Prendo in esame questo detto, perché mi offre il pretesto per fare un ragionamento. Questo detto, come mille altri, è condiviso da tutti i bolognesi: non c’è parlante che non lo abbia mai usato o, almeno, mai sentito usare, come anche l’altro simile “trì cunchén i fàn una cànca”. Entrambi citano la “cànca” cioè la conca che è quel recipiente, in questo caso indispensabile ai muratori, solitamente di legno, di forma allungata e concavo per poter contenere calce, cemento ed acqua con cui essi possano preparare la malta, aiutandosi con la cazzuola. “Conca” in italiano è anche il recipiente della lavandaia e praticamente ogni recipiente atto a contenere qualcosa, termine che, per inciso, viene da una parola latina col significato di “conchiglia”, ma non ha nulla a che vedere col termine “concavo” il quale è formato da “cum” e “cavo”. Ma torniamo ai nostri detti popolari. Ci si chiede: che cosa significa? Nulla! Non significa nulla, poiché è soltanto un gioco di parole che usa la “cànca” solo per far rima con “dànca”! Analogamente l’altro detto dei “trì cunchén” che avrebbe potuto essere adattato ad una parola diversa, la quale però avesse il suo bravo diminutivo, poiché il significato non sarebbe cambiato, come il proverbio che dice “trài nàbbi i fàn una pióva”, ecc., cioè a dire che tante cose piccole ne formano una grande! E ancora ci si chiede: perché la gente usa questi detti? Mah, si potrebbe pensare che le persone ignoranti d’una volta non avesse grande dimestichezza con la parola (anche parlando dialetto) e che perciò preferisse pronunciare proverbi o detti, così, tanto per dire qualcosa. Si potrebbe pensare che, la sera, davanti al fuoco, in un mondo dove non c’erano giornali, libri, televisione, radio e cinema, la gente si trovasse davanti al fuoco a raccontare storie, ad inventare “balle” (e poi a crederci per primi!) e a ripetere proverbi e detti, per il gusto di conversare o per apparire gradevoli e simpatici. Fatto sta che, parlando in italiano, possiamo soffermarci un attimo per raccogliere le idee e pronunciare “Dunque…” e poi metterci al lavoro senza dire altro. Chi parla in dialetto, solitamente, dice “Dànca” e subito aggiunge “par fèr i muradùr ai vól la cànca!” E ci si potrebbe chiedere: chi per primo ha usato questa o queste espressioni? E sarebbe una bella domanda! Già, chi? Me lo sono chiesto altre volte. Ci sarà pur stato qualcuno che lo ha inventato, forse due, tre secoli fa e che poi ha avuto tanto successo, da diventare espressione usuale di un’intera città. E automaticamente il pensiero va a certi “inventori” d’oggi, che spacciano certi loro detti, per patrimonio comune e invece li usano solo loro e basta. Sono modi di dire spesso brutti o stucchevoli, ma questo non sarebbe nulla: ci sono pure antichi modi di dire che lo sono. La differenza sta nel fatto che, in un mondo che si esprimeva solo in dialetto, fatto di gente che aveva difficoltà a parlare, si sono potute inventare espressioni, le quali però hanno due caratteristiche: a) sono antiche b) sono note e condivise da tutti. Insomma, hanno il fascino dell’antica saggezza popolare. Quando sento certe parole, inventate oggi, quando il dialetto sta morendomi chiedo: perché lo fanno? Per interesse? Per apparire simpatici? Per voler far credere di conoscere il dialetto? Perché offendere e falsificare il mio dialetto?
Paolo Canè
Paolo Canè
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