venerdì 9 novembre 2007

Proverbio n. 162

L'óv mardaról.
Il primo uovo della gallinella (…ma anche il primo parto!)

Proverbio n. 161

L'uvartùr dal Flauto Magico (avàir la butàiga avérta).
La patta dei pantaloni.

Proverbio n. 160

Livèr al cùl da l'àsa.
Darsi una mossa.

Proverbio n. 159

L'é méi sudèr che spudèr.
Meglio stare coperti che buscarsi la tubercolosi.

Proverbio n. 158

L'é ch'me una scuràzza mótta: l'an fà brìsa al cióch mó las fà sénter listàss.
Dicesi di chi trama nell'ombra, ma poi finisce per tradirsi.

UNA CITTA' DEL SEICENTO

La recente lettura di un libro, mi suggerisce di aggiungere le note seguenti. Si tratta di un bel saggio di Ottavia Niccoli "Storie di ogni giorno in una città del Seicento" (Laterza 2000) nel quale la città è Bologna e la cosa mi è parsa strana, poiché l'Autrice è marchigiana di Osimo e docente presso la università di Trento, tuttavia la sue annotazioni su Bologna mi hanno fornito nuovi elementi che sono inerenti a questa mia raccolta.

Evidentemente la Niccoli è entrata in possesso di documenti relativi alla mia città e li ha intelligentemente usati per questo saggio che è molto interessante e che tutti dovrebbero leggere: si tratta di processi civili e penali, soprattutto dell'anno 1630, ma con diversi riferimenti al periodo 1570-1630, e di un centinaio di illustrazioni di quadri e disegni coevi, più o meno celebri, più o meno bolognesi. Il libro però non parla né di leggi, né di pittura, ma usa questi mezzi come viatico per un sorprendente viaggio nella Bologna (ma anche nell'Italia) di 4 secoli fa. Potrei continuare a parlare di questo libro, ma mi voglio limitare ad una trentina circa di termini, quasi tutti elencati in un mio precedente saggio, dove non sempre ero riuscito a trovare una spiegazione etimologica, e ricavati dalla trascrizione degli atti processuali da parte dei "cancellieri" del tempo. L'Autrice suppone che i convenuti fossero in maggior parte analfabeti e che parlassero dialetto, perciò i cancellieri avranno trascritto le deposizioni mettendoci anche "del loro", tuttavia credo che per molti termini essi abbiano riportato una traduzione abbastanza fedele sia di termini dialettali, che di termini della lingua antica che ora sono caduti in disuso. Ho trovato parole la cui forma spiega meglio quella che nel dialetto è rimasta, come: "lavorieri", "bugada", "putta", "giobia", "piegora", "bigatto", "sbuzzare", "lardarolo", "teg-gia", "bracciadella", "mogliere", "sdazzare" i quali significano rispettivamente: lavori, bucato (al femminile), bambina/bambola, giovedì, pecora, baco o verme, ferire, salumiere, fienile/capanno, ciambella, moglie e setacciare e spiegano i termini dialettali, ancora oggi esistenti: lavurìr, (la) bughè, (la) pu (= bambola), zóbia, pigra (con la "g"), bigàt, sbuzèr, lardaról, tìz, brazadèla, muiér e sdazèr.
Ho trovato anche "beccaro" per macellaio (b'chèr) che spiega sia l'evidente uso di carne soprattutto ovina, sia anche il termine offensivo "becco" (bàcch) che allude chiaramente alle corna dell'animale!

E ancora: "una brisia" cioè "un poco" che spiega il nostro termine di doppia negazione "brisa" (briciola); la "stana", veste scollata senza maniche, che porta al nostro stanèla (ed io credevo derivasse da "sottanella"…); "color berrettino", grigio, che porta a "bertén" (o "bartén"): "vestiti molesini", soffici, di seta che spiega il nostro "mulsén" e ancora il termine offensivo "bugiarona" che è l'antenato di "busàn-na" (in italo-bolognese, usatissimo, "busona" o "busone", per indicare persone omosessuali o molto fortunate), il quale non è necessariamente relativo a bùs (buco) come molti potevano credere.
E anche il termine, più volte ripetuto, di "scoffoni" per calzini, calzerotti (indumenti allora molto apprezzati per regali o doti!), il quale spiega il termine gergale "sc'fón", ormai in disuso, che però mio padre usa ancora!
Curiosa la frase "Di có del rastello", antenata del nostro ed có dal rastèl =sul cancello, in cima al cancello; ed anche "l'hanno bravata sul mostaccio", cioè " le hanno gridato in faccia", frase che non si usa più, ma che spiega i due termini bravèr (sgridare, redarguire) e mustàz (ormai disusato per faccia, viso, grugno), oltre che essere parente stretta del napoletano, ancora molto vivo, "alluccare n' capa".
Nei diversi casi di processi per violenza sessuale, noto che sono riportati termini pseudo scientifici come "membro" e "natura", ma credo si tratti di "traduzioni" da parte dei cancellieri, poiché i popolani miei avi usavano sicuramente termini non molto diversi da quelli di oggi!
Infine ho trovato termini che sono caduti del tutto in disuso, come:
- "barba" per zio (mentre invece "zia" era tale e quale)
- "scarsella" per tasca o bisaccia (usato ancora oggi nei dialetti veneti)
- "fottuto", parola offensiva che fa parte dell'italiano e dei dialetti meridionali, ma oggi del tutto inusuale a Bologna, tuttavia l’offesa “becco fottuto” è stata la più usata a Bologna per tutto il Seicento ed il Settecento!
- "poltrona" altra parola che allora era offensiva (come "bugiarona"), ma che oggi si limita ad indicare una persona pigra o…un mobile!

Ma la cosa che più mi ha emozionato, come il ritrovamento di un "pezzo" antico, durante gli scavi archeologici, quando ancora non si sa se sia falso o autentico, ma che provoca ugualmente una forte eccitazione, è stato il riferimento ad un certo don Predieri, accusato di avere suonato il liuto nel "comune di Foscherara, presso la casa del monaro Parisi": io ho abitato per 20 anni alla Foscherara (che oggi è un quartiere ed una strada di Bologna), nelle cui vicinanze ci sono ancora il Molino Parisio e la Via Parisio!!!

Paolo Canè