l’italiano e col latino. Che cosa significhi è ugualmente difficile da spiegare: significa tutto e…nulla! Può voler dire “dico io” (ai sàn andè e, ció, an i éra pió inción) oppure “ehi tu” (Ció, dùvv vèt?) oppure “fate attenzione” (Ció, stè aténti ch’al càsca!) e mille altre cose ancora. Non fa parte del dialetto di città, ma è ovvio che, specialmente tra gli anziani, si sente ancora dire ovunque, per la presenza di bolognesi d’origine romagnola o campagnola. Ho pensato (…ma potrei anche sbagliare) che questo tipo di interiezione, come anche molti frasi fatte, sono tipici delle persone di scarsa cultura, le quali, proprio perché non sempre hanno la parola pronta, ricorrono o a frasi dette da altri o ad esclamazioni “multiuso” come ció che non significano nulla, ma che servono sia per riempire un attimo di silenzio, sia per dire qualcosa che al momento…non viene e che difficilmente verrà!
schécc’-schéccia, al contrario questa parola si trova in ogni dizionario ed è stata trattata da molti linguisti, tra i quali Menarini che ne dà esaurienti esemplificazioni. Significa “camuso” (di naso) ossia “piatto”, “schiacciato”, “rincagnato” e la sua etimologia, collegata al verbo “squizèr”, è nota e condivisa anche da studiosi di altri dialetti. Ma non è nell’etimologia il “mistero” di cui voglio parlare, bensì nell’uso che ne facciamo a Bologna sia della parola, al maschile e al femminile, che dei suoi diminutivi e accrescitivi: schicén, schiciàn, schiciàn-na, ecc. e soprattutto perché!
Infatti i significati sono di quattro tipi, diversi tra di loro e con valori diversi:
- “Pirén al schécc’” è un certo Pietro che ha il naso camuso.
- “L’é una fazànda schéccia” è un affare difficile, complicato.
- “Té t’i la m’ schicén-na”, tu sei il mio tesoro
- “Mé an sàn brìsa tànt schécc’ “non sono molto accomodante, espressione che vale anche quella analoga di “Mé an sàn brìsa tànt biànnd”!
-
Paolo Canè
Nessun commento:
Posta un commento