giovedì 12 luglio 2007

LA SÍMMENTAL (n. 44)

Un sgnàuri al và dal lardaról e al càmpra una scatlén-na ed Sìmmental. Quànd l'é a cà al s'acórz ch'l'è vùda! Al tàurna dal lardaról a reclamèr e ló a gli spiéga:

"Ogne tànt al càpita, parché la lavoraziàn d'la chèren in scàtla l'é tótta in automàtich: la bìstia la scórr in vàtta a di róll, la vén disusè e pò la vén tranzè in mód d'andèr dàntr'al scatlén-ni chi pàsen ed sàtta. As vàdd che la só scatlén-na l'à ciapè própi in corispondànza con al bùs dal cùl!"

AL RECLÀM (n. 43)

Un zuvnót al reclàma col farmazésta:
"Al m'à vindó di preservatìv col bùs!"
"An i é dóbbi, i én tótt controlè ón pr'ón!"
"Alàura, vólel dìr ch'an mi càmbia brìsa?"
"Ànch s'a vléss, an pós brìsa!".

Al zuvnót al và vì tótt incazè e al tàurna int l'àura che la farmazì l'é asrè, con un buslót ed varnìs biànca e als métt a scrìver in vàtta a la s'rànda: QUESTA FARMACIA VENDE PRESERVATIVI BUCATI. Un v'ciàtt ch'al guardèva lé atàis, ai déss:
"Sé, sé: ch'ai zónta pùr ch'is pìghen ànch int al mèz!"

UN CÍNNO SVÉLT (n. 42)

Al faturén d'un frutaról, in sarvézzi da trì dé, al sérv una v'cén-na:
"Mé a v'révv una mèza gàmbra".
"An sò brìsa s'as pól: ch'l'aspèta ch'a vàg a d'mandèrel al padràn".

Al và ed là e il dìs:
"Sgnàur padràn, ai è una spàca bàl d'una vècia ch'la vól mèza gàmbra…", mó in ch'al mumànt a s'acórz, con la có d'l'óc', che la v'cén-na ai éra andè drì e che l'avèva sintó incósa, alàura al cunténua: "…mó sicómm che ch'la bèla sgnàura qué l'à d'màndè listàss, pósia dèri ch'l'ètra mèza?"

Dàpp a un póch al padràn al le ciàma e a gli dìs:
"Té t'ì un cìnno svélt: ch'sa in dirésset d'andèr a dirìzer al negózi nóv ch'ai ò apànna avért in Brasìl?"
"In Brasìl?", al d'mànda il cìnno tótt felìz, "Sóccia, l'é al Paàis ch'al fà par mé: l'é pén ed zugadùr da fótbal e ed putèn!"
"O, bèda bàn che mi muiér l'é brasilèna!"
E ló svélt: "Ah sé? E in che squèdra zùghlà?".

AL FATURÉN DAL B’CHÈR (n. 41)

Un b'chèr l'é drì dal bànch ch'al sérv i cliént e al dìs col só faturén:
- Cìnno, sicómm t'ì lé sànza fèr gnìnta, quànd mé a pàis la chèren, ciàpa al fóii d'la chèrta oleè e méttel in vàtta à la balànza! E sóbbit dàpp ai dìs:
- Cìnno, con ch'l'ètra màn, spàza al tavlàn! E dàpp:
- Cìnno, quànd mé a sàigh egli ós, con un pà dài un chélz sàtta al bancàn! E po':
- Cìnno, con ch'l'ètra gàmba, dà un cócc' a l'óss ch'al fà curànt!
Al sèlta só al cìnno e al dìs:
- Sgnàur padràn, s'al vól am métt una granè int al cùl, acsé a spàz ànch la butàiga!

Ingambarler e altre divagazioni

"Indùv s'él ingambarlè?" mi chiede mio padre, riferendosi ad un filo elettrico che si era impigliato in una siepe. E subito prendo nota di questa ennesima, strana parola, mai sentita prima e che non viene riportata dai dizionari bolognesi in mio possesso: "Dove si è… ingambarlato?". Una delle tante espressioni dialettali che sorprendono e fanno sorridere. Il termine italiano corrispondente è "impigliarsi" (da pigliare, prendere), benché etimologicamente (gamba) dovrebbe corrispondere ad un ipotetico "ingambettare" (che non esiste) e "inciampare" (da ciampa = zampa) che esiste, ma che è generalmente riferito a persona o animale e non ad una cosa come un filo oppure a "incespicare" (dal latino caespes = zolla).
Nel nostro dialetto esiste anche un "imbalzèr" (da cui "imbalzè", epiteto per chi è lento e maldestro), a cui non corrisponde un ipotetico "imbalzare" che non esiste (anche se a Bologna lo diciamo spesso), ma che dovrebbe riferirsi alla "balza", la parte (bianca) sopra lo zoccolo dei cavalli e per estensione anche di altri animali: ricordo d'aver visto da piccolo le mucche che venivano legate con una corta corda tra il collo e una zampa ("balza"), affinché potessero pascolare,senza allontanarsi troppo.
Per inciampare abbiamo anche "inzamplèr", ma per impigliarsi non abbiamo che questo strano e poco usato verbo, poiché non potremmo dire "impièr" (da impigliare), termine che già significa "accendere".
Un verbo usatissimo (peraltro l'unico con questo significato) che può sembrare curioso, ma non lo è: in tutti i dialetti meridionali, dal napoletano al siciliano, esiste "appicciare" (italiano: appiccare e forse da qui viene il nostro "impièr", attraverso un probabile "impicèr") e addumare in Sicilia (probabile francesismo da “allumer”).
L'operazione contraria, spegnere (o spengere, come preferiscono i toscani), si dice al Sud "astutare" ed è questa ora che può sembrare curiosa, poiché richiama alla nostra mente "astuto, furbo" che non c'entra nulla, ma che invece con ogni probabilità deriva dal latino "extinguere", cioè spegnere.
A Bologna invece diciamo "smurzèr", che ricalca l'italiano smorzare, il quale, nella sua variante regionale, significa anche spegnere (o spengere!).

Tornando a "imbalzè" (maldestro), il termine italiano corrispondente è "impacciato", parola che, attraverso il francese "empeché", viene pure dal latino "impedicatus" o "impeditus" e…c'entrano sempre i piedi, ma vediamo che, sotto sotto, in tutte le nostre parole, in lingua o in dialetto, c'entra quasi sempre il latino, come sostengo e come ho sempre sostenuto!
-
Paolo Canè

Lippis et tonsoribus

"(Cosa nota) a ciechi e barbieri": così definisce Orazio nelle sue Satire una cosa che è nota a tutti, che corrisponde alle espressioni "lo sanno anche i muri", o "lo sanno cani e porci" o "l'ha detto al colto e all'inclita", ecc.
"Lippus" in latino era il cieco o il molto miope, del resto "lippo" ha lo stesso significato in italiano, pur se è parola nota a pochi e disusata.
Lippi è anche cognome diffuso in Emilia-Romagna e Toscana: ricordo i famosi pittori rinascimentali Filippo e Filippino, il "coach" Marcello, il presentatore Claudio ed anche un suo omonimo che è…il mio assicuratore, romagnolo verace! De Felice fa risalire l'origine di tale cognome a "Filippo" (dal greco: amante dei cavalli) ed è strano che non accenni alla possibilità che esso possa derivare da un ipotetico nome di battesimo medievale "Lippo", cioè miope o mezzo cieco, magari scomparso, come del resto il più diffuso Claudio deriva dal latino "zoppo", Paolo da "piccolo" e così via. Altre volte, in fatto di etimologia dei nomi e dei cognomi, ho avuto modo di notare che gli studiosi ne enunciano con certezza un'origine univoca, senza neppure presupporre che potrebbe esisterne un'altra : è il caso di questo Lippi, di Sica o De Sica dei quali ho già parlato e di molti altri. Il Gaudenzi scrisse che oltre la metà dei cognomi italiani deriva da nomi propri e inoltre che molti nomi di battesimo in uso nel Medioevo sono oggi scomparsi, perché dunque non supporre che questi ultimi abbiano dato origine a molti cognomi, senza andare a cercare altre più o meno probabili etimologie?
Il bolognese ha sempre avuto "traduzioni" dialettali dei cognomi, almeno di quelli emiliano-romagnoli, tuttavia questo Lippi resta invariato anche quando si parla in dialetto, poiché la voce maschile "Lépp" si riferisce al Lippo, una località alle porte di Bologna, della cui etimologia non ho idea, mentre il femminile "la léppa" non è altro che la voce usata per "la lippa", un gioco che i ragazzi facevano una volta e che in alcune regioni viene chiamato "saltapicchio", credo. Un gioco che, specialmente in questa era di giochi elettronici, è scomparso, ma che resta nel noto modo di dire "và bàn a zughèr à la léppa" che è un modo gentile di mandare qualcuno a quel paese. Io non vorrei essere irriverente nei confronti di studiosi che hanno dedicato la loro vita a ricerche su lingue, dialetti e quant'altro, tuttavia mi chiedo se non sia il caso, talvolta, di mandare a "giocare alla lippa" coloro che hanno troppe certezze in fatto di etimologia, a meno che non mi sbagli e che… non ci debba andare io!
-
Paolo Canè

Stranezze e scambi

Pensando alla situazione linguistica attuale, dove quasi più nessuno parla solo dialetto, molti non lo parlano affatto o non lo parlano più e la maggior parte lo parla e lo intende più o meno bene, ma ha molta più dimestichezza con l'italiano, posso azzardare un confronto con la situazione di tre, quattro o cinque secoli fa, quando, presumibilmente, la stragrande maggioranza parlava solo dialetto, pochi avevano qualche infarinatura di italiano e pochissimi lo parlavano e lo scrivevano abbastanza bene.
Una situazione quasi opposta a quella di oggi. Tuttavia, a causa del fatto che molti parlavano entrambi gli idiomi, si può presumere che abbiano avuto luogo diversi scambi, dovuti in buona parte al motivo che, non conoscendo magari una parola in italiano, la si diceva in dialetto e viceversa. Mi viene in mente il caso di Lillo Mazzotta, un siciliano emigrato in Germania, dove risiedeva da 30 anni e gestiva un noto ristorante di Norimberga. Aveva sposato una tedesca, suo figlio si chiamava Oliver e parlava solo tedesco e così faceva anche lui coi suoi clienti, ma con noi e con i suoi amici italiani, ovviamente, parlava italiano.
Nonostante non avesse fatto molti studi, parlava abbastanza bene tutte e due le lingue, però, quando parlava italiano, ogni tanto se ne usciva con una parola in tedesco, ad esempio diceva "U Bahn", poiché la parola "metropolitana" non si usava, quando 30 anni prima aveva lasciato l'Italia!
Per un motivo analogo vendeva ai suoi clienti il "tiramisu", ma non aveva mai pensato che il significato italiano della parola fosse "tirami su"!
Scambi dovuti dunque al fatto che certe parole non si conoscevano in italiano e così s'italianizzava il dialetto (ciò che si fa ancora oggi e che Menarini chiama "italo-bolognese"), dando luogo a buffi termini, come "ciapino", "smataflone", "da quella via" e mille e mille altri.
Non ci sono stati passaggi di parole squisitamente dialettali nella lingua, mentre il contrario è accaduto e anche molto spesso. Un esempio per tutti che rappresenta anche una stranezza: l'Emilia, la nostra regione, in dialetto si chiama "Emélia" (al cunfén stra l'Emélia e la Tuschèna), ma, quando si vuole indicare la strada che l'attraversa, si dice in italiano (a sàn arivè infén à la via Emilia) e, nonostante che entrambe le parole abbiano una loro forma dialettale, nessuno direbbe mai "vì Emélia"!
Dunque, in italiano Emilia è invariabile, in dialetto diventa "Emélia" se si tratta di regione, ma resta "Emilia" se si tratta della via. Stranezze!
-
Paolo Canè

Proverbio n. 75

Avàir un bùs dal cùl ch’a si vàdd la fódra dal capèl a travérs.
Avere tanta, tanta fortuna!

Proverbio n. 74

Avàir un’ànma ed mérda.
Dicesi di persona da poco.

Proverbio n. 73

Avàir sàul la dóta ed Pudàtt: cùl, figa e tàtt!
Essere povera, con le sole doti naturali.

Proverbio n. 72

Avàir póchi tàtt e bàn stàmmgh.
Dicesi di donna magra, ma vorace.

Proverbio n. 71

Avàir pirdò al cuarcén.
Non essere più vergine.