mercoledì 21 novembre 2007

AI LETTORI

AVVISO

tutti gli amici interessati al
dialetto bolognese
e alla nostra cara, vecchia Bologna,
che è in libreria la prima ristampa del libro:

"V’gnì mó qué Bulgnìs"
Costa Editore


un libro interamente scritto in dialetto,
che ho pubblicato con la preziosa collaborazione
del noto autore ed editore
Tiziano Costa,
il quale ne cura la prima parte.
Esso è infatti diviso in due parti:
la prima comprende la Storia di Bologna
dagli albori della civiltà fino ad oggi;
la seconda è costituita da oltre 250 storielle
da me raccolte e dedicate a mio padre Giovanni.
Il libro, che si trova soltanto in libreria, costa 10 euro.
A tutti coloro che lo leggeranno auguro
buon divertimento e chiedo loro di farmi
avere qualunque tipo di critica o di commento,
ciò che mi sarà utile per altre eventuali pubblicazioni.

Un saluto da Paolo Canè

lunedì 19 novembre 2007

V'gnì mò qué, bulgnìs


Con la barzelletta n° 96 abbiamo esaurito il programma di presentazione di questo filone: chi volesse ritrovare queste storielle e molte altre, potrà trovarle sul libro di T.Costa e P.Canè "V'gnì mò qué, bulgnìs" la cui ristampa si trova in questi giorni solo nelle migliori librerie di Bologna. Il libro, oltre a 250 barzellette dialettali, contiene anche una gustosa "Storia di Bologna" (dalla Preistoria ad oggi), sempre in dialetto, scritta dal noto storico petroniano Tiziano Costa. Gli altri filoni di questo blog su Bologna e il suo dialetto, continuano. Grazie e buon divertimento.

venerdì 9 novembre 2007

Proverbio n. 162

L'óv mardaról.
Il primo uovo della gallinella (…ma anche il primo parto!)

Proverbio n. 161

L'uvartùr dal Flauto Magico (avàir la butàiga avérta).
La patta dei pantaloni.

Proverbio n. 160

Livèr al cùl da l'àsa.
Darsi una mossa.

Proverbio n. 159

L'é méi sudèr che spudèr.
Meglio stare coperti che buscarsi la tubercolosi.

Proverbio n. 158

L'é ch'me una scuràzza mótta: l'an fà brìsa al cióch mó las fà sénter listàss.
Dicesi di chi trama nell'ombra, ma poi finisce per tradirsi.

UNA CITTA' DEL SEICENTO

La recente lettura di un libro, mi suggerisce di aggiungere le note seguenti. Si tratta di un bel saggio di Ottavia Niccoli "Storie di ogni giorno in una città del Seicento" (Laterza 2000) nel quale la città è Bologna e la cosa mi è parsa strana, poiché l'Autrice è marchigiana di Osimo e docente presso la università di Trento, tuttavia la sue annotazioni su Bologna mi hanno fornito nuovi elementi che sono inerenti a questa mia raccolta.

Evidentemente la Niccoli è entrata in possesso di documenti relativi alla mia città e li ha intelligentemente usati per questo saggio che è molto interessante e che tutti dovrebbero leggere: si tratta di processi civili e penali, soprattutto dell'anno 1630, ma con diversi riferimenti al periodo 1570-1630, e di un centinaio di illustrazioni di quadri e disegni coevi, più o meno celebri, più o meno bolognesi. Il libro però non parla né di leggi, né di pittura, ma usa questi mezzi come viatico per un sorprendente viaggio nella Bologna (ma anche nell'Italia) di 4 secoli fa. Potrei continuare a parlare di questo libro, ma mi voglio limitare ad una trentina circa di termini, quasi tutti elencati in un mio precedente saggio, dove non sempre ero riuscito a trovare una spiegazione etimologica, e ricavati dalla trascrizione degli atti processuali da parte dei "cancellieri" del tempo. L'Autrice suppone che i convenuti fossero in maggior parte analfabeti e che parlassero dialetto, perciò i cancellieri avranno trascritto le deposizioni mettendoci anche "del loro", tuttavia credo che per molti termini essi abbiano riportato una traduzione abbastanza fedele sia di termini dialettali, che di termini della lingua antica che ora sono caduti in disuso. Ho trovato parole la cui forma spiega meglio quella che nel dialetto è rimasta, come: "lavorieri", "bugada", "putta", "giobia", "piegora", "bigatto", "sbuzzare", "lardarolo", "teg-gia", "bracciadella", "mogliere", "sdazzare" i quali significano rispettivamente: lavori, bucato (al femminile), bambina/bambola, giovedì, pecora, baco o verme, ferire, salumiere, fienile/capanno, ciambella, moglie e setacciare e spiegano i termini dialettali, ancora oggi esistenti: lavurìr, (la) bughè, (la) pu (= bambola), zóbia, pigra (con la "g"), bigàt, sbuzèr, lardaról, tìz, brazadèla, muiér e sdazèr.
Ho trovato anche "beccaro" per macellaio (b'chèr) che spiega sia l'evidente uso di carne soprattutto ovina, sia anche il termine offensivo "becco" (bàcch) che allude chiaramente alle corna dell'animale!

E ancora: "una brisia" cioè "un poco" che spiega il nostro termine di doppia negazione "brisa" (briciola); la "stana", veste scollata senza maniche, che porta al nostro stanèla (ed io credevo derivasse da "sottanella"…); "color berrettino", grigio, che porta a "bertén" (o "bartén"): "vestiti molesini", soffici, di seta che spiega il nostro "mulsén" e ancora il termine offensivo "bugiarona" che è l'antenato di "busàn-na" (in italo-bolognese, usatissimo, "busona" o "busone", per indicare persone omosessuali o molto fortunate), il quale non è necessariamente relativo a bùs (buco) come molti potevano credere.
E anche il termine, più volte ripetuto, di "scoffoni" per calzini, calzerotti (indumenti allora molto apprezzati per regali o doti!), il quale spiega il termine gergale "sc'fón", ormai in disuso, che però mio padre usa ancora!
Curiosa la frase "Di có del rastello", antenata del nostro ed có dal rastèl =sul cancello, in cima al cancello; ed anche "l'hanno bravata sul mostaccio", cioè " le hanno gridato in faccia", frase che non si usa più, ma che spiega i due termini bravèr (sgridare, redarguire) e mustàz (ormai disusato per faccia, viso, grugno), oltre che essere parente stretta del napoletano, ancora molto vivo, "alluccare n' capa".
Nei diversi casi di processi per violenza sessuale, noto che sono riportati termini pseudo scientifici come "membro" e "natura", ma credo si tratti di "traduzioni" da parte dei cancellieri, poiché i popolani miei avi usavano sicuramente termini non molto diversi da quelli di oggi!
Infine ho trovato termini che sono caduti del tutto in disuso, come:
- "barba" per zio (mentre invece "zia" era tale e quale)
- "scarsella" per tasca o bisaccia (usato ancora oggi nei dialetti veneti)
- "fottuto", parola offensiva che fa parte dell'italiano e dei dialetti meridionali, ma oggi del tutto inusuale a Bologna, tuttavia l’offesa “becco fottuto” è stata la più usata a Bologna per tutto il Seicento ed il Settecento!
- "poltrona" altra parola che allora era offensiva (come "bugiarona"), ma che oggi si limita ad indicare una persona pigra o…un mobile!

Ma la cosa che più mi ha emozionato, come il ritrovamento di un "pezzo" antico, durante gli scavi archeologici, quando ancora non si sa se sia falso o autentico, ma che provoca ugualmente una forte eccitazione, è stato il riferimento ad un certo don Predieri, accusato di avere suonato il liuto nel "comune di Foscherara, presso la casa del monaro Parisi": io ho abitato per 20 anni alla Foscherara (che oggi è un quartiere ed una strada di Bologna), nelle cui vicinanze ci sono ancora il Molino Parisio e la Via Parisio!!!

Paolo Canè

mercoledì 7 novembre 2007

Proverbio n. 157

L'àura di quaión la vén par tótt.
Prima o poi tutti sbagliano.

Proverbio n. 156

La's pól méttr'el tàtt in spàla.
Dicesi, impietosamente, di donna non più giovane.

Proverbio n. 155

La prémma galén-na ch'la cànta l'à fàt l'óv, la secànda al l'à cuvè, la térza al l'à caghé.
"Excusatio non petita, accusatio manifesta".

Proverbio n. 154

L'àn dal càz.
Le calende greche.

ANCHE IL DIALETTO CAMBIA (O ALMENO DOVREBBE…)

Ogni anno alcuni giornali dedicano l'intera pagina culturale all'uscita dei due principali dizionari, Zingarelli e Devoto, con due articoli affiancati. E' la stessa pagina d’ogni anno, perciò potrebbero ripubblicarla, tale e quale, anche il successivo, con qualche lieve variazione e cambiando la data! Il giornalista si limita a riportare il numero dei lemmi, dei significati nuovi e dei neologismi, facendo di questi ultimi qualche esempio, tanto per soddisfare la curiosità del lettore, ed anche il prezzo, anch'esso concorrenziale, ad esempio: € 68,40 l'uno ed € 68,50 l'altro!
Si dà molta importanza alla lingua che cambia e s'invitano i consumatori ad acquistare queste nuove edizioni, ma in realtà si tratta di pubblicità occulta ai due dizionari, poiché gli Editori, dovendo pur vivere, sono costretti ad una nuova uscita ogni anno. Però, se è vero che un dizionario ci può servire per 5-10 anni e che pertanto non siamo costretti a spendere 68 euro l'anno, è anche vero che la lingua cambia, ogni giorno, come del resto ha sempre fatto. Ma cosa cambia? Cambiano soprattutto i significati di una stessa parola, ma le "novità" vere e proprie sono quasi sempre o parole americane o "mostriciattoli" (così li chiamava Aldo Gabrielli) che sarebbe bene dimenticare, anziché riportarli su un dizionario che voglia essere serio!
La parola "fusto" ha significato per secoli il tronco, lo stelo, la parte centrale e portante di un qualsiasi corpo. Poi, con l'avvento del petrolio, ha assunto il significato di bidone e infine, nel gergo del '900, l'ulteriore significato di uomo bello e prestante: non si tratta dunque di parola nuova, ma di nuovi significati dati ad una parola vecchia. Uno dei due dizionari una volta dichiarò "solo" 3000 parole nuove e ben 25.000 nuovi significati di parole vecchie.

A differenza di quanto dichiarò una volta un accademico plurititolato: "Non è vero che l'italiano cede sempre più spazio alla lingua americana, se non in pochi determinati settori", dal mio modesto punto di vista io credo che ciò non sia esatto, poiché i "pochi settori" sono apparentemente tanti: la tecnica, l'informatica, la scienza, la medicina, lo spettacolo, la politica e, quel che è peggio, la nostra vita di tutti i giorni!Siamo inflazionati di termini americani, anche se non sappiamo scriverli, anche se non sappiamo pronunciarli, anche se già abbiamo corrispondenti termini italiani di antica nobiltà, anche se detti a sproposito. Sono invece d'accordo col succitato accademico quando denuncia il mondo televisivo ( gli "atroci" reality show) e quello politico (welfare, question time, ecc.) come diffusori di inutili parole incomprensibili alle masse ed attentatori alla nostra lingua.
Il giornalista Giulio Nascimbeni riportò una bella citazione del filologo svizzero Giovanni Pozzi: "Il libro (dizionario, in questo caso), deposito della memoria, antidoto al caos dell'oblio, dove la parola giace, ma insonne, pronta a farsi incontro con passo silenzioso a chi la sollecita. Amico discretissimo, il libro non è petulante, risponde solo se richiesto, non urge oltre quando gli si chiede una sosta. Colmo di parole, tace". Una evidente reazione all'aggressione, soprattutto televisiva, della pubblicità e dell'informazione esasperata, che il Nascimbeni riporta come pertinente alla presentazione di un dizionario, mentre io credo, al contrario, che un dizionario pieno di parole inutilmente "nuove", fastidiosamente anglofone, sovente di dubbio gusto e in buona parte destinate a non durare nel tempo, non rappresenti soltanto un'aggressione al sottoscritto, ma anche alla nostra bella lingua!
Qui non si tratta di voler fermare un processo innovativo che è sempre esistito, si tratta solo di non avere troppa fretta e la pubblicazione annuale di nuovi dizionari induce alla troppa fretta di innovare, poiché qualcosa di nuovo debbono pure pubblicare, se vogliono vendere! Ecco che il libro- dizionario cessa di essere "l'amico discretissimo" descritto dal Pozzi, limita la sua funzione di "conservatore della lingua" che dovrebbe essergli congeniale e diventa strumento di aggressione, perché giustifica e rende ufficiali troppe vanità, come fa la TV, come fanno i giornali, come fa la politica, come fa Internet e come fanno tutti coloro che si spacciano per persone introdotte e moderne.

E la lingua cambia, anche se più lentamente, poiché la globalizzazione lo impone, lo impone l'informatica e lo impongono i sempre più frequenti contatti internazionali. Fortunatamente però molti nuovi termini, anche se i dizionari continuano a riportarli, spariscono dalla bocca degli italiani o restano circoscritti in piccole zone: "ganzo", col significato, secondo le regioni, di bello, elegante o fidanzato o amante, chi lo usa più, se non i toscani? Chi tra i giovani chiama più "matusa" i genitori o "ferro" l'automobile? Eppure questi termini (e centinaia di altri), ostinatamente riportati dai dizionari, sono stati a suo tempo "novità" che hanno fatto vendere nuove edizioni!
E' difficile oggi, ubriachi di consumismo come siamo, distinguere ciò che è utile, giustificato, elegante e necessario da ciò che ci viene inculcato allo scopo di vendere: oggi non esiste più, apparentemente, l'educazione o l'insegnamento, ma esiste solo ciò che si vende o non si vende!
E la lingua cambia. Cambiano di poco la grammatica e la fonetica (per fortuna!), mentre cambiano di molto i vocaboli e così i dizionari diventano i "sacerdoti" delle innovazioni, stabilendo ciò che si dice o non si dice, e pertanto diventa corretto ciò che essi riportano e scorretto ciò che non riportano.
Sono il termometro del cambiamento, anche se i cambiamenti veri e propri hanno bisogno di molto più tempo e di citazioni da parte d’illustri scrittori e poeti.Anche i dialetti cambiano, ma, rispetto alla lingua, hanno tre principali differenze e mi riferisco ora al bolognese:

1) il loro cambiamento è sovente un semplice appiattimento sulla lingua che è sempre più predominante: ho già detto che stiamo salutando il "pulismàn" a favore del "véggil", il "cumpàgn" a favore del "cómme" e da tempo abbiamo dimenticato "chèsa" a favore di "cà", ma gli esempi sono innumerevoli.
2) per il solo fatto d'essere idiomi soprattutto parlati e incidentalmente scritti, accade che i parlanti cambino in modo anche sensibile, mentre i dizionari continuano a riportare vecchie parole che così restano scritte, ma non più pronunciate: vedi "paese" che tutti i dizionari, anche i più nuovi, continuano a scrivere "paiàis", mentre la quasi totalità dei bolognesi pronuncia, da anni, "paàis".
3) proprio perché nessuno ha mai stabilito come si debba scrivere e come si debba pronunciare, a differenza dell'italiano che ha le sue precise regole e poche eccezioni, c'è un'enorme confusione in fatto di fonetica e di grafia tra ciò che è antico e ciò che è moderno, tra ciò che è corretto e ciò che è scorretto, tra ciò che viene tramandato da persone colte e ciò che viene riportato da persone ignoranti e, infine, tra ciò che dicono o che scrivono i bolognesi e ciò che dicono i campagnoli.

La lingua italiana segue dunque il suo percorso, anche se afflitta da parole straniere, anche se inflazionata da termini non duraturi, inquadrata dalla sua grammatica e rifornita dai suoi dizionari, mentre il dialetto, sempre più prossimo alla sua estinzione, è allo sbando. Cambia la pronuncia, ma non cambiano i non troppi scriventi, alcuni dei quali seguono la dottrina illuminata del Menarini, vero innovatore in questo campo, ma la maggior parte degli altri continua a scrivere in un'orgia di termini obsoleti, grafie scorrette e spesso, purtroppo, di non conoscenza: si tratta in pratica di analfabeti che vogliono scrivere!Dunque anche il dialetto cambia o almeno "dovrebbe" cambiare…se solo fosse una lingua scritta!
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Paolo Canè

sabato 3 novembre 2007

Proverbio n.153

La mérda la s'arvólta al badìl (la s'arvólta al granadèl).
Chi rinfaccia ad altri una colpa propria.

Proverbio n. 152

L'à imparè a pisèr a zénqv àn.
Dicesi di ritardato.

Proverbio n. 151

La dóna bravtén-na la fà al lèt a la matén-na; la dóna acsé acsé al le fà al dàppmezdé; la dóna vàca al le fà quànd la s'agiàca.
Tre categorie di donne.

Proverbio n. 150

I stàn lé col cùl!
"No pasaran!"