sabato 29 settembre 2007
NUIORK NUIORK (n. 72)
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 13:44:00 0 commenti
Argomento: Barzlatt
AL MARZIÀN (n. 71)
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 13:40:00 0 commenti
Argomento: Barzlatt
IL TOSQUIGNO
Così come la nostra "camisa" (camicia) sembra una storpiatura dialettale del tosco italiano, ma non è così, in quanto ripete esattamente il tardo latino camisa: dunque chi è che storpia?
Tuttavia non siamo soltanto noi altri settentrionali a risentirci per essere chiamati "ostrogoti" dai toscani, ma anche i meridionali i quali vengono chiamato "arabi". Essi dicono "carricare" per "caricare" e i toscani giù a ridere, ma "carricare" era il latino che nasceva da "carro" ed è quindi più aderente alla nostra antica lingua.
Allora, è vero che noi abbiamo avuto le invasione barbariche dal nord e i meridionali quelle arabe, ma, a quanto pare, i soli italiani che parlano un dialetto lontano dal latino sono proprio i toscani! Forse parlano etrusco!
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 13:34:00 0 commenti
Argomento: Lingue e Dialetti
GIANGUEL E IERGOEGEN
Il "giànguel" è un gergo ormai quasi scomparso e del quale restano solo poche parole che la gente talvolta dice, ma forse non sa che esse fanno parte di un idioma ben più articolato e molto usato in passato, quando entro certi ambienti circoscritti c'era la necessità, o meglio, la volontà di non farsi capire da chi di quell'ambiente non faceva parte. Ho trovato notizie in merito grazie al solito Menarini, il quale, negli anni quaranta, pubblicò i suoi "Gerghi bolognesi", libro ahimé esaurito che non ho mai avuto il piacere di consultare per intero. Le parole che restano sono del tipo "fanghi" (scarpe), "tap" (abito), "stufilàusi" (tagliatelle), "strézzi" (sigarette) e poche altre, mentre paiono ormai in disuso altre come "strìs" (pane), "batintén" (orologio), "quài" (portafoglio), "sc'fón" (calzini), "giàz" (fiammiferi), "lisa" (mantello) e tante ancora, usate dal popolino, oltre a quelle usate, ad esempio, dai muratori: la "manèra" (donna), "ch'la s'istànzia pr'i là" (che passa da quella parte) "scarpén-na pr'i tu visi" (va' per i fatti tuoi),ecc., parole e frasi che ho udito da mio padre e da pochi altri ormai anziani, che però essi stessi da anni non utilizzano più.
Lo "iergoegén", pure ricordato dal Menarini, è ciò che lui stesso definisce un "gergo meccanico", di quelli cioè che non si basano su termini speciali, ma utilizzano quelli normali del bolognese (o del "giànguel"), intervenendo su di essi con una… operazione meccanica di divisione e di aggiunte fonetiche! Il parlante deve mentalmente dividere a metà la parola (ad es.: "gergo" diventa "ge-rgo"), poi deve pronunciare prima la seconda metà e dopo la prima (ed es: "rgo - ge"), infine deve aggiungere un prefisso ed un suffisso fonetici, come suggerisce l'orecchio, senza dimenticare l'importantissima "e" eufonica di congiunzione ( es.: ie- e -n) ed ecco che, magicamente, la parola "gergo" diventa…"iergoegén"!
Sembra una cosa da pazzi (e forse lo è!), ma un certo allenamento ed un certo orecchio, portano a parlarlo correntemente e ad intendersi perfettamente, tra lo sconcerto di chi non lo capisce!
Non voglio ora trattare a fondo la materia, anche perché già lo ha fatto chi è ben più competente, tuttavia ho voluto ricordarla, prima che ne sparisca anche l'ultima traccia, poiché in tutta la mia vita ho inteso parlare questo…"iergoegén" da mio padre (che l'imparò da ragazzo quando era garzone alla “Invulnerabile”, allora famosa fabbrica di serrande),da mia zia Gilda e dal fabbro di via Saviolo a San Lazzaro, Walter Berselli, ciò che è stata una vera sorpresa! Altri non ne ho uditi mai.
Voglio anche aggiungere che del cosiddetto "furbesco", oltre questi gerghi, fanno parte anche centinaia di espressioni che io stesso ho citato spesso e di cui sono pieni tutti i libri che trattano il nostro dialetto: una per tutte (che mi è balenata in mente ora) è "s'cataràggna in piaza?" che significa "ci troveremo in centro", ma che gioca sulla parola "catères" (trovarsi) e "scatarèr" (tossire e anche sputare), ciò che si dice appunto quando qualcuno tossisce in modo convulso. Una volta ridevano così!
Torno allo "iergoegén" per ricordare i tanti discorsi tra mio padre e me, ogni volta che non volevamo farci capire dagli altri, certi del fatto che sarebbe stato difficilissimo trovare persone in grado di capirci!
Mio padre mi parlava in modo spedito ed io, pur capendo ogni parola, stentavo parecchio a rispondere e non sempre lo facevo bene, poiché lui stesso non riusciva a capirmi e mi correggeva!
Gli dicevo: "iaemén a iàrrec'cón ióchepón al iergoegén,
mó a iapéssecàn ièsiequén iottetón"
che significa: "mé a c'càrr póch al gérgo, mó a capéss quèsi tótt"
cioè: "io parlo poco il gergo, ma capisco quasi tutto"
e, come mi aveva insegnato lui, quando qualcuno mi diceva di parlare in modo più chiaro e possibilmente in italiano, io traducevo così:
iaemone a iapissecano iasiequone iuttetone!"
E ridevamo divertiti, ma per gli altri non era cambiato nulla!
Non so che importanza possano avere queste cose nel campo della scienza, delle lingue, della cultura, ma so di certo che queste erano cose veramente, unicamente ed inequivocabilmente NOSTRE, che le abbiamo praticamente ormai perdute, come tra poche generazioni perderemo il dialetto stesso e così avremo più tempo per le altre cose che saranno più importanti nel campo della scienza, delle lingue e della cultura, ma che certamente non saranno più NOSTRE!
Paolo Canè
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 13:26:00 0 commenti
Argomento: Lingue e Dialetti
LINGUE VIVE E LINGUE MORTE
E' un discorso ormai vecchio, ma ogni tanto viene a galla questa nota divergenza, per cui il conservatore cerca di salvare la lingua, in un certo senso, mummificandola, mentre il progressista pare trovi un gusto sadico nell'inserire parole nuove, parole straniere, anche quando si tratta di veri e propri "mostri" e anche quando esse sono assolutamente superflue.
Due opposte posizioni, entrambe sbagliate!
Le lingue (e naturalmente anche i dialetti) si potrebbero dividere in due grandi categorie: quelle vive e quelle morte! Quelle morte, come il latino, tanto per fare un esempio, possono (e forse debbono) essere anche mummificate, in quanto non sono più usate e non possono (e non debbono) perciò progredire, mentre quelle vive, come il nostro italiano ed il nostro bolognese, finché sono usate, sono suscettibili di modificazioni, come lo sono sempre tutti gli idiomi ancora in uso. Sarebbe stupido ed inutile cercare nuovi termini per l'informatica in latino, come altrettanto stupido ed inutile sarebbe cercare d'impedire arrivi (ma anche partenze!) di nuovi termini, sia che essi siano stranieri o italianizzati o neologismi costruiti su basi greco-latine: il progresso non si può fermare. Tuttavia sarebbe altrettanto stupido ed inutile chiamare “pundghén” il “mouse”: chi può voler usare questa parola quando è al computer?!
Occorrerebbe perciò che i conservatori fossero un po' più possibilisti ed i progressisti non avessero così tanta fretta di rinnovare o di inserire ciò che è inutile! Ma so bene che le mie sono parole al vento!
Piuttosto ho notato un fatto curioso: i meno istruiti sono i maggiori innovatori delle lingue e dei dialetti, forse perché non conoscendo i termini già esistenti, ne inventano o ne introducono dei nuovi, mentre gli intellettuali si limitano unicamente a denunciare gli orrori, ma si guardano bene dal creare o almeno dal vigilare se non altro in quanto a buon senso e a buon gusto. E per "meno istruiti" non intendo solamente quelle persone che non hanno avuto la fortuna di andare a scuola, ma anche e soprattutto giornalisti (della carta e della TV), conduttori televisivi, politici e personaggi pubblici i quali non dovrebbero essere ignoranti e in vece lo sono, se non altro perché creano (e spesso male!) ciò che non sanno che è già esistente! Gente che ci prova gusto ad inventare, credendo forse di apparire così più alla moda!
E, come già detto, si arriva a lamentare un'istituzione che manca o, se c'è, che non funziona come dovrebbe. Un'istituzione che stabilisca le regole di grammatica, i vocaboli e la pronuncia della nostra lingua e di tutti i nostri dialetti e che sia lei stessa a decidere quali termini siano da accettare e quali siano da eliminare oppure (come nel caso dei dialetti) come essi si debbano scrivere e pronunciare, accettandone le inevitabili variazioni, almeno finché tutti questi idiomi vivranno. Anche giornali e TV dovrebbero vigilare di più, per evitare gli strafalcioni dei loro dipendenti.Poi, stabilito ciò, chi vorrà, potrà anche continuare a creare "parolacce", a parlare (male) l’inglese, a scrivere e pronunciare il dialetto in modo scorretto, ma almeno noi avremo il diritto di chiamarli ufficialmente ignoranti!
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 13:17:00 0 commenti
Argomento: Lingue e Dialetti
BIBLIOGRAFIA BOLOGNESE
E' difficile stabilire quanti libri o trattati siano stati scritti nei secoli su Bologna: migliaia? Decine di migliaia? Un cospicuo tomo di oltre 500 pagine edito nel 1989 a cura degli Autori Cionci, Landi e Onofri (quest'ultimo, impiegato per anni presso la Biblioteca dell'Archiginnasio, è stato anche mio compagno di classe alle Scuole Medie), elenca almeno 5.000 pubblicazioni relative soltanto ai 20 anni dal 1969 al 1989! Vero che nella seconda metà del 900 sono forse stati scritti più libri sulle diverse realtà locali italiane, che non dai tempi di Gutenberg al 1950, tuttavia, se li dovessimo contare tutti, raggiungeremmo una quota astronomica di titoli.
Ma non è di questo che io voglio parlare, poiché lo hanno già fatto ben più autorevoli relatori. Penso che una prima grande "scrematura" si possa fare riferendosi ai soli libri o trattati, eliminando semplici articoli apparsi su varie riviste (compresi nel libro dell'amico Onofri), una seconda si possa fare eliminando ciò che non appartiene a Bologna città, ma alla sua grande provincia, una terza eliminando tutto quanto è stato scritto, in italiano, sulla geografia, la storia, la società, gli usi e i costumi di Bologna: restano così le opere scritte solo in dialetto o sul dialetto, ed è di questo che io vorrei parlare. Opere che saranno sicuramente di meno, anche se molte di più delle poche che si trovano nella mia personale biblioteca!
Penso di poter fare una classificazione a grandi linee di tutta questa produzione in:
opere CREATIVE, commedie, poesie, canzoni, "zirudelle", racconti, ecc.
opere ISTRUTTIVE, ricerche dialettali, grammatiche, ecc.
opere UTILI, ma facili anche se non semplici da compilare, come i dizionari
opere DIVERTENTI e divulgative, come raccolte di detti e proverbi
opere INUTILI, come le traduzioni di frasi, poemi o tomi dalla lingua
opere DA BUTTARE, come tutto ciò che viene pubblicato, saccheggiando altri lavori (spesso con scopi venali) ed anche ciò che non viene pubblicato, come quasi tutto ciò che scrivo io!
Le opere creative sono le più belle, perché raccontano di un popolo certi fatti o caratteristiche che altrimenti sarebbero destinati a scomparire.
Le opere istruttive sono le più difficili e meritorie, poiché comportano anni di ricerca, doti di deduzione, esperienza personale ed una cultura linguistica che va ben oltre i confini del dialetto.
Le opere utili, come i dizionari, non sono difficili da fare, poiché suppongo che il primo (Coronedi Berti 1868-71) sia stato fatto sulla falsariga di un dizionario italiano e quelli più importanti successivi (Ungarelli 1901-1904 e Mainoldi 1965-67) siano stati fatti con un occhio al Coronedi Berti. Di recente ne sono usciti almeno altri due, forse non così importanti, ma di un certo valore che sono il Santarini,a cura di G. Bernabei (1991) e il Vallardi a cura di L.Lepri e D.Vitali (2000) dei quali parlerò ancora più avanti. Opere, dunque, lunghe e complicate, ma non difficili.
Le opere divertenti sono quelle che stimolano la curiosità e l'ilarità dei lettori, i quali trovano o ritrovano curiose espressioni dei loro antenati e sono opere di un certo pregio dal punto di vista della conservazione.
Le opere inutili (sempre a mio parere) possono anche esser mastodontiche, ma non servono a nulla, come la traduzione del Vangelo secondo Matteo scritta dal Conte Pepoli un secolo e mezzo fa, come la traduzione della Divina Commedia di un famoso gioielliere bolognese e altre cose simili. Mi chiedo quale cattolico possa leggere S.Matteo in bolognese, senza trovarlo leggermente blasfemo e a chi interessi la Divina Commedia tradotta, quando è già così bella la versione originale di Dante! Sono inutili esibizioni muscolari, giusto per fare sorridere, ma per sorridere può bastare anche una “zirudella” o una semplice e breve barzelletta!
Infine le opere da buttare e sono quelle in gran parte “scopiazzate” da altre precedenti e pubblicate con scopi non sempre nobili!
Tuttavia, se non "bravi tutti", occorre dire "bravi molti", poiché ognuno, poco o tanto, ha portato qualcosa a Bologna ed al suo dialetto. Quanto ai miei gusti personali, i miei preferiti sono Testoni e Sgarzi, tra i poeti, ed Alberto Menarini, tra i saggisti. Considero il Menarini come il numero uno indiscusso tra coloro che hanno scritto del dialetto. In verità egli ha anche pubblicato opere divertenti (raccolte di detti e proverbi) e storiche (Fotoconfronti col passato e foto di monumenti vari), ma la sua più grande opera è stato lo studio approfondito, competente e variegato di una vita intera di ricerca, tradotta in alcune pubblicazioni di grande pregio, che io colleziono e rileggo molto spesso. Egli ha anche avuto il merito di avere "inventato" una grafia che è certo la più perfetta per il nostro dialetto. Peccato che non abbia mai redatto un Dizionario, forse per abbondanza di altri già esistenti, ma almeno il suo avrebbe avuto una grafia più agile e leggibile, e, soprattutto, che non abbia mai scritto una Grammatica, ciò che manca al bolognese da sempre (per quanto ne so io) e di cui ho fatto qualche cenno in un mio modesto precedente saggio. Ho poi trovato un altro tentativo analogo, anche se più profondo, nel già citato dizionario edito da Vallardi.
6Abbastanza facile è elencare vocaboli, proverbi o detti, ma molto più difficile è articolare discorsi, ciò che una grammatica insegna a fare e ciò che finora è stato fatto da chi ha scritto commedie, racconti o poesie. Oltre alla Grammatica, l'istituzione che manca fortemente (forse non solo a Bologna) è una specie d’Accademia che sancisca, una volta per tutte, quale sia la corretta pronuncia e quale sia la grammatica del bolognese, come già ne esiste una per ogni lingua, italiano compreso! Un'istituzione che dovrebbe nascere dall'Università, visto che le tante Associazioni finora non hanno concluso niente. Un'istituzione che tuttavia non nascerà mai, poiché ogni cosa per nascere,ha bisogno di una necessità e a Bologna, ahimé, non c'è alcuna necessità di scrivere in dialetto!
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 13:02:00 0 commenti
Argomento: Dialetto
giovedì 27 settembre 2007
SALIRE E SCENDERE
Tuttavia, in bolognese, il verbo che si unisce a “zà” (“giù”, così pronunciato dai vecchi cittadini, mentre altri pronunciano “zò”), ha sempre un suo preciso significato e tali verbi non sono affatto intercambiabili. Si usa infatti “saltèr zà” nel senso di scendere dall’auto o dal treno o da un burrone o anche da un albero, però solo nel caso che la persona ( o l’animale o la cosa) facciano un vero salto: se scendono lentamente, come anche nel senso di scendere dalle scale, si usa “v’gnìr zà”. Si direbbe quasi che si usi “saltèr” quando si scende da un mezzo mobile o quando si scende da qualsiasi cosa con un salto e “v’gnìr” quando si scende lentamente, in modo più naturale, più dolce. Perciò: “ai vén zà un’àqua…” (piove forte), “al vén zà da la muntàgna” (scende, proviene dalla montagna), “vèn bàn zà dal pàir” (non darti troppe arie o anche è ora di pagare) e “ai é saltè zà la cadàn-na” (gli è scesa la catena della bicicletta), “l’é saltè zà dal lèt” (è sceso dal letto, ma in modo precipitoso: forse anche perché i letti di una volta erano… molto più alti!). La differenza tra “al salté in vàtta à la biziclàtta” e “al ciapé la biziclàtta” sta nel fatto che nel primo caso la bici viene inforcata più precipitosamente e magari al volo! “Mandèr zà” invece si riferisce sempre a un boccone o a un dispiacere, ma questa espressione si dice anche in italiano (mandar giù), come del resto alcune delle altre (saltare giù dal letto), ma non tutte: saltare già dalla macchina, nel senso di scendere dall’auto, si dice solo a Bologna (e forse in qualche altro dialetto settentrionale) e lo si dice anche quando parliamo il nostro curioso italo-bolognese. In questa lingua, tutta nostra, ma sopra tutto nel dialetto si usa “saltèr só” (saltare su), oltre che per “salire”, anche nel senso di “sbottare”, cioè quando qualcuno interviene bruscamente per dire la sua.
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 14:03:00 0 commenti
Argomento: Dialetto
AL CASUTÉN (n. 70)
"Cìnno, iél tó pèder?"
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 13:57:00 0 commenti
Argomento: Barzlatt
DAL CALZULÈR (n. 69)
"In ch'la stófa che qué an i é dóbbi ch'ai véggna di bùs!"
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 13:55:00 0 commenti
Argomento: Barzlatt
PIETÈ (n. 68)
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 13:53:00 0 commenti
Argomento: Barzlatt
LA TRÓIIA (n. 67)
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 13:51:00 0 commenti
Argomento: Barzlatt
L’INZIDÀNT (n. 66)
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 13:49:00 0 commenti
Argomento: Barzlatt
MAGARI E MAGARA
Si tratta di una mia supposizione, poiché non viene riportata né dal Devoto, né dal Cortelazzo, né da altre fonti etimologiche, ma ho notato che in dialetto noi abbiamo entrambe le forme “magàri” e “magàra”. La prima ha lo stesso identico significato dell’italiano (Dio lo voglia, ecc.), la seconda invece ha il preciso significato di “molto”, “troppo”. Infatti è famosa la frase “la famàiia di magàra” che si applica ad una famiglia molto numerosa o ad una combriccola i cui membri sono un po’ troppi!
Si dice anche “ai n’ò magàra” col significato di “ne ho tanti”, parola che ha anche il suo bravo diminutivo “magarén-na”, che significa…”un po’ moltini!”.
Questo “magàra” bolognese (e forse presente anche in altri dialetti settentrionali), potrebbe (dico “potrebbe”!) essere parente di “guari”, parola italiana ormai in disuso che ha pure il significato di “molto, alquanto, tanto”: nota è la forma antiquata “or non è guari” che significa “non molto tempo fa”, ecc.
“Guari” deriva sicuramente dal francone “waigaro” (forse antenato dell’inglese “very”) che pure significa “molto”, ad ulteriore dimostrazione che tutte o quasi tutte le parole dell’antico tedesco che iniziano per “wa” o “wi” o “we”, in italiano fanno “gu” o “ghi”, tanto per fare qualche esempio: Walter, William, Wastal, Wiedergeld, Werra, Weiblingen, ecc., fanno rispettivamente Gualtiero, Guglielmo, Guastalla, Guidrigildo, Guerra, Ghibellino, ecc.
Il bolognese “magàra” non inizia per “gu”, forse per l’incrocio con “magari” o forse, più semplicemente, perché… non deriva affatto da “waigaro”!
Tuttavia è sospetto il significato identico, sia della parola tedesca, che di quella bolognese, le quali non hanno nulla a che vedere col greco!
E poi a me piace pensare così ed illudermi di aver fatto una scoperta, hai visto mai?
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 13:42:00 0 commenti
Argomento: Dialetto
MOGLI E PECORE...
“Pecora” è il plurale latino di “pecus”, radice madre di molte parole italiane: pecunia (denaro), pecorino (formaggio), pecoreccio (volgare), pecorone (persona da poco che segue il branco), peculato (furto di denaro pubblico), peculiare (particolare), ecc. ecc.
Da “oves”, con lo stesso significato, deriva il nome degli ovini, oltre che l’ovazione (anticamente il sacrificio di pecore, oggi è un applauso unanime). Dal gregge deriva la parola “egregio” (“ex grege”, cioè fuori dal gregge) illustre e, anticamente, si faceva anche uso della “carta pecora”, materiale per scrivere da essa derivato. Questi ed altri i riferimenti “ovini” nella nostra lingua.
Il dialetto bolognese non è così dotto: la maggior parte delle parole suddette infatti non esistono. Esiste “pìgra” e per “ovino” si dice “ed pìgra”, mentre per “gregge” si usa semplicemente il plurale “el pìguer”! Esiste naturalmente “l’agnèl” e anche “al brécch” che sarebbe l’ariete, ma non mi viene in mente nessun altro termine. Anzi, dirò che questo animale apparentemente non riscuote molte simpatie a Bologna, non come il bue o almeno non a parole. Nei fatti credo che i bolognesi abbiano sempre apprezzato la lana, il latte, il formaggio e perfino la carne, poiché proprio alle porte di Bologna, sulla direttrice della Via Emilia che porta verso Castel San Pietro, comincia la zona del “castrato”, carne di pecora dal particolare sapore che a me non piace, ma di cui molti bolognesi sono golosi. A parte ciò, i proverbi che mi vengono in mente non sono certo a favore degli ovini. “Dóna mègra, pìgra e óca, ànch st’in tróv, pórt’n a cà póca” a dimostrazione che ai nostri vecchi non piacevano né le donne magre, né la carne di pecora, né quella d’oca, poiché invitavano, anche se gratuita, a portarne a casa poca! “Col mèl d’l’agnèl, ai cràss la pànza e ai càla l’usèl” e, anche in questo caso, l’agnello è ricordato per sottolineare un evento abbastanza triste, a meno che tutti questi riferimenti ovini non siano determinati dalla rima!
Curiosa è l’espressione “Se t’riès, a màgn un brécch col córen!”. Si potrebbe pensare che l’esclamazione “Mangio un bricco” si riferisca al bricco, magari del vino, sul genere dell’anglosassone “Mi mangio il cappello”. ma quell’aggiunta “col córen” denuncia che l’eventuale “bricco-stoviglia” è stato, quanto meno, incrociato col “bricco-animale” che, anche in italiano,significa montone-caprone (ma anche asinello dal latino “burricum”, parola che ha lasciato traccia in Sardegna e in Spagna). “Brécch” è l’unica parola bolognese per il maschio della pecora (o della capra), poiché non esistono parole per “ariete” e “montone”. Esiste “caprone”, almeno nella frase “A vàgh a tusèr al cavràn” quando ci si va a far tagliare i capelli. È probabile infine che, nell’antico dialetto esistesse anche una parola per “becco”, col medesimo significato, almeno a giudicare dal “b’chèr” (macellaio) e dal riferimento alle corna dei mariti, cosa, peraltro, che è comune a tutta Italia!
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 13:36:00 0 commenti
Argomento: Dialetto
Proverbio n. 112
De drì da la pózza.
Dicesi di chi si trova in posizione infima.
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 13:34:00 0 commenti
Argomento: Proverbi triviali
Proverbio n. 111
Dàpp a la pózza.
Dicesi di chi arriva troppo tardi.
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 13:33:00 0 commenti
Argomento: Proverbi triviali
Proverbio n. 110
Cùmm la mitróiia?
Come farò? (furbesco)
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 13:33:00 0 commenti
Argomento: Proverbi triviali
Proverbio n. 109
Cùl nùd e budèl f’té ed v’lùd.
Malvestiti, ma non affamati.
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 13:32:00 0 commenti
Argomento: Proverbi triviali
Proverbio n. 108
Ch’s èt magnè, di v’lócc’? (Cus’ìt mèrz?).
Reazione violenta a maleodoranti effluvi.
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 13:28:00 0 commenti
Argomento: Proverbi triviali
martedì 25 settembre 2007
I VENTI PECCATI DI BOLOGNA
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 10:17:00 0 commenti
Argomento: Storia di Bologna
AL CAGNÉN (n. 65)
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 10:13:00 0 commenti
Argomento: Barzlatt
AL TARTAIÀN 1 (n. 64)
Un èter cliànt al dìs in fùria: "Un cafà curèt al cògnac" e al barésta: "Prónti, in tàza grànda o cén-na?".
Alàura al tartaiàn ai d'mànda: "Cia-ciàpel pr'a-a-l cu-cùl m-mé?" e al barésta: "N-nà a cia-àp pr'al cu-ù-cùl lulà!"
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 10:10:00 0 commenti
Argomento: Barzlatt
L’UCIÀTT (n. 63)
"Adès nà, ch'avàn d'andèr vì, mó dàpp a turnàn e as fàn dèr un bèl cabarè ed pàst da purtèr a cà" e al dìs al pastizìr: "A turnàn dàpp" e vi ch'al và col cìnno.
"Éni prónti el pàst?"
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 10:04:00 0 commenti
Argomento: Barzlatt
Proverbio n. 107
Cràss cavièra cùmm fà la mérda int l’aldamèra.
Gli (inutili) scongiuri di un calvo.
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 10:03:00 0 commenti
Argomento: Proverbi triviali
Proverbio n. 106
Ciavèr la sérva dal prìt de drì a l’altèr mazàur.
Non avere freni morali.
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 10:02:00 0 commenti
Argomento: Proverbi triviali
Proverbio n. 105
Ciapèr pr’al cùl.
Prendere in giro.
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 10:02:00 0 commenti
Argomento: Proverbi triviali
Proverbio n. 104
Ciamèr i quaión a capéttol.
Adescare gli sciocchi.
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 10:01:00 0 commenti
Argomento: Proverbi triviali
Proverbio n. 103
Chi vìv sperànd mór cagànd.
Detto a chi vive di speranze.
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 10:01:00 0 commenti
Argomento: Proverbi triviali
MOGLI E BUOI…
Perché tanta nomenclatura e letteratura? È facile: perché il bue, fin dal tempo in cui le società agricole primitive lo usavano per l’aratura, è stato un mezzo basilare per la sua forza e per la sua docilità. Non intelligente come altri animali, forse, tanto da produrre modi di dire poco edificanti, come “popolo bue” o “testa di bue”, ma utile, anzi, indispensabile. Il “Foro boario”, toponimo che esisteva anche a Bologna, era la piazza nella quale si facevano le contrattazioni per la vendita dei bovini.
In bolognese è “al bà” (o “al bò”, ma io preferisco la pronuncia aperta, come s’addice ai bolognesi di città) con il plurale inequivocabile “i bù” o, come simpaticamente dicono o dicevano i vecchi medicinesi, “i bùa”, ma lo dicono solo a Medicina!
A proposito di differenze di pronuncia, voglio brevemente ricordare ciò che ho già scritto diverse volte altrove, e cioè che molte parole vengono spesso scritte e anche pronunciate con la “ò” o con la “à” a seconda dell’uso dei parlanti. Personalmente preferisco scrittura e pronuncia aperte, ma non è detto che io abbia ragione! Nessuno ha mai stabilito una regola e chi la volesse stabilire oggi farebbe un esercizio inutile, oltre che arbitrario ed opinabile! Meglio che ognuno faccia come si sente di fare.
L’uomo addetto alla cura dei buoi era chiamato “al bióich”, parola con la quale i cittadini hanno poca dimestichezza, ma che ha una storia etimologica interessante.
Il corrispondente italiano “bifolco” deriva da “bufulcum” che, a causa della “f”, gli studiosi presumono d’origine osco-umbra o etrusca, alla quale i latini contrapposero “bubulcum” (colui che guidava i buoi nei campi), da cui i latinismi “bobolco” e “bobolca” i quali, a loro volta, portano a “biolca”, una misura terriera ancora in uso nelle nostre campagne ed è quasi certamente la stessa via che porta a “bióich”.
Un’altra misura terriera, pure ancora in uso da noi, è la “turnadùra” (tornatura) e anch’essa ha a che vedere coi buoi, poiché “tornare” significa il “girare” dei buoi durante l’aratura. “Turnadùra” e “bióica”, misure non esatte, poiché variano da zona a zona, erano probabilmente grandi quanto il terreno che i buoi riuscivano ad arare in una giornata di lavoro.Dunque, a quanto pare, sono rimaste nella nostra lingua e nei nostri dialetti molte parole e molti proverbi o modi di dire che hanno a che fare con i buoi, ma ci si chiede: dove sono andati a finire i buoi? Chi spiegherà ai nostri nipoti che il bue era un animale grande, grosso, utile e buono, così tanto diverso da quello che vedono sui banchi delle macellerie?
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 09:51:00 0 commenti
Argomento: Dialetto
giovedì 20 settembre 2007
Proverbio n. 102
Chi’n cèva à ciavè.
Chi non mangia, ha mangiato.
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 13:38:00 0 commenti
Argomento: Proverbi triviali
Proverbio n. 101
Chi màgna la mérda ed galàtt d’vànta indvén.
Riferito a chi vuole pronosticare tutto.
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Argomento: Proverbi triviali
AL MANICÓMI (n. 62)
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 13:34:00 0 commenti
Argomento: Barzlatt
AL DUCE A AL FURER (n. 61)
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 13:32:00 0 commenti
Argomento: Barzlatt
GIOCHIAMO A CARTE?
Dallo scopone (altro gioco napoletano!), viene il termine “settebello” (“sètbèl”), il sette di denari che ha particolare valore e che è stato dato sia ad un treno, sia alla squadra di pallanuoto, composta appunto di sette elementi. A Bologna preferiamo la scopa o lo sbarazzino, che prevedono anche il “re bello” (“rà bèl”), il quale però non ha dato origine a nessun modo di dire, forse perché siamo… in una Repubblica!Infine il gioco, bello e difficile, detto “Otzànt” (Ottocento) che si fa col “chèrt lónghi” (il Tarocco o Tarocchino Bolognese), un mazzo che comprende, oltre ai quattro semi della briscola, anche alcune “figure” o “numeri” o “trionfi” e che, proprio grazie ad essi, era ed è ancora adatto ai giochi divinatori delle cartomanti. Il numero 13, che rappresenta la Morte, con tanto di scheletro e falce, ha dato origine al modo di dire “al pèr al tràgg’ ed tariànf” riferito a persona molto magra o malmessa. Si dice inoltre “Lulé l’à bèle cuért al màt” di persona che ha già raggiunto un buon risultato (con valore simile al precedente “fèr s’santón”), poiché la figura del Matto (in italiano: il Folle) non si gioca, ma si “copre”, cioè la si tiene come acquisita. Tra queste figure c’è anche “al Mànd” (il Mondo) e non è escluso che il modo di dire “Lulé l’à al mànd in màn”, riferito ad uno che ha tutto, sia di provenienza analoga.
Dal poker abbiamo le parole “tris” e “poker”, riferite a qualsiasi combinazione di cose o persone che siano tre o quattro. La locuzione “il piatto piange” e altre, come “bluffare” (pronunciato “bleffare”), vengono usate per descrivere comportamenti o situazioni simili a quelli del gioco. Il detto “fare il buio” che equivale “alla cieca”.Dal bridge viene il termine “grande slam” usato principalmente nel tennis, quando un giocatore riesce a vincere i quattro tornei più importanti nel corso dello stesso anno.Dal sette e mezzo la parola “d’emblée”, cioè d’acchito. “Rispondere picche”, cioè no.Ma si tratta di giochi e di termini internazionali che non hanno più quel sapore, squisitamente bolognese, che possono avere la briscola, il tressette, la mattazza, il massino e tanti altri giochi che si fanno con la carte piacentine o col “chèrt lónghi”! (A proposito: “al cavàl ‘d càpp” era il nome dato ad un ronzino!)
Paolo Canè
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Argomento: Dialetto
martedì 18 settembre 2007
Proverbio n. 100
Chi la fa sàtta la nàiv un dé la se c’crùv.
Chi la fa, prima o poi, l’aspetti.
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Argomento: Proverbi triviali
Proverbio n. 99
Chi l’à d’ór, chi l’à d’arzànt e chi l’à ch’an vèl un azidànt.
Le notevoli differenze tra una donna e l’altra.
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Argomento: Proverbi triviali
Proverbio n. 98
Chi à un bèl nès à un bèl chès.
Ad una buona osteria, una buona insegna.
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Argomento: Proverbi triviali
Proverbio n. 97
Chi à magnè la candàila tén caghèr al stupén.
Chi ha commesso il male ne deve subire le conseguenze.
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Argomento: Proverbi triviali
Proverbio n. 96
Chi à la camìsa mérda, à sàmper la pózza adós.
Chi ha la colpa ha sempre paura d’essere scoperto.
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Argomento: Proverbi triviali
Proverbio n. 95
Chèren fa chèren, pàss fa vàss.
Il pesce ha poche proteine.
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Argomento: Proverbi triviali
AL CÀR DAL FÀGGN (n. 60)
"Ach, non potere fedére animali sofrire!" e al le màza. Pò al vàdd al cagnén tótt sàngv: "Non potere fedére animali sofrire" e a gli spàra.
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Argomento: Barzlatt
AL CAFÀ FÀT IN CÀ (n. 59)
"Dài, mé a stàgh ed cà própi qué, vén só ch’at fàgh vàdder la cà e at presànt mi muiér". E só ch’i vàn.
"Vàddet? Quàsst l’é l’ingrès, quàsst l’é al sgabuzén", e pò l’avèrra l’óss d’la stànzia dùv’ ai é só muiér a lèt con ón e al cunténnua: "Quàssta l’é la stànzia da lèt, quàlla lé l’é mi muiér…" e l’amìgh ai d’mànda: "Sé, mó lulé?"
"Spèta, spèta ch’a finéss: quàssta l’é la stànzia da d’snèr…" e l’amìgh: "Mó lulà?"
"Spèta, quàsst l’é al bàgn e quàssta l’é la cusén-na: da ch’la vì, vùt un cafà?"
"Sé, d’vluntìra, mó a déggh, lulà..."
"Lulà, s’al vól al cafà, a s’al vén a tór!"
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Argomento: Barzlatt
I CAMPANÉN (n. 58)
"Irt’a lèt con quàichd’ón?"
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Argomento: Barzlatt
AL P’SCADÀUR BUSÈDER (n. 57)
"E pùr, l’éra pùr qué, duv’éla andè? Gi’ só, avìv vésst una galén-na biànca?"
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 15:44:00 0 commenti
Argomento: Barzlatt
DIALETTO - LINGUA - DIALETTO
In altre parole, come già ho detto di rifiutare l'idea di visitare il dialetto come animale raro dello zoo o di farne sfoggio, con termini ormai superati e dimenticati, per sottolineare un'appartenenza, spesso solo desiderata, rifiuto anche quest'anacronistica tendenza separatista che segnerebbe, in questo senso, un passo indietro nella storia anziché in avanti. Il dialetto noi non dobbiamo né guardarlo come bestia rara, né sfoggiarlo come "status symbol", né impugnarlo come arma: dobbiamo solo studiarlo, capirlo ed amarlo: lui non chiede di più e noi non possiamo pretendere diversamente!E' una parlata destinata inevitabilmente a sparire e perciò dobbiamo solo assistere la sua dignitosa e serena agonia, senza volerlo tirare su a forza e farlo sembrare vivo e pimpante! Menarini (ma lo disse 40 anni fa) era pure di questo parere, però non vedeva la cosa in termini particolarmente tragici, poiché intravedeva elementi nuovi che sorgevano, dopo il tramonto di quelli vecchi. Io non voglio certo contraddire un Maestro di questo calibro, ma sono più pessimista, in quanto ho vissuto questi 40 anni ed ho visto che in pochissimo tempo le cose sono cambiate molto più che in passato. Credo che per molto tempo rimarranno certi termini (storpiati e modificati) e una certa cadenza che è conseguenza di un passato dialetto, ma dialetto non è più. Resteranno caratteristiche fonetiche che sono le prime ad essere assunte e le ultime ad andarsene, come del resto è sempre accaduto nel corso della Storia, ma il dialetto se ne andrà e in tempi molto più brevi di quanto lo stesso Menarini paventasse. Ciò non per una pessimistica previsione o per vaga sensazione, ma per intimo convincimento, basato sui dati seguenti: io non so quanto possa valere la mia personale esperienza e quanto la storia della mia famiglia possa identificarsi con la storia di tutte le altre, ma io mi trovo in posizione centrale rispetto a 5 generazioni in oltre 100 anni, nel senso che ne ho due dietro (mia nonna e mio padre) ed altre due davanti (mia figlia e mia nipote). Vediamo quale ruolo ha avuto il dialetto per queste persone, in questo lasso di tempo, con la convinzione che questo esempio possa rappresentare la situazione generale, anche se nella mia famiglia è intervenuto qualche elemento forestiero (la madre di mia figlia ed il suo secondo marito), il quale non ha contribuito ovviamente alla trasmissione del dialetto, del resto credo che in ogni famiglia sia intervenuto qualche elemento "estraneo", perciò la mia famiglia potrebbe a maggior ragione rappresentare tutte le altre!Mia nonna Ada, nata nel 1882, da poverissima famiglia della periferia di Bologna, frequentò la prima elementare solo per pochi mesi e perciò sapeva a malapena leggere, scrivere e parlare l'italiano. La sua lingua vera (e quasi unica) era il dialetto, che, come ho già detto, pronunciava in modo pressoché identico a me, ma con parecchi termini che io ormai non uso più. Essa viveva nel suo ristretto mondo e non s'interessava del resto: chiunque fosse nato sotto Firenze era spregiativamente un "napoletàn" o "ón d'la Bàsa Italia", chiunque fosse nato da Bergamo in su era "un furastìr ch'al fèva blich-blach ch'ans capèva gnìnta!". Perciò direi dialetto al 95%, lasciando un 5% d'italiano per comunicare con i rari forestieri o con noi nipoti, perché sapeva di dover parlare italiano, ma… sarebbe stato meglio che non lo avesse fatto! Mio padre Giovanni, nato nel 1913 ed oggi novantenne, parla dialetto ed italiano, ma col dialetto si destreggia meglio.
Credo sia arrivato alla settima (l'attuale seconda media) poi per necessità andò a lavorare. Nella sua vita di soldato (due volte dislocato in Sicilia) e d'imprenditore, è venuto a contatto con tutte le genti d'Italia e d'Europa e, grazie ad una certa abilità ad imparare i suoni, ha sempre masticato un po' di tutto, oltre al fatto che in principio degli anni '50 seguì per breve tempo un corso d'inglese presso la Berlitz School. Nonostante tutto io stesso, quando ho voluto rapportarmi a lui in modo chiaro ed inequivocabile, ho sempre dovuto usare il dialetto ed è da lui che ho imparato la maggior parte dei termini che conosco, oltre che il "gianguel" ed altri gerghi bolognesi. Io sono nato nel 1939, ho frequentato le scuole fino al diploma dell'Istituto Tecnico, ho forse ereditato da mio padre l'orecchio per le lingue (e per la musica!), ho studiato inglese e francese a scuola e tedesco dopo la scuola. Faccio parte di una generazione il cui 50% (me compreso) è… bilingue ed il resto parla italiano e capisce, bene o male, il dialetto, ma non lo parla. Mi sono sempre interessato di lingue, anche di quelle che non so, e di dialetti, ma la mia lingua più immediata, più vera è e resta l'italiano. Mia figlia Silvia, nata nel 1963, ha studiato fino all'Università, senza però completare gli studi e, pur essendo figlia di madre tedesca ed ora coniugata con un piemontese, non parla dialetto, ma lo capisce in buona parte, anche perché, come me, parla diverse lingue e perciò ha buon orecchio. Ma tra le lingue che parla, il bolognese è quello che sa di meno: in lei persistono le ultime tracce di un idioma che peraltro non sente come suo, ma come di suo padre o di suo nonno. Certo che la lunga vita dei nonni contribuisce a portare avanti un dialetto più di quanto le nuove generazioni non lo abbiano assimilato. Mia nipote Margherita, nata nel 1990, conclude questa mia analisi di un secolo ed oltre. Frequenta ora le scuole medie, ma è destinata a proseguire ben oltre. Già studia due lingue a scuola e comincia a capire anche il tedesco, grazie alle frequentazioni di famiglia. Ascolta canzoni americane, gioca col "computer", parla tassativamente italiano e i suoi genitori si rivolgono a lei solo ed esclusivamente in italiano, come del resto facciamo noi nonni con lei. Per Margherita il bolognese…non esiste e mi chiedo: i suoi figli che nasceranno verso il 2015 cosa sapranno del mio dialetto? Per questi nuovi bolognesi ci sarà solo l'italiano e, nella migliore delle ipotesi, l'inglese, ma il dialetto lo sentiranno solo usare dagli ultimi nonni ancora viventi e lo considereranno alla stregua di una lingua straniera. Tra di essi vi sarà qualcuno che se ne interesserà e lo studierà, come oggi c'è ancora qualcuno che s'interessa di etrusco, di greco antico o di latino. Ci saranno strati sociali che lo porteranno un po' più avanti, come altri strati lo hanno eliminato già da tempo, ma sparirà e resterà solo il ricordo, oltre alla strana pronuncia di chi è nato tra Savena e Reno!
Paolo Canè
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 15:41:00 0 commenti
Argomento: Dialetto
NONSOLOFONETICA
Questa differenza tra "o" aperte e chiuse mi ha fatto pensare parecchio a proposito di due miei clienti siciliani i quali si chiamavano uno Tabbone e l'altro Buzzone: io pronunciavo quei cognomi con la mia brava "ó" chiusa, come mi dice la personale consuetudine, mentre, per lo stesso motivo, i siciliani pronunciavano invariabilmente la "ò" aperta! Io avrei anche potuto pensare di aver ragione, ma…quei cognomi erano i loro e si presume che essi sapessero meglio di me come si chiamavano!A parte certe parole come "interpretare", "psicologia" e diverse altre che al Sud vengono pronunciate come ognuno ben sa (e tali differenze fanno parte delle diverse cadenze, dei diversi accenti che esistono in ogni dialetto o lingua), i dizionari più completi indicano chiaramente quale sia l'esatta pronuncia italiana (non toscana!) di ogni parola, tuttavia ognuno continua a pronunciare come sa e come può, compresi noi bolognesi che, sebbene in lingua non abbiamo necessità di usare quell'unico nostro suono esclusivo “n-n”, ci portiamo le altre nostre due stranezze che sono la "s" e la "z" come solo noi sappiamo dire e come non sanno dire tutti i forestieri che penosamente ci provano! Dunque se in italiano (e in qualsiasi altra lingua) ci sono ben precise regole fonetiche, le quali però talvolta non vengono rispettate dai parlanti, sia per l'influenza dei dialetti, sia per la loro incapacità a pronunciare in modo diverso, mi chiedo perché nel dialetto bolognese, e solo in quello, noi dovremmo avere un unico modo di pronunciare le parole e solo quello! Perché anche noi non possiamo avere una sola regola, ma tollerare qualche lieve differenza dovuta a una maggior distanza dalla città, a qualche non bolognese in famiglia o ad una forte influenza dell'italiano che sovrasta il dialetto? Perciò ribadisco (e lo ripeterò fino alla noia!) che non importa adottare 4 accenti per la "a" più la "a" non accentata: bastano "a" ed "à" e in caso di semivocali, la lunghezza o la brevità delle vocali verrà determinata dal numero delle consonanti che seguono: "làgna" = lagna ("a" lunga) e "làggna"= legna ("a" corta).
Paolo Canè
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Argomento: Dialetto
sabato 8 settembre 2007
COGNOMI BOLOGNESI
Nel mio piccolo (per scarsa competenza e poco spazio) vorrei trattare l'argomento ancora più ristretto dei cognomi bolognesi, anzi di alcuni di essi, e di fare qualche divagazione, qualche fantasia, qualche mia…illazione, come al solito!
Cominciamo con una suddivisione generica sull'origine dei cognomi.
Essi (ovviamente tutti e non solo quelli bolognesi) si dividono in modo sbrigativo, e di conseguenza non del tutto esatto, nelle seguenti categorie:
A) DETERMINATIVI
1) dal luogo di provenienza (Mantovani)
2) dal nome del genitore (Bernardi)
3) dal mestiere (Fabbri)
1) dalle caratteristiche fisiche (Rossi)
2) dal carattere (Zucchini)
3) da comportamenti occasionali (Cattabriga)
C) NOMI
1) origine germanica (Bosi)
2) origine latina (Cesari)
3) origine religiosa: latina (Minguzzi), greca (Filippi) e altre
D) AUGURALI O SIMILI (Degli Esposti)
E) DOTTI (Achilli)
-
Questi sono i primi 30 cognomi di Bologna, secondo il De Felice:
-
1) Rossi
-
Ora, presentata la materia, farò qualche mia personalissima considerazione partendo dal dire che le classificazioni suddette sono inesatte ed ambigue.
Infatti, ci può essere confusione tra i patronimici (A/2) ed i nomi (C/1-2-3) poiché il cognome Bernardi può indifferentemente significare "figlio di Bernardo", ma anche derivare dal nome tedesco Bernhard. Il patronimico puro sarebbe De Bernardi, ma esso può anche essere costruito con il genitivo latino in "i", senza la particella "de". Confusione ci può essere anche tra i caratteri e comportamenti più o meno abituali (B/2 e 3), infatti uno può essere Zucchini (=zucca, testa dura) o Cattabriga (= attacca briga) sia per carattere che in seguito ad un comportamento occasionale o non.
Ma confusioni ce ne possono essere dovunque, tuttavia voglio tentare una classificazione di queste prima 30 occorrenze bolognesi, ripetendo ed anche ripetendomi che la parola d'ordine in questi casi è: "probabilmente"!
Patronimici o nomi (8):
Gamberini (vedi più sotto)
Nanni (Giovanni, origine ebraica e cristiana)
Bernardi (Bernhard= forte come l'orso)
Lolli (forse da Julius, origine latina; più difficilmente da "loglio")
Cesari (Cesare, origine latina)
Bortolotti (da Bortolo,Bartolomeo, aramaico= Figlio di Talmay)
Poli (da Paulus, origina latina = piccolo)
Lambertini (da Lambert, origine germanica =famoso nel territorio)
Mestieri (7):
Fabbri (fabbro ferraio) corrispondente a Smith, Schmidt, ecc.
Barbieri (barbiere)
Ferrari (fabbro ferraio) idem come sopra (al Sud è Ferrara!)
Sarti (sarto) corrispondente a Schneider, Snyder, Taylor, ecc.
Monari (mugnaio) corrispondenti a Miller, Müller, ecc.
Ferri (fabbro ferraio) idem come sopra
Calzolari (calzolaio), vedi Calligari,Sabato,Scarparo e Schuhmacher, Schubert,ecc.
Etnici (4):
Montanari (originario dai monti)
Monti (idem)
Romagnoli (originario della Romagna)
Veronesi (originario di Verona)
Carattere o particolarità (4):
Martelli (forse da "martello"= tenace, ma anche forse da fabbro)
Cocchi (forse da "cocco"= caro o da uovo o forse altro)
Malaguti (vedi più sotto)
Zucchini (da "zucca"= testone, ma forse anche da luogo di provenienza)
Caratteristiche fisiche (3):
Rossi (rosso di capelli e forse anche di pelle o "figlio del Rosso" o altro)
Grandi (grande =alto, importante)
Neri (nero di capelli o di carnagione o "figlio del Nero" o altro)
-
Augurali o simili (3):
Venturi (augurio, novità o abbreviazione di Bonaventura o altro)
Ventura (idem)
Degli Esposti (nome di fanciulli abbandonati, corrispondente ad altri italiani: Innocenti, Esposito, Proietti, Trovato, ecc.)
Origine non accertata (1):
Stanzani (30° in ordine di frequenza a Bologna di cui non c'è notizia)
Questo nome "misterioso" dà il "via" ad alcune mie fantasie.
Stanzani: non credo abbia a che vedere con la "stanza", ma forse di più con "stare-stanziale" in contrapposizione a "nomade-zingaro", ma potrebbe derivare da nomi o luoghi lontani, dall’ebraico, oltre che da nomi ormai in disuso.
Gamberini: già visto prima e molto comune da noi, non credo c'entri nulla coi "gamberi", ma forse di più con "Gambrinus", la divinità germanica,che è considerato anche l'inventore della birra! Forse era un nome medievale (Gambrino-Gamberino) ora scomparso.
Malaguti: come anche l'omonimo dialettale Malagò ed altri cognomi che iniziano con "Mal-", dei quali peraltro non trovo traccia in nessun libro, indicano probabilmente la cattiveria dei nostri antenati nell'affibbiare i soprannomi anche più feroci ed indecenti, che poi si sono trasformati in cognomi incancellabili! In altra sede ho parlato del siciliano Fecarotta (che non ha bisogno di spiegazioni) o di Maradona (sicuramente da "mala donna" più che dalla greca Maratona) o anche di Brutti, Gobbi ,Delzotto (veneto= figlio dello zoppo, dall’antico italiano “ciotto”), Zucconi, Sgarbi, Lippi (cieco) ecc. Malaguti, probabilmente significa "mal acuto" e cioè "poco intelligente"! Come anche (e sempre probabilmente!) Malferrari significa "fabbro poco abile" e Manservisi-Malservisi "chi fa un cattivo servizio", parola questa che ha e che ha avuto parecchi significati. Parliamo anche di Bergamini, pure comune a Bologna, che è un… anagramma di Gamberini, ma questo è solo un caso! Si potrebbe pensare che c'entri Bergamo, ma c'entra solo…di sponda: infatti il "bergamino" era colui che governava i bovini ed è certo che una volta fossero di più questi garzoni che non gli originari di Bergamo, anche se pare i primi bergamini furono così chiamati, proprio perché originari di quella città! Sarà vero? Mantovani invece pare proprio che significhi ciò che sembra e, vista la sua larga diffusione qui da noi, o abbiamo avuto una grande immigrazione dalla città dei Gonzaga (peraltro vicina in quanto a distanza, dialetto e mentalità), oppure costoro sono sempre stati molto prolifici! Meno spiegabili sono i tanti Veronesi, città molto più lontana. Allo stesso modo i Bolognesi i quali non sono ovviamente di Bologna ma tutti di Ferrara!
Altri nomi abbastanza comuni sono Bulgarelli, Ungarelli e Romanelli (quest'ultimo non tipico di Bologna), che farebbero pensare a massicce immigrazioni da Bulgaria, Ungheria e Romania, ma non credo sia così, anche se per il secondo c'è un'ipotesi di soldati "ungari" che si sarebbero stabiliti da queste parti, però io…ci credo poco!
Sfortunato a Bologna è il cognome Busoni (raro) oppure il più comune Bosi e i suoi derivati, il quale deriva dal tedesco "böse"= cattivo, ma fa un po' troppa assonanza col nostro "busàn"= omosessuale, a sua volta forse dall'antico italiano locale "bugiarone", e chi porta questi cognomi è destinato al perenne ludibrio, soprattutto da parte dei più stupidi i quali credono di essere i primi a scherzarci sopra! Proprio come avviene per Canè, nome forse non tra i più diffusi, ma certamente tra i più esclusivi di Bologna e comunque del territorio che va da Bologna a Ferrara! Nulla a che vedere con l'amico dell'uomo e lo indica chiaramente l'accento, ma proprio per la zona di provenienza (maceri=canapa=canna) e per le voci dialettali ("càna"- "canèr"), oltre che per l'importanza europea che ha avuto Bologna per tale coltura, io, tra una decina di altre, ho scelto questa che resta un'illazione, ma mi sembra la più probabile origine.
Abbiamo anche Sighinolfi che pure viene deriso per l'assonanza con "sega" = masturbazione maschile e che è pure diffuso in Italia con forme simili (Siconolfi), ma che deriva inequivocabilmente dal germanico "sieg"= vittoria e "wulf" = lupo! Così come Segafredo (il nostro caffè) che è palese italianizzazione di Siegfried= libertà della vittoria o viceversa!E ancora una curiosità che ho "scoperto" poco tempo fa, leggendo i libri del solito Menarini. Si tratta dei due cognomi Bonaga e Ligabue, il primo tipico di Bologna e l'altro diffuso anche in altri centri emiliani, i quali a prima vista sembrano del tutto diversi e invece, probabilmente (!), sono stretti parenti, quasi omonimi! Mi sono chiesto spesso perché il nome Ligabue (del pittore naif, ed ora anche del cantante) fosse tanto diffuso: possibile che il semplice fatto di "legare i buoi" abbia dato origine ad un cognome? Allora perché non abbiamo anche cognomi come, che so, Nutrigallina, Chiudimaiale o altri? Finché un giorno non mi sono imbattuto nella parola dialettale "ligabò" che si italianizza in "ligabue" e che significa proprio ciò che sembra, ma non perché si lega il bue con la corda, ma perché, essendo essa un tipo di pianta selvatica spinosa e coriacea, "lega", cioè intralcia le zampe del bue che sta trascinando l'aratro! E poi c'è Bonaga, uno dei tanti nomi apparentemente augurali che comincia per "bon-", come Bonora, Bonaiuto, Bongiorno, ma anche Bonn e Bononia. Mi viene in mente un certo Benericetti, il quale voleva farmi credere che il suo nome derivasse da un monaco, suo antenato, il quale "faceva bene delle ricette". Mostruosa cantonata, poiché molto probabilmente il significato era di "ben ricevuto" e perciò parente di Bennato, Benvenuto ecc! La regola è sempre quella: "Mai fidarsi delle apparenze! Nulla è (quasi) mai ciò che sembra in fatto di etimologie in generale e di nomi in particolare"! Bonaga (Bunèga) infatti, sempre secondo il Menarini, è un altro nome per indicare la stessa erbaccia detta ligabue (ligabò)!
Del resto, Cervellati (altro cognome tipico di Bologna) non ha nulla a che vedere col cervello (umano): un antico documento dice che i “cervellati” erano salsicce (vedi italiano: cervellata).
E, tanto per fare un ultimo esempio, del mio amico Angelo Modanesi di Cervia, si potrebbe supporre un'origine modenese con un errore di vocale, se non fosse che il "modano" è un attrezzo che i pescatori romagnoli usano per riparare le reti da pesca!
L'avreste mai detto? Poi magari tutte le mie congetture sono sbagliate, ma abbiamo un'idea di quante e quanto curiose siano le risposte alle quali non avremmo mai pensato e di quanti siano i tranelli nei quali è facile cadere?
Chi desiderasse tuttavia saperne di più, potrà consultare il De Felice che tratta la materia in modo molto più completo. In ogni caso, questi Autori accennano brevemente alle origini, ma esaminano i cognomi da un punto di vista etimologico, cioè cercano di spiegare il loro significato (Fabbri dal fabbro, Molinari dal mugnaio, Rossi dal rosso, ecc.) e basta.
Ho trovato invece un altro testo: "Sulla storia del cognome a Bologna nel Secolo XIII" scritto intorno al 1890 dall'accademico concittadino Augusto Gaudenzi ed edito da Forni, il quale modifica ed integra in modo radicale molte teorie espresse, prima e dopo di lui, da diversi studiosi della materia. E' un libro "difficile" che ho letto e riletto con estremo interesse, ma che non sono riuscito a comprendere del tutto! Ciò in parte perché io sono un po' "duro di comprendonio" e in parte perché è scritto in un complicato linguaggio tecnico, in un italiano di oltre un secolo fa e con decine di citazioni in latino e greco non tradotte! Gaudenzi si differenzia dagli altri, poiché egli non cita, se non incidentalmente, i cognomi bolognesi, ma si limita (si fa per dire!) ad indagare perché tali cognomi sono nati, come, dove e quando: un argomento ancora più affascinante. In un esame lungo 163 pagine fitte fitte, egli parte dagli antichi Greci e Latini, attraverso il basso Medio Evo (il periodo nel quale cominciarono ad evidenziarsi i cognomi attuali), per arrivare ad oggi, citando precedenti studi analoghi, fatti da importanti linguisti (le cui teorie a volte conferma, a volte stronca!), e fissa alcuni principi che, del resto, sono validi per tutti i cognomi d'Italia. Dice tuttavia di aver preso in considerazione la Bologna Comunale non solo perché è la sua città, ma sopra tutto perché essa fu tra le prime ad adottare i cognomi come li intendiamo oggi, mentre la vicina Romagna, ad esempio, li adottò almeno un secolo più tardi. Tralasciando tutta la parte antica, per la quale rimando gli interessati al libro sopra citato, ci sono diverse considerazioni importanti che cercherò di riassumere in modo succinto e semplice, come di solito faccio.
Innanzitutto egli dice che non ci fu nessuna legge, nessun intervento dall'alto e nessun notaio che imposero l'uso dei cognomi, ma che essi si vennero a formare per necessità nate nel popolo, proprio come era successo e stava ancora succedendo per il passaggio dal basso latino al volgare. Una società ristretta ed analfabeta non aveva bisogno che del nome, al quale, al massimo, si aggiungeva "figlio di" (proprio come nella antica Grecia) e spesso bastava anche il soprannome. Ciò accade anche oggi, soprattutto nelle campagne e nei piccoli paesi, dove la gente è conosciuta per soprannome e pochi sanno come si chiamino all'anagrafe! Ancora non troppi anni fa, certi miei parenti di Sesto Imolese, a nome Minardi, venivano chiamati in loco "Zvàn-André", poiché gli antichi patriarchi di quel gruppo di famiglie erano due e si chiamavano Giovanni e Andrea! Ebbene, chi andava a Sesto e chiedeva dei Minardi, non trovava nessuno che lo sapesse, anche perché i Minardi erano tanti, ma se si chiedeva degli "Zvàn-André", anche i bambini gli indicavano la strada!
Nei paesi del Sud quasi tutti sono conosciuti per soprannome e il nome e cognome lo usano solo negli atti ufficiali o per la targhetta alla porta.
Altra considerazione riguarda il tempo di formazione: alcuni credono erroneamente (e lo hanno anche pubblicato) che i cognomi si siano venuti a formare addirittura nel X e XI secolo, mentre categoricamente lo esclude Gaudenzi, il quale dice che a Bologna non esisteva nessun cognome prima della seconda metà del XIII secolo e che in certe zone essi arrivarono addirittura nel XV! Non solo, ma dice anche che alcuni cittadini noti avevano il cognome, ma non lo usavano: è il caso del famoso giurista D'Accursio che non aveva cognome, ma lo ebbe suo figlio Francesco, il quale, pure giurista, non lo usò mai. Del resto, una volta la gente non dava al proprio nome l'importanza d'oggi: ricordo un aneddoto accaduto a mio padre negli anni '30, quando mandò un fattorino (non troppo intelligente) da un nuovo operaio per chiedergli come si chiamasse. Il fattorino tornò dicendo che si chiamava Albano e Albano venne chiamato da tutti per 20 anni, fino al giorno in cui egli se ne andò e solo quel giorno egli disse di chiamarsi Onofrio! Dice anche che la formazione cognominale s'è sviluppata di pari passo con il progresso: più una città era ricca e più la gente ricca si sceglieva un cognome di appartenenza, che non era necessariamente quello del padre, ma che era quello del gruppo, del quale potevano far parte anche soggetti estranei e non consanguinei, similmente alla "familia" romana che includeva anche i servi. Dice inoltre che il cognome si formò prima in certe zone poi in altre, prima nelle città poi nelle campagne, prima presso i nobili ed i ricchi poi presso il popolo. Insomma: un processo molto più graduale, spontaneo e complicato di quanto si sarebbe potuto pensare.
Anche Gaudenzi, come più tardi gli altri, conferma le "categorie" d'origine dei nomi: patronimici, da soprannomi, da mestieri, da luoghi d'origine, ecc. ma precisa che almeno il 50% deriva da nomi propri e, in questo caso, si scopre che moltissimi cognomi si riferiscono a nomi propri, oggi ormai scomparsi. Che Uguccione, Azzo e simili fossero antichi nomi non più in uso, lo sapevamo tutti, ma nessuno avrebbe mai pensato che il cognome "Carboni", anziché dal carbone, derivasse dal nome proprio medievale "Carbone" che nessuno oggi si sognerebbe più di dare a un bambino!
Ma la cosa più stimolante è che questi nomi scomparsi, senza che noi potessimo immaginarlo, sopravvivono nei nostri cognomi: un esempio per tutti è il cognome Bencivenni che poteva fare pensare ad un nome augurale o a qualcuno che… "venne qui bene",invece è,a quanto pare, patronimico del nome proprio antico "Bencivenne"! Ecco perché ho sempre detto che in fatto d'etimologia, e ancor più d'onomastica, occorre fare molta attenzione alle trappole!
All'inizio i cognomi venivano scritti o in volgare o in basso latino (Galluzzi e Carbonesi suonavano Galutii e Carbonensis) e varie storpiature erano anche causate da errori di notai e scrivani o dalla generale scarsa conoscenza delle lettere.
Ma era anche possibile che la gente si scegliesse un cognome, che se lo cambiasse o che lo migliorasse a piacere, fino al giorno in cui, per legge, esso dovette restare immutato e trasmesso ai figli per via paterna. È giusto così, ma io continuo a pensare che certi cognomi buffi e osceni dovrebbero poter essere corretti, anche lievemente, senza dover impazzire con la burocrazia, che non fa caso a chi per tutta la vita deve essere vittima del dileggio altrui.
La materia è controversa per antonomasia: accade che gli studi portino e certe conclusioni, ma altri studi portino a conclusioni molto diverse. Nel caso di alcune antiche famiglie nobili non si sa bene se esse abbiano dato il nome al loro castello, torre o territorio o se ne abbiano tratto il nome.
Ed è anche certo che i nostri antenati erano più cattivi di noi, poiché davano impietosi soprannomi i quali poi diventarono cognomi immutabili.
Inoltre, il Gaudenzi dice che non tutti i cognomi con finale "i" sono genitivi, poiché molti sarebbero il plurale del nome di un gruppo.
Dice infine che spesso i diminutivi, almeno alle origini, significavano "figlio di", ad esempio Gherardino o Gherarduccio o Gherardello era figlio di Gherardo e tutti hanno dato origine a cognomi diversi!
Da tutte queste considerazioni e da molte altre che non sto a riportare, risulta evidente che per studiare l'origine ed il significato di nomi e cognomi occorre conoscere l'italiano antico, il latino, il greco, il tedesco (o longobardo), il bizantino e tutti i linguaggi dei popoli che hanno dominato, per poco o per molto tempo, le nostre Regioni. Cognomi che possono essere anche recenti, come storicamente è stata recente al Sud la dominazione spagnola che ha lasciato dei Martinez e dei Lopez che sono inequivocabili, ma anche dei Sàbato o Sabàto che non hanno nulla a che vedere con il giorno della settimana, ma molto più verosimilmente con i "zapatos" che sono scarpe. A volte noi leggiamo i risultati delle ricerche e…ci crediamo, sia perché chi le ha fatte ne sa più di noi, sia perché in qualche modo dobbiamo rispettare il lavoro altrui, tuttavia spesso sorgono dubbi ed è il caso del cognome Sica o De Sica, frequente a Napoli, che il De Felice fa risalire alla base Siccani, individuando in “sic” il longobardo "Sieg=vittoria". Sarà così, ma io mi chiedo: non avrebbe potuto accennare anche all’eventualità che il nome potesse derivare da quella "sica" che presso i romani era un'arma corta e che ha dato all'italiano il termine "sicario"?
Oggi la ricerca dell'etimologia di un cognome si è ridotta a semplice curiosità, poiché, come afferma anche De Felice, esso è ormai un'etichetta che ha perso il significato originale: quando incontriamo un Marangoni che di mestiere faccia davvero il falegname è un caso!Quella dei nomi e dei cognomi, ma anche dei toponimi e delle parole, è una foresta intricata e misteriosa, nella quale noi troviamo qualche sentiero qua e là, ma non sapremo mai con esattezza come siano andate le cose, quali percorsi abbiano fatto per arrivare a noi e da dove siano partiti: di certo c'è solo che ora sono così e non cambieranno, se non molto più lentamente. Però, mentre le parole, i nomi ed i toponimi possono essere soggetti a novità e neologismi, i cognomi restano fissi, anzi tendono a diminuire a causa dell'estinzione delle famiglie.
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 12:41:00 0 commenti
Argomento: Storia di Bologna