martedì 30 ottobre 2007

I VESCOVI DI BOLOGNA (piccola storia della Chiesa bolognese)

Dall’elenco dei vescovi ed arcivescovi di Bologna possiamo notare:
- che dal primo (Zama) a quello attuale (Carlo Caffarra) sono stati finora 119.
- che, nello stesso periodo di tempo, i Papi sono stati quasi il doppio (230), ma forse perché i vescovi, essendo più giovani dei Papi, vivono più a lungo!
- 24 di essi (su circa 65, da quando cioè si hanno notizie) erano bolognesi.
- dei primi 55 circa conosciamo soltanto il nome e, sporadicamente, qualche data, ma non esistono molte altre notizie.
- almeno 5 di essi, tra il 1322 e il 1378 da Sabatier a Bonneville (forse), furono stranieri, precisamente francesi, e il periodo corrisponde più o meno a quello dei Papi ad Avignone.
- 9 (dei primi 16) sono stati fatti santi e, in seguito, un solo beato.
- oltre ai 119 prelati, figurano due “amministratori”, perciò non vescovi.
- all’87° vescovo Campeggi fu affiancato mons. Zanetti come vicario ausiliare
- vescovi scismatici, imposti dall’Imperatore (come gli Antipapi) furono Pietro e Sigifredo,contemporaneamente a Gerardo I e Bernardo (1079-1104) e Samuele imposto dal Barbarossa e contrapposto a Gerardo Grassi (1148-1165).
- 6 di essi, tra il 1405 e il 1920 circa, dopo essere stati vescovi di Bologna, salirono al soglio di Pietro: Innocenzo VII, Niccolò V, Giulio II, Gregorio XV, Benedetto XIV (il cardinale Lambertini che fu contemporaneamente vescovo di Bologna e Papa dal 1740 al 1754) e Benedetto XV.

Come sempre accade, anche per i nostri vescovi i primi tempi sono alquanto nebulosi, poiché le rare notizie storiche si confondono con la leggenda. Tuttavia pare che Zama fosse d’origine africana e che si insediasse lo stesso anno nel quale Costantino emanò il suo famoso Editto che sanciva libertà di culto ai cristiani. Il fatto che 9 sui primi 16 siano stati dichiarati santi, dipende forse dal fatto che a quei tempi la pratica era più usata: la stessa cosa accadde anche per i Papi. L’ottavo vescovo, Petronio è quello che è considerato il più importante: fondatore delle chiese di Santo Stefano e di San Giovanni in Monte (che avrebbe costruito a ricordo dei templi da lui stesso visti a Gerusalemme) e della prima cinta muraria, ma quasi certamente nessuna di queste cose è vera! E non è vero nemmeno che egli fosse d’origine orientale: era stato probabilmente in Oriente e probabilmente si trovava a Roma quando l’inviato bolognese si recò dal Papa a chiedere un vescovo che potesse rimpiazzare Felice, ma Petronio era probabilmente milanese, come lo era Felice stesso, anche perché la diocesi di Bologna dipendeva allora dalla sede metropolitana della Milano di Sant’Ambrogio. In ogni caso il nostro Petronio divenne patrono di Bologna, le sue reliquie, più volte spostate, sono sempre state venerate, su di lui si è scritto molto e, personalmente, credo che ben poco sia storicamente attendibile, in quanto la maggior parte delle notizie furono scritte da un oscuro fraticello dopo secoli dalla sua morte.
Ma a noi piace pensare che sia tutto vero…almeno, quasi tutto!

Il rapporto tra Bologna e la Chiesa è sempre stato ambiguo: nella sua condizione di seconda più grande città dello Stato pontificio (dopo Roma), Bologna ha avuto un lungo rapporto di fedeltà verso la Chiesa e i Papi; città da sempre guelfa ha fatto parte dello stato della Chiesa dai tempi di Pipino il Breve fino all’Unità d’Italia, con solo brevi interruzioni. Contemporaneamente, nella sua condizione di città di frontiera, ha dimostrato parecchie insofferenze e turbolenze e, per lo stesso motivo, anche la Chiesa è stata talvolta dura e repressiva, più che con altre città. Due caratteristiche opposte che la città mantiene anche oggi: da un lato è una delle città più “rosse” ed anticlericali d’Italia, dall’altro riesce a riempire tutte le sue numerose chiese alle messe della domenica mattina ed ha prodotto la più strana specie umana di gente di sinistra, atea e povera in ogni Paese del mondo, ma che a Bologna è spesso cattolica e ricca! Per questo ribadisco che i due atteggiamenti continuano a convivere.
È un amore-odio che dura ormai da 18 secoli, dagli albori del IV, quando le ultime persecuzioni di Diocleziano portarono al martirio di Vitale ed Agricola (303/305) e quando (313) Costantino concesse libertà di culto ai cristiani e Bologna si diede il suo primo vescovo Zama. Ciò tuttavia non impedì il martirio del soldato romano Procolo (V sec.). Nel 393 ebbe molta importanza la visita in città di Sant’Ambrogio il quale venne per riesumare i resti di Agricola dal cimitero ebraico in cui era sepolto. Una trentina d’anni dopo fu lo splendido periodo di San Petronio, il quale però fu proclamato patrono quasi un millennio più tardi (1301) quando Giovanni Savelli era vescovo e Bonifacio VIII papa, poco prima dell’esilio avignonese. I suoi resti si trovano in Santo Stefano, tranne la testa che fu traslata in San Petronio per volontà di papa Benedetto XIV Lambertini (1743). Nel V secolo la residenza vescovile era nel luogo dove ora c’è il duomo di San Pietro con l’annesso Battistero, fondamentale per l’iniziazione religiosa dei bolognesi. Nei pressi sorse anche un Ospizio per i poveri e un Collegio per i religiosi. Dal 535(ultimo anno della dipendenza della Chiesa bolognese da Milano) al 727 (anno della conquista di Bologna del re longobardo Liutprando), la chiesa, in pieno periodo bizantino, fu sottoposta a quella di Ravenna, la quale assunse il nostro Santo Vitale, mentre il suo vescovo Sant’Apollinare ebbe qualche cultore anche da noi. Dopo il 727, quando fu costruita la famosa “addizionale longobarda” proprio come baluardo difensivo contro i bizantini ravennati, Liutprando si insediò in Santo Stefano, dove ora si può ammirare il cosiddetto “Catino di Pilato”, ciò che ci dimostra almeno due cose: 1) che “pilato” è corruzione di “palatii” (= del palazzo) e non c’entra affatto con Ponzio Pilato, il quale visse sette secoli prima 2) che esso fu scolpito almeno 10 anni dopo, poiché nell’iscrizione, accanto a Liutprando e Ilprando si legge il nome del vescovo Barbato, il quale nel 727 non era ancora in carica. Bologna dimostrò la sua fedeltà alla Chiesa, stando sempre dalla sua parte nelle lotte per le Investiture, contro l’Impero, nonostante i vescovi scismatici che esso le impose (due nel periodo 1079-1096 e ancora uno dal Barbarossa nel 1161-1164). Poco dopo la morte di Matilde di Canossa (1115) sorse il Comune di Bologna (1116-1123) i cui vescovi si allinearono sulle posizioni dei comuni guelfi italiani filo-papalini. Pochissimi anni prima erano sorte le prime torri (circa 1009).
L’importanza della Chiesa si evince anche dal fatto che, dietro autorizzazione di Papa
Onorio III, le autorità ecclesiastiche presiedevano al conferimento delle lauree universitarie (cerimonie tenute in Cattedrale)e questo dai primi del 1200 fino al 1798!
Nei sec. XII e XIII vennero dati in enfiteusi i possedimenti della bassa pianura a gruppi di famiglie, ciò che diede origine alle famose “partecipanze” in vigore ancora oggi (famosa quella cosiddetta di Matilde di Canossa a San Giovanni in Persiceto).
Ancora prima, nel X secolo, ebbero molta importanza i Benedettini, i quali, venuti in città, diedero impulso alla vita religiosa e culturale, dal momento che l’Università richiamava studenti da tutta Europa. Nel XII secolo sorsero anche monasteri per le suore benedettine, seguirono i monaci fedeli a Sant’Agostino e si ebbero forme di vita eremitica maschile e femminile: fino a pochi anni fa era visitabile, in un punto impervio del Monte delle Formiche, l’antro di un eremita.
Nel 1390 ebbe inizio la costruzione di San Petronio, cattedrale voluta dal Comune in contrapposizione a San Pietro, voluto dalla Chiesa, ciò ad ulteriore dimostrazione del contraddittorio contrasto tra le due autorità, pur nell’ambito della fede cristiana!
Bologna venerò da sempre la Madonna: già nel VI secolo esisteva una basilica a lei dedicata, nel XII secolo la Madonna del Monte sorse sull’Osservanza e nel 1193 un eremo sul colle della Guardia, voluto da verta Angelica bolognese, ne custodì una immagine fino al 1799.Nel 1433 l’allora vescovo,il beato Nicola Albergati, certosino, stabilì che ogni anno la Madonna di San Luca scendesse in città, poiché si credette che essa aveva scongiurato una calamità devastante, dovuta a piogge torrenziali. L’Albergati diede inizio anche al rinnovamento della vita ecclesiale, ormai superata.
Nel 1131 un furioso incendio distrusse San Pietro, che fu ricostruita e di nuovo consacrata nel 1184, col battistero distaccato, col campanile rotondo inglobato in uno quadrato e con la famosa “porta dei leoni”. Lo sfortunato Duomo sarebbe poi crollato di nuovo nella seconda metà del’500, a causa di calcoli sbagliati dall’architetto Tibaldi o di ordini sbagliati del cardinale Paleotti (la responsabilità a tutt’oggi non è ancora stata accertata!): fu ricostruito nello stile attuale, gli fu incredibilmente negato un sagrato che l’avrebbe valorizzato notevolmente (nonostante che papa Lambertini, due secoli dopo, lo avesse fortemente voluto!) e fu probabilmente allora che la sede dei vescovi si spostò, essendo Bologna diventata Sede Arcivescovile nel 1582, per volere di papa Gregorio XIII Boncompagni. I lavori, iniziati nel 1575, si protrassero poi fino al 1754 e, tra il 1578 e il 1586, furono traslate in San Pietro alcune reliquie dei protomartiri Vitale e Agricola e dei protovescovi Zama e Faustino.
Nel 1200 la città ospitò diversi nuovi ordini religiosi: nel 1220 i domenicani(qui morì San Domenico di Guzman nel 1221), nel 1235 i francescani (San Francesco d’Assisi qui aveva predicato con successo alcuni anni prima), nel 1261 i serviti (fedeli a Maria dei Servi), nel 1263 i carmelitani e nel 1267 gli eremitani. La beata Diana degli Andalò fondò il primo monastero domenicano femminile, ma in seguito, e per secoli, fu tutto un fiorire di iniziative laiche con lo scopo di assistere pellegrini, poveri, viandanti e forestieri (suor Dolce, in via Falegnami, aprì un ospizio per fanciulli abbandonati, per poveri e infermi). Santa Caterina de’ Vigri, nel 1456, rinnovò il modello di vita del suo ordine del Corpus Domini. Nel 1530 fu incoronato a Bologna Carlo V, uno degli imperatori più importanti della storia, da papa Clemente VII.

Nel 1542 lo stesso papa indisse il Concilio di Trento per tentare di ricomporre l’unità della Chiesa e, nel 1547, Bologna ne ospitò alcune sedute che furono di scarsa importanza, poiché decisero … ciò che il beato Albergati e Caterina de’Vigri avevano già portato alle loro istituzioni! Ma anche il vescovo ausiliare Agostin Zanetti aveva già avviato una severa opera di restaurazione disciplinare ed istituito le Costituzioni Sinodali (1535), segno che già prima del Concilio qualcuno aveva sentito il bisogno di moralizzare la chiesa (o aveva intuito il pericolo di Lutero!). Nel lungo periodo del cardinale Paleotti (31 anni) si misero in opera le deliberazioni del Concilio (alcune delle quali tanto nefaste che avrebbero portato all’Inquisizione!), tuttavia l’ambiente ritrovò fede ed entusiasmo e la chiesa bolognese passò di grado diventando sede arcivescovile. E continuavano a sorgere iniziative: il “Magistero della Concordia” per sostenere i meno abbienti (1574), la “Compagnia dei Poveri” (1577) e la “Compagnia del SS. Sacramento” che diede vita alla processione del Corpus Domini, alla Decennale Eucaristica da cui gli Addobbi.E ancora la città vide fiorire vari altri ordini religiosi: i Gesuiti, i Barnabiti, i Cappuccini, gli Oratoriali, i Teatini e anche diversi conventi femminili, per accogliere le giovani di nobili famiglie, avviate (spesso obtorto collo) alla vita monastica, per non dover sborsare le pesanti cifre delle doti! Il “Monte del Matrimonio” fu istituito proprio per fare la dote alle ragazze meno abbienti, tramite prestiti a basso interesse. Tra il 1674 e il 1714 fu costruito il lungo portico di San Luca col contributo di tutti i cittadini. Il Settecento fu un secolo difficile per Bologna e si dovette all’opera del più grande papa di quel secolo, Benedetto XIV Lambertini, che fu insieme vescovo e papa, il mantenimento degli equilibri. Sotto di lui fu completato San Pietro e anche San Luca, la cui costruzione andò dal 1723 al 1765, quando fu consacrata dal suo successore cardinale Malvezzi.
Il ‘700 vide il sorgere di varie iniziative: don Giulio Cesare Canali, parroco di S.Isaia, dal 1731 al 1740 varò la “Congregazione della Carità”, per i più indigenti, e “l’Ospedale degli abbandonati”, per coloro che erano privi di sussidio. Il sacerdote don Bartolomeo del Monte, oggi beatificato, mantenne vivo il dialogo tra la Chiesa e i filosofi illuministi. Un grosso colpo la Chiesa bolognese lo ebbe, a partire dal 1799, da Napoleone il quale soppresse vari ordini religiosi, confiscò le loro proprietà (oltre che rubare molte opere d’arte dalle chiese), ridusse le manifestazioni religiose e destinò ad altri usi almeno 700 tra chiese e conventi! In quello stesso anno passò da Bologna Papa Pio VI il quale fu portato prigioniero in Francia, dove morì dopo poco.
Molti preti furono giustiziati perché considerati istigatori della ribellione dai francesi. Tra l’altro, morto il cardinale Gioannetti nel 1800, la sede episcopale restò vacante per quasi tre anni, prima che fosse eletto Carlo Opizzoni (1803), inizialmente col beneplacito di Napoleone, poi però caduto in disgrazia per non aver avallato le sue seconde nozze e per non aver accettato la prigionia del nuovo papa in Francia, così fu esautorato e portato lui stesso prigioniero in Francia, da dove ritornò quando cadde il dittatore francese (1814). Tornato a Bologna si diede molto da fare per ripristinare il più possibile di quanto eliminato da Napoleone e mori nel 1855, pianto dai fedeli, dopo l’episcopato più lungo in assoluto (52 anni), durante il quale, oltre alla bufera francese, visse i primi moti rivoluzionari (1831) e la rivolta austriaca (1848).
Durante il mandato del suo successore, il corso Viale Prelà, ebbe risalto la visita in città di Pio IX che incoronò la Madonna di San Luca in San Pietro e partecipò sia alla processione del “corpus Domini” che alle feste del Santo.Erano gli ultimi mesi di una Bologna papalina (dopo oltre un millennio!), infatti ai nuovi vescovi F.M. Guidi, C.L. Morichini e L.M. Parocchi (periodo 1863-1882) non fu concesso di insediarsi, in mancanza dell’approvazione regia, ciò che ebbe solo il nuovo cardinale F. Battaglini, il quale poté abbandonare il Seminario e insediarsi si nuovo nella sede arcivescovile.
La Chiesa ha avuto nella sua storia diversi momenti critici, ma penso che i più difficili siano stati tre, tutti e tre accaduti nel giro di tre secoli: la scissione luterana, la bufera napoleonica e il disfacimento dello Stato Pontificio. Ciò non impedì alla Chiesa bolognese di continuare la sua frenetica attività: nacque la “Società di San Vincenzo, per l’assistenza ai poveri,le scuole notturne per i figli del popolo,“l’Istituto per i sordomuti” di don Giuseppe e don Cesare Gualandi, preti fratelli, nel 1872. Poi la “Congregazione delle minime dell’Addolorata”, fondata da suor Clelia Barbieri (santa dal 1989) per il soccorso ai bisognosi. I fedeli bolognesi ressero bene l’urto dell’ondata laica e liberale dovuta alla nuova situazione: Nel 1868 il conte Giovanni Acquaderni fondò la “Società della gioventù cattolica italiana” (l’attuale Azione Cattolica), il quotidiano “l’Avvenire d’Italia” e, nel 1896, il “Piccolo credito romagnolo”. Il cardinale Svampa incoraggiò il movimento democratico cristiano, la fondazione delle “Casse Rurali”, la società “Mutuo Soccorso”, l’assistenza agli emigrati e l’inserimento dei cattolici nel nuovo contesto sociale, in controtendenza al volere di Pio IX che aveva vietato ai cattolici d’interessarsi alla politica! A Svampa si deve anche la chiesa del Sacro Cuore (1901-1912), poi affidata ai Salesiani (1930), dove fu sepolto. Il 28/05/1904 egli aveva reso omaggio alla visita di re Vittorio Emanuele III° a Bologna, gesto di grande importanza, anche se da alcuni criticato. Il suo successore card. Giacomo della Chiesa, fu poi il papa della Grande Guerra col nome di Benedetto XV, ma prima di salire al soglio aveva eletto suo successore il card.Gusmini che si sobbarcò i gravi sconvolgimenti morali e politici del dopoguerra. Venne poi il lungo episcopato di Nasalli Rocca (30 anni) che vide il nascere e il tramontare del fascismo, gli accordi Stato-Chiesa e la disastrosa Seconda Guerra Mondiale, ebbe tuttavia modo di dare impulso a molte opere, tra le quali il nuovo Seminario (1932) e numerose visite pastorali. Durante la guerra si adoperò per aiutare profughi e diseredati e per ottenere la dichiarazione di “Bologna città aperta”, ciò che impedì la distruzione del Santuario di San Luca. Nel 1945 fu vigile del trapasso incruento tra l’occupazione tedesca e il governo alleato. Non fu un periodo facile: durante la guerra (1944) morirono 11 ecclesiastici e altri 8 furono assassinati a causa di odio e vendette in tempo di pace (1945-46). Ben 159 furono le chiese danneggiate, delle quali 40 completamente distrutte e Nasalli Rocca si occupò della loro ricostruzione, come anche del Secondo Congresso Eucaristico Diocesano (1947), del XV centenario della morte di San Petronio (1948) e dell’Anno Santo (1950).
Gli succedette Giacomo Lercaro, giudicato “attivo ed effervescente”! Creò la “Pro civitate cristiana” (1954), fece costruire circa 90 nuove chiese, creò il “Carnevale dei ragazzi”, i “Cortei dei re Magi”, i “Presepi viventi”,i “Concorsi teatrali diocesani” e il “Centro di addestramento professionale” per i lavoratori in Piazza Trento e Trieste. Rilanciò la presenza dei cattolici nella Bologna comunista, diede impulso alla architettura sacra (chiesa di Riola di Alvar Aalto) e al rinnovamento della liturgia.
Celebrò 5 “Piccoli Sinodi”, diede vita ai “Congressi Diocesani” (1957-67), istituì la prima “Casa della carità”, ebbe importante ruolo nel Concilio Vaticano II e si ritirò dalla carica nel 1968. Il card. Poma, già coordinatore e successore designato di Lercaro, gli succedette nel 1968 e dovette affrontare i difficili anni ’70, travagliati a Bologna dai gruppuscoli di extraparlamentari di estrema sinistra, ma egli fu tanto fermo da organizzare la conclusione del Congresso Eucaristico del 1977 nello stesso giorno dell’adunata degli autonomi di “Lotta continua”! Nel 1969 era stato nominato presidente della C.E.I. Erano gli anni di don Olinto Marella, straordinaria figura di “padre dei poveri” che fondò la “Città dei ragazzi”, mentre Poma istituì la seconda “Casa della carità” (1974), la “mensa della fraternità” (1977), la “Caritas diocesana” (1977) e nel 1973 aveva fondato in Tanzania la Missione della Chiesa Bolognese, tuttora molto attiva. Durante il suo episcopato ebbe grande risonanza la visita di Giovanni Paolo II (1982). Si ritirò nel 1983 e restò a Bologna, dove morì nel 1985.
Brevissimo fu il mandato di Enrico Manfredini, improvvisamente scomparso. Gli succedette il card.Biffi, milanese, che fu vescovo per 20 anni, ma non particolarmente amato dai bolognesi. Forse perché esordì chiamando gli emiliani “popolo sazio e disperato” (dunque non è stato Cofferati il primo lombardo a esordire con un giudizio negativo su un popolo che nemmeno conosceva!),forse perché proponeva una “nuova evangelizzazione” della capitale comunista-consumista o per i rimproveri a un certo tipo di donna(“squallida Eva moderna”),o per la sua opposizione ad aborto e divorzio o per i richiami alla denatalità, al “salutismo ansioso” e al “disperato estetismo”.
Si scagliò contro i valori del Risorgimento (“contrario alla cultura italiana”) e della Rivoluzione francese (“vera strage di Stato”). Insomma questo milanese che amava parlare chiaro come “il suo concittadino Sant’Ambrogio”, per i bolognesi forse parlò…un po’ troppo chiaro o semplicemente un po’ troppo!
Nel 2004 fu eletto Carlo Caffarra da Sambuceto di Busseto, attualmente in carica, del quale non so nulla, se non, da parte di chi lo ha incontrato, che è uomo molto affabile, cioè in linea con la maggior parte dei suoi predecessori. Secondo i miei dati è il 119° vescovo di Bologna, anche se un articolo del Resto del Carlino lo dà per il 114°!

ELENCO DEI VESCOVI DI BOLOGNA-ORDINE CRONOLOGICO
N. TIT. NOME ORIGINE DATE NOTE
VESCOVI
1 San Zama Probabilm.africano 313 ? Protovescovo
2 San Faustino o Faustiniano 342 ?
3 Domiziano
4 Gioviano
5 San Eusebio 370 ?
6 Eustasio 390 ?
7 San Felice Milanese 397 431 Dipendenza da Milano fino al 535
8 San Petronio forse milanese 431 450 Patrono dell'Arcidiocesi
9 Marcello
10 San Partenio o Paterniano
11 Giuliano I
12 Geronzio
13 San Teodoro I
14 Lussorio
15 San Tertulliano
16 San Giocondo 496 ?
17 Teodoro II
18 Clemente
19 Pietro I
20 Germano 535 - 727 dipendenza da Ravenna
21 Costantino (ca. due secoli: periodo Bizantino)
22 Giuliano II
23 Adeodato
24 Giustiniano
25 Luminoso 649 ?
26 Donno
27 Vittore I 680 ?
28 Eliseo
29 Gaudenzio
30 Clausino
31 Barbato 736 744 727-Conq. longobarda (Liutprando)
32 Romano 752 756
33 Pietro II 786 ?
34 Vitale 801 ?
35 Martino I
36 Teodoro III 814 825
37 Cristoforo 827 ?
38 Martino II
39 Pietro III
40 Orso
41 Giovanni I 880 881
42 Severo 884 898
43 Pietro IV 905 ?
44 Giovanni II
45 Alberto 955 983
46 Giovanni III 997 1007
47 Frogerio 1019 1028
48 Alfredo 1031 1055
49 Lamberto 1062 1074
50 Gerardo I 1079 1089 Vescovi scismatici Sigifredo-Pietro
51 Bernardo 1096 1104 imposti dall'Imperatore
52 Vittore II 1108 1129
53 Enrico I 1130 1145 (Papa Lucio II, bolognese-1144/45)
54 Gerardo Grassi di Bologna 1148 1165 Scisma. Samuele (dal Barbarossa)
55 Giovanni IV ?? 1169 1187
56 Gerardo di Gisla ?? 1187 1198
57 Gerardo Ariosti di Bologna 1198 1213
58 Enrico della Fratta di Bologna 1213 1240
Ottaviano I Ubaldini di Firenze 1240 1244 Amministratore (non vescovo)
59 Fra' Giacomo Boncambi di Bologna 1244 1260
60 Ottaviano II Ubaldini di Firenze 1263 1295
61 Schiatta Ubaldini di Firenze 1295 1298
62 Fra' Giovanni Savelli di Roma 1299 1302 1301-Petronio proclamato patrono
63 Uberto Avvocati di Piacenza 1302 1322
64 Arnaldo Sabatier di Cahors 1322 1330 Primo straniero
65 Stefano Agonet di Narbonne 1331 1332

66 Bertrando de Fumel di Francia 1339 1339
67 Beltramino Parravicini di Milano 1340 1350
68 Giovanni di Naso di Gallarate 1352 1360
69 Almerico Cathy di Limoges 1361 1371
70 Bernardo di Bonnevalle (francese?) 1371 1378 Ultimo straniero
71 Filippo Carafa di Napoli 1378 1389
72 Cosma de' Migliorati di Sulmona 1389 1390 poi Papa Innocenzo VII
73 Rolando da Imola di Imola 1390 1390 Domenicano
74 Bartolomeo Raimondi di Bologna 1392 1406 Benedettino
75 Antonio Correr di Venezia 1407 1408
76 Giovanni di Michele di Bologna 1412 1417 Benedettino
77 Beat Nicolò Albergati di Bologna 1417 1443 Certosino (1433-Disc. Mad.S.Luca)
78 Ludovico Trevisano di Venezia 1443 1444 (oppure LudovicoScarampi)
79 Nicolò Zanolini di Bologna 1444 1444
80 Tomaso Parentucelli di Sarzana 1444 1447 poi Papa Niccolò V (umanista-mec.)
81 Giovanni del Poggio di Bologna 1447 1447
82 Filippo Calandrini di Sarzana 1447 1475
Francesco Gonzaga di Mantova 1476 1483 Amministratore (non vescovo)
83 Giuliano della Rovere di Albissola 1483 1502 poi Papa Giulio II (core et animo grande)
84 Giovanni Stefano Ferrer di Biella 1502 1510
85 Francesco Alidosi di Castel del Rio 1510 1511
86 Achille Grassi di Bologna 1512 1523
87 Lorenzo Campeggi di Bologna 1524 1539 Mons.Agostin Zanetti-vicario,ausili.
88 Alessandro Campeggi di Bologna 1541 1553
89 Giovanni Campeggi di Bologna 1553 1563
90 Ranuccio Farnese di Roma 1564 1565
ARCIVESCOVI E CARDINALI dal 1582 Sede Arcivesc-Mertropol.
91 Gabriele Paleotti di Bologna 1566 1597 (Gregorio XIII,bolognese 1571-85)
92 Alfonso Paleotti di Bologna 1597 1610 (Innocenzo IX, bol., Papa nel 1571)
93 Scipio Borghese Caffarelli di Roma 1610 1612
94 Alessandro Ludovisi di Bologna 1612 1621 poi Papa Gregorio XV (col nipote)
95 Ludovico Ludovisi di Bologna 1621 1632 Cardinale nipote, fondò Prop. Fide
96 Girolamo Colonna di Roma 1632 1644
97 Nicolò Albergati Ludovisi di Bologna 1646 1651
98 Girolamo Boncompagni di Sora 1651 1684
99 Angelo Ranuzzi di Bologna 1688 1689
100 Giacomo Boncompagni di Sora 1690 1731
101 Prospero Lambertini di Bologna 1731 1754 poi Papa Benedetto XIV (erudito)
102 Vincenzo MalvezziBonfioli di Bologna 1754 1775
103 Andrea Gioannetti di Bologna 1778 1800 Camaldolese
104 Carlo Oppizzoni di Milano 1802 1855 eletto col beneplacito di Napoleone
105 Michele Viale Prelà della Corsica 1856 1860
106 Filippo Maria Guidi di Bologna 1863 1871 Dmenicano
107 Carlo Luigi Morichini di Roma 1871 1877 I card. Guidi, Morichini e Parrocchi
108 Lucido Maria Parocchi di Mantova 1877 1882 dovettero risiedere in Seminario in
109 Francesco Battaglini di Bologna 1882 1892 approvazione per l’ insediamento.
110 Serafino Vannutelli di Genzano Rom. 1893 1893
111 Domenico Svampa di Monegranaro 1894 1907
112 Giacomo della Chiesa di Genova 1908 1914 poi Papa Benedetto XV (I guerra M)
113 Giorgio Gusmini di Bergamo 1914 1921
114 Gio.Battista Nasalli Rocca di Corneliano (PC) 1922 1952
115 Giacomo Lercaro di Genova 1952 1968
116 Antonio Poma di Pavia 1968 1983
117 Enrico Manfredini di Suzzara (MN) 1983 1983
118 Giacomo Biffi di Milano 1984 2004
119 Carlo Caffarra di Busseto (PR) 2004
-
Paolo Canè

lunedì 29 ottobre 2007

Proverbio n. 149

I rimulén (i strónz ch'i chègh'n i cuntadén).
Gli imprecisati "rimolini"!

Proverbio n. 148

In zoventó incósa stà só.
Saggezza antica!

Proverbio n. 147

Insónni e scuràzz i vànz'n a lèt.
I sogni non si avverano.

Proverbio n. 146

Inaré cómme un sumàr.
Eccitato sessualmente.

Proverbio n. 145

Immardères pr'un baióch.
Rovinarsi la reputazione per nulla.

lunedì 22 ottobre 2007

INT LA BÀSA (n. 96)

Un òmen in biziclàtta al vàdd int un càmp drì à la strè una bèla cuntadnóta col cùl pr'ària ch'la cóii el barbabiétol. Sànza pensèri un minùd, al smànta da la biziclàtta, ai tìra só la stanèla e… "zac!".
La cuntadnóta l'as lìva só ed scàt e l'ai dìs:

"Mó ló, c'sa fèl?"
"Chi mé? A fàgh al manvèl da muradàur!"

Proverbio n. 144

I finénn i marón a Làzer (ch'ai n'avèva 366 panìr).
Tutto finisce, prima o poi.

Proverbio n. 143

Gàt ai póndgh e càn ai strónz.
Ad ognuno il suo.

Proverbio n. 142

Furtón-na sèlt'm adós che inzàggn at l'inchègh.
Val più la fortuna che l'intelligenza.

ANCORA A PROPOSITO DI GRAFIA!

Nel 1385 Francesco Sacchetti scriveva in una delle sue "Trecentonovelle":
"Come questo giovane acquistò puramente, e con grande simplicità, le lire cinquanta, così con grande astuzia il piacevol uomo Basso della Penna in questa novella vinse a un nuovo giuoco più di lire cinquanta di bolognini".
Quasi 100 anni dopo (1478) leggiamo nel "Diario" del Nadi, in occasione del matrimonio tra Lucrezia d'Este ed Annibale Bentivoglio, che si fecero:
"chanti et soni in susio li chantoni de le vie" e il corteo era accompagnato "da cento trombita et cinquanta pifari et trumbuni et chorni et flauti et tamburini et zamamelli".
A noi profani salta agli occhi la notevole differenza di grafia e di intelligibilità (a secoli di distanza) tra le due prose, sopra tutto se pensiamo che il Sacchetti scriveva un secolo prima del Nadi!
Potremmo pensare che a Firenze si scrivesse meglio che a Bologna.
Potremmo pensare che in un secolo la lingua italiana sia… regredita.
Potremmo pensare che il Sacchetti fosse un intellettuale e il Nadi no, mentre sappiamo che erano entrambi borghesi con una certa cultura, anche se non certo paragonabili a Dante o Petrarca!
Perché dunque oggi queste due grafie ci sembrano così diverse, tanto che quella del Sacchetti non sembra d'un secolo prima, ma di due secoli dopo?
I motivi potrebbero essere diversi:

- una certa differenza di conoscenza della lingua tra i due scrittori
- una diversa influenza dei dialetti locali sulla lingua italiana scritta
- un voler scrivere (da parte del primo) nel nuovo volgare italiano, mentre il secondo sembra abbia voluto ricalcare il basso latino medievale

Qualche studioso ce lo potrebbe spiegare, magari anche facilmente, ma resta il fatto che noi profani rimaniamo stupiti da tanta differenza. E ci riesce difficile pensare che a quei tempi il "volgare illustre" parlato a Firenze fosse tanto diverso da quello di Bologna. A maggior ragione ritengo che nei dialetti, proprio in quanto solo parlati, la grafia fosse ancora più approssimativa. Certo che il dialetto parlato a Bologna era molto più diverso dal volgare italiano di quanto non lo fosse quello parlato a Firenze (è così ancora oggi!), ma restano dubbi. Non mi stancherò mai di dire che le differenti grafie ci traggono molto probabilmente in inganno nel nostro tentativo di ricostruire la fonetica, della quale, per ovvi motivi, non abbiamo documenti.
Dato che, come è noto, "scripta manent", mentre "verba volant" (soprattutto perché non erano ancora state inventate apparecchiature adatte a registrarle!), siamo indotti a pensare che nei tempi passati la gente parlasse come scriveva, ma i due esempi qui riportati ci fanno supporre che non fosse affatto così.
Il popolo era ignorante ed analfabeta e perciò parlava unicamente dialetto, un dialetto che variava non solo da città a città, ma da paese a paese e da rione a rione e questo è un fatto. Gli intellettuali tra il tre e quattrocento stavano invece abbandonando il basso latino in favore della nuova lingua di Dante, ma è lecito pensare non tutti fossero dello stesso livello culturale, che i loro dialetti influenzassero più o meno la lingua e che perciò ci abbiano tramandato opere e documenti con notevoli differenze di grafia, mentre nella lingua parlata tali differenze potevano essere molto più lievi.
Essi avevano tuttavia, se non grammatiche e dizionari, quanto meno modelli a cui riferirsi, mentre chi tentava di scrivere in dialetto non aveva nemmeno quelli! Ognuno si arrangiava. Ognuno faceva quel che poteva e come poteva, secondo il grado d'istruzione, secondo che volesse o non volesse basarsi su quella grafia italiana che, magari, conosceva poco. Ognuno cercava di riprodurre alla "bene e meglio" i suoni del proprio dialetto, usando lettere, apostrofi ed accenti il più delle volte a sproposito, tralasciando vocali (soprattutto nei dialetti gallo italici), convinti che il proprio dialetto non avesse nulla a che vedere col volgare italiano scritto e dimenticando così che entrambi contenevano una solida base latina.
Noi siamo grati, per l'amor di Dio, a questi autori che si sono sforzati di lasciarci preziosi documenti, ma non dobbiamo lasciarci ingannare quando cerchiamo di capire quale fosse il dialetto parlato di quei tempi. Noi studiamo ciò che essi hanno scritto e non ci permettiamo di fare alcuna correzione, ma non dobbiamo pensare che il dialetto bolognese come lo vediamo scritto dal Mitelli nel '600, dalla Coronedi Berti nell'800 o dal Testoni a cavallo tra '800 e '900 fosse tanto diverso da quello parlato oggi (concetto che ripeto spesso, poiché vedo che è duro da capire!).
Qualcosa è certamente cambiato (tutto cambia!), ma non così tanto come queste letture ci possono indurre a pensare. L'ho già detto: mia nonna, nata nel 1882, parlava un dialetto che, in quanto a fonetica, era esattamente uguale a quello parlato da mio padre e da me.
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Paolo Canè

domenica 21 ottobre 2007

AL DÓBBI (n. 95)

Un umarèl, imbariègh ch'me un zvàtt, als pógia càntr'un lampiàn el al trà fóra ànch el budèl. Un cagnén als métt a nasèr e l'imbariègh al burbóta:
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"Dànca, i fasù ai ò magnè da Ghitón, al vén a l'ò b'vó dal Marlén, mó té, dùvv t'òia magnè?".

AL ZIGÀNT E AL NÀNO (n. 94)

Int un pisadùr ai vén dàntr'un umàz ed dù méter con l'óc' drétt ch'ai balèva. Dàpp un pó als métt al só fiànch drétt un umarcén ch'ai airivèva sé e nà à la zintùra. Al zigànt al s'acórz che l'umarcén al tàca a fèr balèr l'óc' stànch e a gli dìs:

"Di' só, um tùt pr'al cùl?"
"Nà".
"Alàura parché at bàla un óc' à l'improvìs?"
"I én i stiatén".

Proverbio n. 141

Fóra mèrz (ch'a sàn d'avréll)!
Si dice a chi tossisce fragorosamente.

Proverbio n. 140

Fèr v'gnìr al làt al z'nócia.
Fare…cascare le braccia!

GERGHI

Già avevo parlato di gerghi nella stesura del primo libro degli "Appunti" (e forse anche prima!), ma vorrei tornare sull'argomento, poiché sono entrato in possesso di una lista di circa 425 parole, prese dal famoso ed introvabile libro di Alberto Menarini "I Gerghi Bolognesi" (1942). La grafia lascia un po' a desiderare, per via di qualche gruppo di consonanti –nb, di troppe "k", di alcuni suoni –ghi e –ghe, dove l'indispensabile "h" manca e di qualche altra inesattezza: probabilmente il giovane Menarini non aveva ancora messo a punto quella sua grafia che io considero la migliore di tutte quelle viste finora, che è poi la stessa alla quale, grosso modo, io mi riferisco in ogni scritto.
Ho subito interpellato mio padre che è uno degli ultimi bolognesi in circolazione ad avere usato per tutta la vita (lunga quasi un secolo) dialetto e gergo, ma di queste parole ne conosce poco più del 20%! Come prevedevo, ha contestato l'80% non riconosciuto, asserendo che non si tratta di parole bolognesi, convinto com'è di sapere tutto sul dialetto, ma non è così ed io ho cercato di capire e di fargli capire anche il perché.
Qualsiasi gergo è di per sé un idioma poco noto, poiché nasce nell'ambito di un gruppo (meccanici, commercianti, muratori, ladri, ecc.) e tende a rimanere in quell'ambito. Infatti questi gruppi lo parlano, oltre che per spirito di appartenenza, sopra tutto per non farsi capire dagli altri, perciò se tutti venissero a conoscenza di tali termini, questo secondo scopo andrebbe a farsi benedire! Inoltre, anche se alcune voci gergali hanno avuto fortuna, tanto da essere ancora abbastanza diffuse (fànghi, tàp, giàz, ecc.), la maggior parte delle altre sono andate via via perdendosi, sia per l'avanzata dell'italiano, sia perché sono venuti a mancare i suddetti motivi per i quali esse sono nate. E solo un ultranovantenne ne può ricordare alcune, e non tutte, poiché mio padre è stato meccanico, ma non commerciante, non muratore e (spero) non ladro! Anche oggi, in molti ambienti, vengono usate parole che noi indichiamo come "termini tecnici", ma che non sono più gerghi, poiché usati per praticità, per moda o per eleganza e non per non farsi capire dagli altri.
La lettura di questa lista del Menarini mi ha portato a fare qualche riflessione che riporto qui di seguito:

1) l'espressione "a balón" suona strana, poiché ho sempre sentito dire "a balùs" ed anche "rimbunga/ribonza" (merce) l'ho sempre sentita nella forma "rimbànza" in senso generico, ma soprattutto riferita a merce rubata.
2) molte parole definite gergali, sono troppo simili alla lingua o ad altri dialetti e mi riferisco ad esempio a stréll (grido), sgubèr (lavorare), imbunìr (imbonire), pivèla (ragazza), rifilèr (smerciare), spago (paura).
3) alcuni termini sono di chiara origine francese: lumàtt (fiammifero), lungén (lenzuolo), macadùr (fazzoletto da naso), rulànt (veicolo), ecc. (allumette, lingerie, mouchoir, roulant, ecc.)
Di chiara origine latina sono invece furlén ed anche rufidàur (ladro), dove troviamo –fur (ladro) e nel secondo –ruf, forse per metatesi.
4) alcuni altri, dei quali né io, né mio padre eravamo a conoscenza, li ho spesso trovati simili in vari altri dialetti, dal piemontese al veneto, dal lombardo al romanesco. Eccone alcuni: campurèla (campagna), pióla (osteria), pit/pitòn (tacchino), sgnàpa (acquavite), scarcèna (tasca), sàc (£.1000), gàmba e pióta (£.100), pischérla (ragazza).
5) infine una stranezza: il lavoro del Menarini è sicuramente accurato e immagino che nel suo libro del 1942 ci saranno ben di più che 425 parole, tuttavia abbiamo notato la mancanza di alcuni termini gergali che mio padre ed io usiamo ancora spesso, come stufilàusi (tagliatelle), strézzi (sigarette), batintén (orologio), lisa (mantello), sacàn-na (giacca) e l'ormai noto sc'fón (calzerotti). Altre espressioni abbastanza note, ma non indicate nella lista, sono, ad esempio pri là (là, da quella parte) e pr'i tu vìsi (per i fatti tuoi), ecc.

Immagino tuttavia che sarebbe impossibile redigere un dizionario completo delle voci gergali, poiché certamente molti termini sono caduti in disuso prima della nascita del Menarini, se è vero che diversi altri, ancora vivi ai primi del '900, sono ormai spariti e che tra qualche decennio non ne esisterà più nemmeno uno! Il gergo sta sparendo molto più in fretta del dialetto proprio in quanto parlato da una più ristretta cerchia di persone.È lecito, infine, supporre che alcune parole gergali siano state note in un certo ambito, magari abbastanza vasto, e che siano poi "emigrate" in altri ambiti, in modo da raggiungere una certa notorietà. Certe altre è possibile che siano scaturite dalla fantasia di qualche popolano e che siano state usate da pochi e non da tutti i componenti di uno stesso "clan". Questo è ciò che ho detto a mio padre per… tranquillizzarlo e scusarlo di non conoscere tutti i vocaboli citati dal Menarini!

Paolo Canè

venerdì 12 ottobre 2007

EDUCAZIÀN 1 (n. 93)

Una cuntadnóta la spalànca l'óss dal ginecólogh e la dìs fórt: "Cus'òia da fèr pr'al scadàur à la fìga?".
Al dutàur l'arspànd: "Mó insàmma, sgnàura, éla quàssta la manìra ed c'càrrer? Adès lì la tàurna fóra, la bóssa e l'am d'mànda: "Dottore, avrei un prurito alla vagina. Èla capé?".
La cuntadnóta la tàurna fóra, la bóssa e la dìs: "Dottore, avrei un prurito alla…..cumm'èl pùr détt ch'l'as ciàma ed cugnómm la fìga?".

AL GÀT VIAZADÀUR (n. 92)

"Alàura it pò riusé a c'fèrten ed ch'al tó gàt?"
"Mocché, à l'ò purtè a 10 chilómeter da cà e l'é turnè; alàura a l'ò purtè infén a Módna e l'é turnè un'ètra vólta; a la fén a sàn andè infén a Frèra, in mèz a una nàbbia ch'l'as taìèva col falzàn e am sàn pérs! Óu, par furtón-na ch'ai éra al gàt, se nà an turnèva pió a cà!"

Proverbio n. 139

Fèr l'intarès ed Cazàtt.
Una speculazione da poco (distrusse la casa per ricavarne pietrisco!).

Proverbio n. 138

Fèr la pàira a quàich’dón.
Turlupinare qualcuno.

UN PATRIMONIO PERDUTO

Ho l'impressione, come accade spesso nella vita, che a volte si dicano certe cose, si facciano certe affermazioni con grande certezza, ma che… non si sappia esattamente di che cosa si stia parlando!
Prendiamo ad esempio, tra le tante, un'affermazione che si sente dire da tempo ed ovunque: "Il dialetto è un patrimonio che si sta perdendo e che invece occorre salvaguardare"! Lo stesso si dice, peraltro giustamente, di certi animali in via d'estinzione, della deforestazione del pianeta e d'altro, tuttavia è innegabile che i dialetti stiano scomparendo, così come certe razze di animali e diversi chilometri quadrati di foresta! Si ha l'impressione che nessuno faccia nulla, o comunque che non si faccia abbastanza, ma qui l'argomento è il dialetto e a quello mi attengo.
Esso pare un patrimonio solo oggi che sta morendo, mentre non molti anni fa era una cosa di cui quasi ci dovevamo vergognare, una lingua da evitare, una etichetta di ignoranza e di volgarità. Oggi tutti lo vogliono recuperare, ma pochi hanno gli strumenti per farlo: non basta parlarlo (male!), magari a sproposito, magari traducendo semplicemente in dialetto sulla bocca gli ordini che il cervello ci manda in italiano! Questo non è recuperare o parlare il dialetto, specialmente da parte di gente che prima mai o poco lo aveva parlato, questa è una sciocca ed inutile ostentazione di chi vuole far intendere di sapere ciò che non sa,è un'ulteriore offesa che gli viene recata.
In effetti, quello che "si sta perdendo" e che "dovremmo recuperare" non sono i vocaboli, bensì lo spirito petroniano: una cosa che abbiamo o che non abbiamo, e non si può "recuperare" ciò che non si è mai posseduto.
Lo spirito petroniano è tante cose, ma soprattutto quella serie di sfumature che hanno presumo tutti i dialetti, proprio perché solo parlati, mentre la lingua resta un mezzo per capirci che è sì nostro, ma che non sarà mai nostro come lo è il dialetto, almeno finché avrà vita, almeno per noi! Il dialetto, solo apparentemente rozzo, contiene in sé un'ironia, un'allegria ed una serie di sottili significati che sono usati e capiti solo da chi lo parla e anche da molto tempo. Un esempio? Ho già detto che i cognomi delle nostre parti hanno una traduzione in dialetto e perciò Baravelli, diffuso in città, si pronuncia "Baravèl", ma un mio parente con questo nome, mio padre (inesauribile fonte di cultura dialettale!) lo chiama "Baravèla" e questa "a" finale è un vezzeggiativo, è un sinonimo di simpatia che quel personaggio sprigionava. Stesse caratteristiche ha il diminutivo “Baravlén-na”!
Esiste una simile sfumatura in italiano?
Ecco, questo è ciò che veramente sta scomparendo e che non salveremo!

Paolo Canè

giovedì 11 ottobre 2007

LA SCUSA (n. 91)

Tótt i dé Pirén l'à una scùsa nóva pr'arivèr in ritèrd a scóla.

"Alàura Pirén che scùsa èt incù?"
"Sgnàura màstra, ai ò purtè la vàca al tòr".
"Bàn? An al p'sèva brìsa fèr tó pèder?"
"Sè, mó l'é dimóndi méii al tòr!"

I PIRENEI (n. 90)

"Bàbbo, dùvv'éni i Pirenei?"
"Sòia bàn mé: d'màndel a tó mèder ch'l'é lì ch'l'ardàppia sàmpr'incósa!"

Proverbio n. 137

Fèr l'amàur con la surèla d'la màn stànca.
Masturbarsi.

Proverbio n. 136

Fèr di sdùz.
Abortire.

IL DIALETTO BOLOGNESE

Per quante volte ho già parlato (e ancora parlerò!) di quest'argomento, per altrettante volte dovrei tacere e dovrei cancellare tutto quanto ho scritto! È il ricorrente, sconsolante pensiero che mi attanaglia, ogni volta che finisco di leggere o di rileggere uno dei testi (sebbene pochissimi) in mio possesso i quali appunto di quest'argomento trattano. Ciò che non finirà mai di stupirmi è il numero degli studiosi che hanno affrontato la materia (da Dante in poi fino al Devoto ed oltre) e che hanno pubblicato centinaia di testi, nei quali sembra che ormai tutto sia già stato trattato, sezionato, studiato e classificato, oltre al congruo numero di studiosi stranieri (soprattutto tedeschi) che sono stati maestri nello studio del…mio dialetto! E così, sempre, dopo aver letto ciò che altri, ben più autorevoli, hanno scritto, mi assalgono sensazioni d'impotenza e consapevolezza della mia ignoranza, tali che… quasi mi metterei a piangere! Eppure…eppure io leggo, rileggo, studio, mi angoscio, penso, deduco, "scopro"… e alla fine mi trovo sempre ed ostinatamente a scrivere! Perché? Per tre motivi principali:

a) perché mi piace, mi diverto e così trascorro quest'inutile tempo da pensionato, con la piacevole sensazione di occuparmi di qualcosa per cui valga la pena scrivere.
b) perché, tra i seppur pochi libri della mia biblioteca, ne ho alcuni scritti da persone come me (e a volte anche peggio di me, poiché hanno pubblicato lavori che sono stati copiati pari pari da quelli scritti dai "veri" studiosi) e penso che, se scrivono loro, posso scrivere anch'io!
c) perché ho la presunzione di scrivere in modo semplice e chiaro, tanto da fare capire alle persone semplici come me, in poche parole, ciò che questi studiosi scrivono in modo assai più preciso e dettagliato, usando termini dotti (con diverse citazioni in latino e greco) che conferiscono ai loro studi una veste ufficiale e professionale ed una profondità che si evidenzia anche a prima vista, ma che il lettore estemporaneo e non competente non solo non capisce, ma trova pedante e noiosa.

Più ci si addentra in una materia e più, non solo ci si sente ignoranti, ma sorgono dubbi anche su ciò che poco prima sembrava chiaro e semplice. Una modesta cultura non ha questi problemi: prendo ad esempio una persona che amo ed alla quale devo in gran parte la pratica dell'uso dialettale: mio padre. Egli è intimamente convinto di sapere tutto in fatto di dialetto, di parlare l'unico dialetto possibile e di conoscere ogni parola ed ogni espressione dialettale esistente! A volte mi trovo a discutere con lui su parole che hanno un ben preciso significato, citato da dizionari e da studiosi eminenti, e lui, convinto che tutti costoro si siano ingannati, continua a sostenere la sua tesi.
Alla fine lascio sempre perdere!
E le persone come lui sono tante, ma che dico, sono la maggioranza!

Non si può parlare d'un qualunque argomento senza prima avere assimilato ciò che altri hanno studiato, senza conoscere le molte altre materie che tale argomento hanno influenzato, condizionato e determinato. Così è anche e soprattutto per quanto riguarda il dialetto. Parlarlo, capirlo anche bene non è sufficiente: chi lo parla da sempre, poiché l'ha imparato ad orecchio, è praticamente un analfabeta! E' come parlare una lingua senza saperla scrivere, senza sapere nulla di storia, di geografia, di qualsiasi altra materia inerente: è come parlare al buio! Molti credono alle favole: credono che gli antichi parlassero latino, poi un bel giorno, chissà come e perché, si siano messi tutti a parlare italiano e che il dialetto sia, in qualche modo, una corruzione della lingua, senza minimamente pensare che tutto si è trasformato lentamente, che il dialetto è il risultato di tale trasformazione e che la lingua è invece una convenzione creata artificialmente e molto più tardi; senza pensare che tale processo è comune a tutti i luoghi d'Italia, d'Europa e del mondo; senza pensare che non esistono parole "misteriose" o "esclusive" di un dialetto, ma che ognuna di queste ha una ragione di essere e che molte sono imparentate tra di loro, anche se a prima vista non lo sembrano affatto; senza pensare che non esistono materie avulse da quella realtà che, invece, le trova tutte collegate tra di loro.

Lo studio del dialetto, come dell'onomastica, dell'etimologia e di qualsiasi altra materia che studi le cose di un passato che ci ha lasciato solo pochi e controversi documenti, è un campo estremamente difficile, nel quale occorre andare cauti, poiché, come tante volte ho detto, niente o molto poco è ciò che sembra a prima vista. E sono caduti in errore anche molti esimi studiosi (questo non lo dico io, ma certi loro colleghi che li hanno presi in castagna!), anche perché gli studi vanno sempre avanti e ogni nuovo apporto si aggiunge a quanto già enunciato, oltre al fatto che spesso lo corregge, quando addirittura non lo sovverte. Per questi motivi (e per altri) occorre sempre fare molta attenzione a ciò che si dice ed affrontare gli argomenti con umiltà e con serietà: io primo fra tutti! Fatto questo lungo preambolo (e non è certo la prima volta, ancorché ci sarebbe tanto altro da dire!), vediamo di fare ulteriore chiarezza: la lingua italiana è uguale da Merano a Pantelleria, si scrive nello stesso modo, ha le stesse regole e si pronuncia allo stesso modo, a parte gli accenti dovuti ai diversi retaggi dialettali locali. È, come ho detto, una convenzione nata alla fine del Medio Evo per motivi di necessità pratica, che si è sviluppata nei secoli con gli apporti di poeti e scrittori d'ogni parte d'Italia, che ha ormai le sue regole fissate e che tuttavia continua a svilupparsi lentamente. I dialetti restano unicamente parlati ed ogni tentativo di scriverli è arbitrario e comunque non ufficiale, anche se c'è stato qualcuno che ha messo a punto un metodo preciso e quasi perfetto, come Alberto Menarini fece per il bolognese. Anche in questo caso però si tratta di parere soggettivo che non è condiviso da tutti, sopra tutto per due motivi:

a) perché nessuno ha mai stabilito che il metodo Menarini sia quello giusto.
b) perché, essendo il dialetto solo parlato, paradossalmente non esiste più un dialetto bolognese! O meglio, esiste ed è quello che si parla a Bologna in centro ed in periferia, ma è zeppo di varianti, di ambiguità, di eccezioni interpretative ad una regola…che non c'è, in modo che ogni parlante è convinto che la propria pronuncia sia quella giusta!

Esistono invece i "gruppi dialettali" come li enuncia il Devoto e come, da Dante in poi, altri avevano già individuati. Nel nostro caso si parla di dialetti "emiliano-romagnoli" addirittura e noi tutti sappiamo bene che differenza passi tra il dialetto bolognese ed il romagnolo ed anche tra il bolognese ed il modenese, il ferrarese, il piacentino e così via! Questo gruppo fa parte degli idiomi "gallo-italici", distinzione ancora più larga che ci differenzia dalle regioni del Centro e del Sud, ma che comprende anche i dialetti piemontesi, lombardi e liguri. Dunque possiamo parlare solo in generale, partendo dal grande raggruppamento dei "gallo-italici" (così detti per l'influenza che ebbe la lunga dominazione gallica che andò circa dal V° al III° secolo a.C., influenza che dura tuttora), per limitarci poi al gruppo "emiliano-romagnolo" che è già ben definito e costituisce una base valida di studio. Difficile è restringere ancora il campo, poiché, se è vero che ogni città ha il suo dialetto, è anche vero che ogni paese ha il proprio e ci si perderebbe in un dedalo infinito d’idiomi, i quali, negli spazi ristretti, si mescolano e s'influenzano fino a diventare difficilmente distinguibili. E diciamo anche che ad aumentare questa "babele" contribuisce la diffusa immigrazione e la scarsa confidenza con parlate che stanno scomparendo.Un tempo lo stesso dialetto parlato entro le mura di Bologna conosceva diverse varianti a seconda dei quartieri (i borghi), tuttavia era abbastanza omogeneo, anche perché quasi tutti i parlanti erano nati in città e lo usavano al posto di un italiano che conoscevano poco o nulla.
Appena però ci s'inoltrava in campagna, in ogni direzione, si cominciavano ad evidenziare differenze a partire da centri distanti anche solo 7 Km. (ad esempio Castenaso), le quali aumentavano man mano che ci si allontanava dalla città. Oggi non è più la stessa cosa ed ogni dialetto ha perso le proprie caratteristiche per effetto dei tanti bolognesi che si sono trasferiti nei paesi circostanti e per i tanti "forestieri" che si sono stabiliti a Bologna.

Pertanto, a chi cerca di parlare e di scrivere il bolognese d'oggi, consiglio di dimenticare parole ed espressioni ormai obsolete che appartengono al passato, di evitare la grafia inesatta che pure è stata largamente usata da scrittori e poeti del passato (magari adottando quella "menariniana" che è molto più svelta e precisa), ma sopra tutto invito a parlare coloro che il dialetto lo hanno sempre parlato (non coloro che lo hanno "scoperto" di recente!) ed a scrivere coloro che hanno studiato i tanti testi in circolazione in modo da sapere ciò che scrivono! Ne uscirà un bolognese che non è più quello di un tempo, ma che è più o meno quello che si parla oggi.
È chiaro che se qualcuno avesse pensato a stabilire le regole fonetiche e grafiche del nostro dialetto, oggi accadrebbe ciò che è accaduto con la lingua e cioè che il "bolognese" sarebbe univoco ed immutabile per tutta la provincia di Bologna e tutti lo parlerebbero, salvo le diverse inflessioni locali! Ma chi ce lo fa fare? Chi vorrebbe costringere, ad esempio, gli argelatesi a dimenticare il loro dialetto ed a parlare il bolognese? Forse è bene che le cose restino come stanno: ogni paese parla il proprio dialetto, anche se le differenze rispetto al paese vicino sono minime, e parimenti in ogni paese si cercherà di scriverlo al meglio. L'importante è non fare delle confusioni tra tempi e luoghi diversi, l'importante è di non volere spacciare dei falsi e per intenderci tutti, anche con i più lontani forestieri, c'è sempre l'italiano, che proprio a questo scopo è nato! E poi a che servirebbe fissare regole fonetiche e grafiche proprio oggi che il dialetto sta sparendo? Sarebbe una pratica inutile, quasi inutile come quella di andare, a 70 anni, all'Università per Anziani: all'Università ci si sarebbe dovuto andare da giovani, quando gli studi avrebbero influenzato il resto della vita e magari anche la professione. A 70 anni si può ancora studiare per il proprio piacere, ma i titoli accademici lasciamoli perdere!
Dunque il dialetto non è corruzione dell'italiano, semmai lo è del latino! Il latino infatti è stata per secoli la lingua ufficiale, la lingua dotta e, in quanto tale, parlata e scritta da pochi, mentre il popolo la sapeva solo parlare e male. Le invasioni barbariche hanno fatto il resto ed è successo quello che sappiamo. Se oggi non ci fosse l'alto grado di scolarizzazione, se la gente fosse ancora ignorante e analfabeta, potremmo assistere alla … corruzione dell'italiano e torneremmo così ai dialetti! Ma non c'è pericolo.

Torniamo al gruppo "emiliano-romagnolo": che cosa unisce questi dialetti e li divide da quelli degli altri gruppi? E' un discorso lungo e difficile. Il grande linguista Giacomo Devoto (vedi "I dialetti delle regioni d'Italia" di Devoto e Giacomelli- Ed. Bompiani 1971) ne dà una spiegazione precisa, esauriente e…complicata, come è uso di tutti i linguisti.
Egli prende in considerazione ogni regione della Penisola e individua per ogni dialetto le caratteristiche che lo differenziano dagli altri, fissandone l'appartenenza al suo particolare gruppo. Ma tra le sue tante osservazioni interessanti, una in particolare è notevole e cioè che non sempre i gruppi corrispondono alle attuali Regioni politiche. Nel caso dei nostri dialetti l'area è molto più vasta della Regione: infatti comprende Pavia, Voghera e Mantova in Lombardia, esclude Piacenza, per arrivare fino a Carrara in Toscana e, sconfinando nelle Marche, raggiunge il fiume Esino a 12 Km. da Ancona! Ed è più o meno l'area che 2.500 anni fa fu occupata dai Galli Boi e da altre tribù, compresi i Galli Senoni (Senigallia). Questo spiega il perché da sempre il dialetto Mantovano è molto più simile al nostro del piacentino e quello di Pesaro e del Montefeltro è molto simile al romagnolo.

Osservazioni affascinanti del Devoto, col quale (mi si perdoni l'eresia!) non sono del tutto d'accordo su una: egli afferma che il termine "topo" (in bolognese "pàndg") è "un fatto isolato nell'ambito dei dialetti italiani" e che "probabilmente è d'origine bizantina". A me pare invece che derivi dal greco "póntikos" che a sua volta ha originato l'italiano "pantegana" (topo di fogna) e il termine dialettale "pantecana" che ha lo stesso significato nei dialetti meridionali, come il calabrese, nelle zone della Magna Grecia, e pertanto è un caso tutt'altro che isolato, ma… sicuramente ha ragione lui! Del resto è più probabile che i bolognesi abbiano preso questo termine dai bizantini, vista la vicinanza di Ravenna, dato che i bizantini parlavano greco! Lo ripeto: attenzione, cautela e rispetto, poiché quasi nulla, in fatto d’etimologia, è quello che sembra! Sono questi piccoli, ma significativi esempi, a dimostrare che il solo fatto di parlare un dialetto non significa conoscerlo. Ci sono dei motivi storici in seguito ai quali ci si spiegano "strane" parentele (l'influenza dei Galli) e ci sono motivi geografici i quali spiegano perché due Regioni come Toscana ed Emilia-Romagna parlino dialetti così diversi (l'asperità dell'Appennino) ed ancora altri motivi contingenti che rendono simili le parlate di zone lontane tra di loro, ma unite da millenni dalla Via Emilia che ha facilitato contatti, spostamenti ed invasioni. Storia e geografia ci spiegano perché i paesi del Centro-Sud si siano ritirati dalla costa (invasioni saracene), perché certi paesi montani mantengano particolari caratteristiche (isolamento e mancanza di strade), perché alcune città siano più ricche di monumenti d'altre (le Signorie, più o meno potenti). Insomma, per affrontare seriamente uno studio su qualsiasi cosa riguardi il passato, occorre sapere un po' di tutto e considerare un po' di tutto. Nulla nasce per caso e nulla è mai completamente isolato, anche perché, oltre alle tante cose che sono state scoperte e che sappiamo, ce ne sono altre non ancora scoperte (e che forse non scopriremo mai) le quali potrebbero darci ulteriori e preziose spiegazioni, rivoluzionando magari vecchie e solide teorie. Ci si potrebbe chiedere perché, nell'ambito dei dialetti gallo-italici, ci siano così sensibili differenze e i motivi potrebbero essere tanti. Innanzitutto è probabile che diverse tribù galliche parlassero diversi idiomi e poi ciò potrebbe dipendere sia da una differenziata penetrazione o periodo di permanenza dell'invasore su un dato territorio, sia da una diversa influenza su quel territorio del latino o di altre parlate preesistenti o successive.

I motivi possono essere tanti, certo che, in ambiti sociali ristretti, come tribù o piccoli villaggi, è probabile che la parlata di uno solo o di pochi individui abbia potuto influenzare l'ambiente: vi siete mai chiesti come mai la stragrande maggioranza degli abitanti delle province di Piacenza e Parma abbiano la "erre" moscia? Che il primo abitante di quelle zone avesse un difetto di pronuncia e che gli altri lo abbiano imitato è un'idea buffa, ma non da escludere!
La lingua italiana, come un fiume, nasce da una sorgente identificata nell’opera di Dante, che poi, con l'apporto di molti affluenti, s'ingrossa fino alla foce.
I dialetti, al contrario, sono innumerevoli pozzanghere che nascono spontanee ovunque, che possono essere talvolta comunicanti, ma che non vanno da nessuna parte, perché sono immobili, perché usati solo in loco e perché, non sapendo… scrivere, non hanno possibilità di ulteriori sviluppi!

Paolo Canè

mercoledì 10 ottobre 2007

AL VOCABOLÈRI (n. 89)

"Bàbbo, la màstra l'à détt che d'màn ai ò d'andèr a scóla col vocabolèri…"
"Mó gnànch pr'insónni! Té t'farè cumm'ai ò fat mé e cumm'l'à fàt tó nón: ti vè a pì!"

AL P’SCADÀUR ORIGINÈL (n. 88)

Ai é ón in mèz a un càmp con la càna da pàss. Un èter ch'al pàsa d'éd lé ai d'mànda:
"S'in ciàpel di péss?" e ló: "Nà!"
"E alàura ch'sa stèl a fèr lé int al càmp?"
"A stàgh d'astèr mi fradèl ch'am à da v'gnìr a tór con la bèrca!".

AI ZARDINÉTT (n. 87)

Un strazàn als métt a séder int'na panchén-na dùvv ai é una sgnàura tótta elegànta e al tìra fóra un pèz ed salamén: "Vól-la favurìr?", "Nà", la dìs lì quèsi ufàisa.
Dàpp al tìra fóra un fiascàtt ed vén: "Vól-la bàvver?" stàssa arspósta.
À la fén al tìta fóra un mèz tuscàn; "Vól-la fumèr?", "Mó nà!" e ló: "Ciavèr gnànch pr'insónni, vàira?".

LA BANDÌGA (n. 86)

I muradùr i én invidè a fèr una bandìga organizè da la muiér dal padràn, ch'l'é una cuntàssa. I én tótt intimidé da l'ambiànt, tànt che la sgnàura l'ai dìs: "Magnè pùr, l'é tótt grètis".
Dàpp un pó la tàurna a dìr: "B'vì pùr, fè pùr i vùster cómod, fè cànt d'èsr a cà, d'mandè quàll ch'a vlì".
Un manvalàtt als fa curàg' e al d-mànda: "Él pusébbil, sgnàura cuntàssa, ed fèr 'na ciavadén-na? Li la d'vànta séria e ló: "O, pagando, eh!"

AL CÀMP DI NUDÉSTA (n. 85)

Ai é ón ch'al và in férie e als fàirma int una beléssima spiàza, mó l'ónnich sìt ch'ai é l'é un càmp ed nudésta.
Al pànsa: "Impórta bàn a mé, tànt mé a sàn qué par fèr i bàgn!"
Al và dànter e al tól una stànzia. "Am archmànd ed lèzer pulìd tótti el régol e ed rispetèri, parché qué nuètr'à sàn dimóndi sevér!" a gli dìs l'impieghè (nùd anca ló). "Ch'ans preócupa, an vóii dèr fastìdi a inción" e al và int la stànzia. Là ai é un gràn cartèl con'na móccia ed régol scrétti: "Ai lizarò pò stasìra. Adès a córr int la spiàza!".

In st'mànter ch'al travérsa la pinéta, l'incàntra una mèder ch'la s'achén-na par tór in bràz al só ragazól e, davànti a ch'al spetàquel ed cùl, al drézza!
Àpriticielo: tótt i altoparlànt i tàch'n a fèr un gràn pulèr: "Attenzione! Infrazione ai regolamenti!".
Una bèla ragàza biànnda l'arìva, l'ai ciàpa in màn al só afèri e a gli fà una pugnàtta! "Mó che bèl", al dìs ló e al và drétt vérs la spiàza.
Dàpp un minùd ai é da saltèr un fusadén e int al fèrel ai scàpa una scuràzza. Un'èter gràn pulèr: "Attenzione! Infrazione ai regolamenti!".
Ai vén fóra un sturnèl d'un zuvnót ch'a gli càza int al cùl! Al tàurna int la só stànzia, al fà la valìs e l'impièghè a gli dìs:
"Mó cómm? L'é apànna arivè e al và vì sóbbit? Avàggna fàt quèl ed mèl!"
"Nà, nà, al và incósa bàn, sàul, vàddel, che mé am's drézza sè e nà dàu vólt à l'àn, mó ed scuràzz ai'n fàgh almànch trài al dé!"

LE "BALLE" DI BOLOGNA

Non si tratta di…attributi e nemmeno di cotone, ma di storie con tutta probabilità inventate, che, nella migliore delle ipotesi, chiamiamo "leggende" e nella peggiore "balle"! Agli uomini è sempre piaciuto inventare, specialmente ai tempi nei quali non c'era la scienza a spiegare ciò che essi non riuscivano a capire, non c'erano libri, cinema e televisione che raccontavano le storie e, per attirare l'attenzione degli amici intorno al fuoco d'inverno, s'inventavano fatti e personaggi, se non altro per abbellire quelli di una misera esistenza. A volte anche la Fede induceva ad inventare: infatti le cose che qui racconterò le ho divise in Balle Religiose e Balle Laiche. Comincio da queste ultime, non senza ricordare che notizie più precise e dettagliate in merito si possono leggere in quella moltitudine di libri che è da sempre in commercio. Molti autori (alcuni dei quali indicati nella bibliografia), tra i quali Alberto Menarini, raccontano in modo esauriente questi ed altri episodi di storia, usi e costumi, personaggi, curiosità, leggende e dialetto, perciò io sarò molto sintetico.
Tra i più famosi "bugiardi" bolognesi, meritano un posto in prima fila Fra' Leandro Alberti e Alessandro Machiavelli: a costoro evidentemente la realtà non bastava o non piaceva.Al primo hanno dedicato una strada, ma…le sparava grosse anche l'altro!

Balle laiche

BOLOGNA E BOLSENA: luoghi diversi e distanti eppure un po' "parenti"! Infatti, come Felsina(poi la Bononia gallo-latina) era certamente il centro dell'Etruria Padana, così Velzna (poi la Volsinii novi latina), secondo recenti studi pare fosse il centro, e non solo geografico, dell'Etruria Toscana. E penso: Velzna, Felsna, Felsina, che non ci sia un nesso tra due nomi così simili e forse originariamente uguali? Non sono affatto un etruscologo, ma mi piace crederlo. Eppure qualcuno si è inventato una improbabile famiglia reale etrusca con Fero, Felsina ed Aposa: padre, madre e figlia!
GALLIERA: una delle "balle" più incredibili riguarda l'origine del nome Galliera che qualcuno ha voluto trovare in "galli erant" (per via del fatto che "c'erano i Galli" Boi), mentre quasi certamente deriva il suo nome da Anna "Galeria" Faustina, moglie dell'imperatore Antonino Pio!

PRESEPE: ho sempre sentito dire che l'ha "inventato" San Francesco (il quale predicò a Bologna nel XIII sec. tra la commozione dei presenti) e spero che ci si riferisca alla rappresentazione della Natività con le statuine, perché un primo Presepe con bue, asinello e bambino si può ammirare al Museo Bizantino e Cristiano di Atene e risale al IV/V secolo, cioè ad almeno 800 anni prima!

FREGNACCE: giusto così si possono definire quelle raccontate da un certo Fregni, modenese (nome ad hoc) e riportate dal Menarini. Secondo lui l'Asinelli trarrebbe questo nome dal fatto che è "alta e snella" (A.SNE.) e così Modena, per il fatto che mura e Ghirlandina le conferivano l'aspetto di una nave, era fatta a "mo' de nave" (MO.DE.NA.). Menarini si chiede se fosse un gran fesso o un gran mattacchione che ci prende ancora in giro dopo due secoli!

AMORI CONTRASTATI: dell'immaginario collettivo popolare, evidentemente fa parte la storiella dei giovani innamorati, ma figli di famiglie rivali. Storie che sono molto tenere, ma che inevitabilmente finiscono nel sangue. La più popolare è quella di Giulietta e Romeo, non perché sia stata vera, ma perché la cantò Shakespeare. Ogni città, ogni paese ha la sua storia analoga. Bologna ne ha avute almeno due, la più nota delle quali riguarda Alberto Carbonesi di famiglia ghibellina e Virginia Galluzzi di famiglia guelfa. L’altra riguarda Imelda Lambertazzi e Bonifazio Geremei (una famiglia ghibellina, l’altra guelfa): solita storia, solito finale e… solita frottola!

LA GIOCONDA BOLOGNESE: si sa che nel 1515 Leonardo, al seguito di Leone X, fu ospite a Bologna dei ricchi banchieri Felicini, nel loro palazzo di Via Galliera.
In quei giorni essi ospitarono anche Filiberta di Savoia e i due si conobbero: si conobbero soltanto, poiché ben conosciamo i gusti sessuali di Leonardo e questa è forse la sola cosa certa! Ciò che invece è inverosimile, anche perché le date non combacerebbero, è che egli dipinse a Bologna la sua famosa "Gioconda" e che la modella fosse la stessa Fliberta!

FUGA PER LA VITTORIA: che non è un film, ma un fatto che mi riporta a Re Enzo, sul quale sono state dette montagne di frottole sia in Italia che in Germania, dove credevano che fosse legato da catene d'oro. Si disse che suo padre ne chiese "lungamente" la liberazione, offrendo un filo d'oro che abbracciava l'intera città, ma Federico morì meno di un anno dopo e forse non ebbe tanto tempo per simili offerte.
Si disse che dormiva in una gabbia (d'oro o di legno), si disse che una volta tentò la fuga dentro una brenta e che una popolana, vedendolo, gridò: "Scappa, scappa!" e così si meritò il cognome nobiliare di Scappi (…che esisteva già prima). Si disse che ebbe un rapporto ed un figlio con tale Lucia di Viadagola, alla quale il re-poeta sussurrava "Mia cara, ben ti voglio" e che perciò il figlio sarebbe stato il capostipite dei Bentivoglio, la famiglia signorile, un membro della quale però aveva partecipato alle Crociate…200 anni prima! Tutte queste balle per infiorare la realtà che era più normale: il principe era prigioniero, ma era attorniato da amici ed intellettuali italiani e tedeschi, scriveva e talvolta scendeva in piazza a parlare con la gente. Anche le armi d'oro (sparite!) con le quali sarebbe stato sepolto quasi certamente sono un balla!

UN BARBABLU' NOSTRANO: era un membro della famiglia Boccadiferro, nel cui castello di Serravalle si diceva vagassero di notte, non uno, ma la bellezza di dodici fantasmi! Sarebbero state le 12 mogli che egli avrebbe ucciso ad una ad una: una bella costanza, ma soprattutto, un bel traffico notturno!

FANTASIE DI LATINISTI: analogamente al caso di Galliera, qualcuno suppose che il nome di Via Saragozza, fosse la storpiatura di "Cesareaugusta", nome delle terme romane che erano da quelle parti. Altri dissero che la strada fu così chiamata in onore del cardinale di Albornoz, ritenuto nativo dell'omonima città spagnola: sarebbe anche plausibile, se non fossero attestati una "strata et burgus Saragocie" già nel XII sec.!

LE TRE FRECCE: tutti hanno creduto per anni che quelle conficcate sotto il portico ligneo di Casa Isolani in Strada Maggiore, fossero testimoni di chissà quale attentato o scaramuccia medievale, finché, nel corso di un restauro, si appurò che era uno scherzo degli studenti, quando la goliardia era ancora viva.

LEBBROSI E SIFILITICI: i primi erano obbligati a soggiornare nei lazzaretti (anche dietro pagamento di una diaria), i quali venivano costruiti a est della città (ad esempio San Lazzaro) poiché si credeva che il vento da ovest portasse via le epidemie e non sapevano che, come oggi, le epidemie… vengono tutte da est (Cina)! I secondi, frutto delle conquiste (si fa per dire) degli spagnoli in America, venivano curati, anzi "purgati" nell'ospedale di San Giobbe, da cui, pare, Via del Purgatorio.

LA TORRE ASINELLI: altro oggetto di un monte di frottole, come lo fu il povero Re Enzo. Chi parlò di file di asini o muli che portavano la selenite da Monte Donato. Chi parlò di un poveraccio che trovò un tesoro col quale fece costruire la torre per ottenere la mano della sua bella. Chi disse addirittura che essa spuntò dal suolo in una sola notte per opera del Demonio. Insomma, a nessuno venne in mente di pensare che una famiglia Asinelli (Pietro Asinelli si chiamava l'amico di re Enzo) l'avesse fatta costruire. C'è anche chi dice che fu la torre a dare il nome alla famiglia e non il contrario, ma noi, disincantati posteri, crediamo alla versione che una potente famiglia si fosse fatta costruire questo incredibile monumento che ci stupisce ancora.
Un'altra fonte racconta che la vicina Garisenda crollò perché quest'altra famiglia voleva che la sua torre si attorcigliasse a spirale intorno all'Asinelli. Anche in questo caso è documentata una famiglia Garisendi, ma non ci è dato di sapere se abbia preso o abbia dato il nome alla torre. È anche accertato un cedimento che ne provocò il crollo e la sospensione dei lavori, però questi nostri avi avevano una bella fantasia!

BALLE MODERNE: si racconta che l'8 giugno 1921, quando morì Augusto Righi, fu trovato un fitto documento, scritto dal grande scienziato la sera precedente, che parlava della teoria della relatività. Allora Einstein aveva 42 anni e forse aveva già enunciato la sua teoria. Del resto non c'è da meravigliarsi, poiché, quando i tempi sono maturi, la stessa scoperta può arrivare da più parti contemporaneamente. Vedi la storia di Meucci e Bell, ma anche di un mio lontano parente, considerato in vita un pazzo genialoide, poiché si disse che nel suo baule fu trovato un carteggio che parlava di una strana "carrozza senza cavalli". Tutti esempi che confermano che il genio umano, ma anche la fantasia, sono sempre al lavoro. E così pure riguardo al "Resto del… Carlino", il cui titolo originale riportava proprio i puntini d'interiezione. Molti credono alla vecchia storia del resto del sigaro (cent.10-8=2), ma esisteva già in Toscana un foglio che si chiamava "Il resto del sigaro". La verità è (e i puntini lo confermano) che si voleva fare la fronda agli avvenimenti del tempo, similmente a quando si promette a qualcuno un sacco di botte: "Vén qué ch'at dàgh al rèst!"
Ma se ci siamo affezionati al sigaro, teniamocelo pure, anche se ora non si fuma più!

Balle religiose

Lungi da me voler essere blasfemo, ma ce ne sono alcune veramente fantasiose e ne cito solo poche. Io parlo di Bologna, ma queste "balle" venivano raccontate (e in parte ancora si raccontano) in tutta Italia, in tutto il mondo, come in una sorta di gioco perverso, nel quale una "autorità" (per non dover dare troppe spiegazioni) si inventa una frottola e il popolo la beve (per non doversi fare troppe domande).

SAN PETRONIO: cominciamo con quest'importante personaggio (vescovo dal 431/32 al 450, forse milanese e non orientale come vuole la leggenda), del quale un monaco benedettino scrisse la storia (tra il 1160 e il 1180), secondo la quale sarebbe stato proprio lui a fare costruire la chiesa di S.Stefano. E' evidentemente una frottola, poiché è difficile pensare che un ignoto monachello, magari digiuno di archeologia e di dati storici (anche se pieno di fede) possa aver accertato un fatto del genere la bellezza di sette secoli dopo! Più recenti studi, infatti, indicano che la costruzione del tempio avvenne molti secoli dopo la morte del Santo. Ma Santo Stefano, certo una delle più antiche ed affascinanti chiese di Bologna, ha dato la stura ad un sacco di frottole, come quella del Catino di Pilato (del quale ho già detto), costruito quasi un millennio dopo il giorno in cui egli si lavò le mani.
Come quella del "pozzo miracoloso", bevendo le cui acque gli infermi guarivano (a meno che non si fosse trattato di gente che stava semplicemente morendo di sete). Come il giro intorno alla tomba del Santo (e carponi dentro) che le puerpere facevano, certe di propiziarsi così l'esito della gravidanza (un fatto del genere accadeva anche a Napoli nella chiesa di Mergellina). Per finire le 4 croci che San Petronio avrebbe posto ai 4 angoli della città, anch'esse risalenti a molti secoli dopo.
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MACCHE' VASO D'EGITTO! Forse l'origine di quest'espressione viene dal vaso, conservato in S.Maria dei Servi, che avrebbe usato Gesù alle nozze di Cana e che fu portato a Bologna, appunto dall'Egitto, nel 1349. Leggende che si legano ai pezzi della "vera croce" o dei "chiodi" o del Graal o di mille altre reliquie, che vengono ritrovate da chissà chi, chissà come, chissà quanti anni dopo e che riempiono tutte le chiese di tutte le città della cristianità, alle quali però forse è bello credere!

SAN LUCA: l'icona della Madonna, molto venerata in città, l'avrebbe portata al collo un pellegrino greco che andava vagando per le strade di Roma alla ricerca del Colle della Guardia (visto che là dei colli ce n'erano tanti!), giurando che l'autore era niente meno che l'Evangelista. Portato a Bologna da un senatore, trovò il colle e concluse così il suo pellegrinaggio. Storia improbabile, ma sempre più credibile di quella della Madonna di Loreto: là hanno voluto esagerare, poiché non l'immagine, ma l'intera chiesa sarebbe arrivata in volo dall'Oriente! E poi l'inevitabile miracolo: anno 1433, a Bologna piove da tre mesi, la campagna marcisce e, improvvisamente, spunta il sole. Da quel giorno la Madonna di S.Luca viene portata regolarmente in processione in città e non solo eccezionalmente com'era già accaduto una prima volta nel 1302.

LA MADONNA RILUTTANTE: quella di Via degli Angeli che decisero un giorno di trasferire in S.Pietro, ma i portatori cominciarono a traballare e a cadere a terra accecati. La riportarono subito indietro, i portatori riacquistarono la vista.

BARACCANO: altro luogo di leggende. Un giorno un soldato colpì la Madonna con la lancia e cadde morto. Un altro giorno il muro costruito a protezione dell'immagine veniva continuamente costruito e continuamente cadeva. Un altro ancora (nel 1511), quando 30.000 soldati papalini assediavano la città in quel punto, la grossa muraglia fu fatta saltare con una mina: saltò sì, ma tornò a ricomporsi esattamente com'era prima! I soldati si ritirarono e forse pensarono: "Ma che tipo di calce usano questi bolognesi?".

CALURA ESTIVA: il Cristo di Via del Cestello fu visto sudare copiosamente e in seguito prendere fuoco, ma a quei tempi la gente beveva molto.

VOLA COLOMBA: nel 1116 Picciola Galluzzi fece costruire la chiesa di Madonna del Monte all'Osservanza, dopo che una colomba in volo ne segnò il perimetro: più economico che assumere un geometra.

LACRIME: di queste se ne sente parlare ancora oggi e ovunque. Anche noi abbiamo avuto la nostra storia, quando la Madonna del Pianto, nella chiesa di Sant'Isaia, fu vista lacrimare per la peste del 1630. Non credano i napoletani d'avere l'esclusiva!

MADONNA TUTTOFARE: sempre per il gusto di voler vedere per forza qualcosa di soprannaturale nelle cose normali, si disse che la Madonna (poi denominata "della Pioggia") di Via Riva Reno, prima scongiurò terribili siccità come quelle del 1561, 1642 e 1660, poi fu anche invocata per allontanare l'invasione dei Turchi in Europa.

UN AUTORE TIMIDO era probabilmente il pittore che fece la Madonna della Rondine, nella via omonima, poiché, anziché ammettere d'esserne l'autore, si andò ad inventare che essa fu trovata in cima ad un altissimo pioppo, dove appunto volavano le rondini! Forse non era soddisfatto dell'opera!

UNA MANNAIA…COMMESTIBILE: forse per esorcizzare la fame che i bolognesi hanno dovuto patire in quegli anni,si disse che un dipinto del XVII secolo, raffigurato di fronte alla chiesetta dello Spirito Santo e che rappresentava il Volto Santo, ebbe il potere di salvare in extremis un condannato a morte, poiché la mannaia del boia diventò tenera come il burro. Praticamente una mannaia commestibile paragonata al burro: paragonarla ad un piatto di tagliatelle sarebbe stato troppo!
Se questo salvataggio è veramente avvenuto, è più facile che sia stato causato dalla grazia del Podestà, piuttosto che da improbabili trasformazioni molecolari.

LA TRISTE STORIA DELLA BADESSA: questa leggenda, più volte ricordata in diversi testi e con versioni abbastanza uniformi, è forse la più bella di tutte quelle che si raccontano dalle nostre parti, anche se non avvenne propriamente a Bologna, ma ad Ozzano, dove ancora oggi si festeggia annualmente la "Sagra della Badessa". Una storia bella perché unisce misticità, amore e mistero. In poche parole un cavaliere bolognese che vagava sui calanchi nei pressi di Settefonti, vide la Beata Lucia, al di là di una grata, che pregava nel suo convento e se ne innamorò. Tornò spesso a guardarla in silenzio, finché un brutto giorno, non trovandola più, si decise, per la disperazione, ad arruolarsi per le Crociate. In Terrasanta fu fatto prigioniero e in cella sognò Lucia che lo esortava a tornare. Tornò, ma seppe che era morta e i ceppi ai quali era incatenato si possono ancora vedere in una chiesa di Ozzano. Perché mistero? Perché Settefonti è un luogo magico e misterioso, un luogo che parla alla nostra anima e questo è il vero miracolo inspiegabile: andateci e vedrete!
P.S.: Per la cronaca (a proposito di balle) questa località, dove la leggenda vuole che esistessero sette fonti (e qualcuno ha avuto il coraggio di dire che…ne sono rimaste due!) non aveva affatto sette fonti e forse nemmeno una: il suo nome infatti è dovuto alla italianizzazione di quello dialettale "Stifont" il cui significato è un altro mistero!

I MIRACOLI SONO FINITI! "Facciamo il possibile e l'impossibile. Per i miracoli ci stiamo attrezzando", questo è il cartello esposto in diversi negozi o uffici da parte di vari spiritosi gestori. Sembra però che in questo mondo materialista, disincantato e non più religioso come un tempo, i miracoli non avvengano più. Ne è un esempio la chiesa della Madonna del Soccorso, il Viale Masini, che fu completamente rasa al suolo da un bombardamento nel 1944. A terra rimasero solo briciole, tranne la stessa immagine della Madonna che uscì intatta da quel disastro.
Un fatto che, se fosse accaduto solo qualche secolo fa, avrebbe certamente dato vita all'ennesimo miracolo da tramandare di generazione in generazione.

Mi fermo qui con le "balle" e le leggende. Forse sono io che non credo a nulla, ma a volte penso che se la gente ricominciasse a credere come una volta, forse le cose andrebbero meglio. Una volta erano tutti allegri e non avevano una lira in tasca, mentre oggi che tutti hanno di tutto, vedere per strada un sorriso, incontrare qualcuno che è felice è veramente un…MIRACOLO!

Paolo Canè

Proverbio n. 135

Fèr ch'me quì d'la Castlè (ed Varghè) che quànd i se spàz'n al cùl al vól dìr ch'i àn caghè.
Chi ha fatto un'azione ovvia o chi ha scoperto l'acqua calda!

Proverbio n. 134

Fèr al strunzlén.
Partorire il primo figlio.

Proverbio n. 133

Fèr al strànz pió grànd dal bùs.
Fare il passo più lungo della gamba.

Proverbio n. 132

Èser strà l'Óca e i Marón.
Due località di Bologna!

martedì 9 ottobre 2007

GRAFIA E FONETICA

E' la "patata bollente" del bolognese e forse di tutti quei dialetti o lingue che finora non hanno avuto nessuno che ne abbia sancito le regole. Hanno un bel dire molti bolognesi:" A me piace il dialetto, ma faccio fatica a leggerlo!" Sfido io: chi ci ha insegnato a leggerlo e scriverlo? Se non ci fosse stato nessuno che, in base a regole prestabilite, ci avesse insegnato a leggere e scrivere l'italiano, oggi saremmo nelle stesse condizioni anche con la lingua! Noi, io stesso ed anche bolognesi che hanno studiato, quando parliamo dialetto siamo nella condizione di…analfabeti: gente che ha imparato un idioma ad orecchio, ma che non sa né leggere, né scrivere! Menarini riporta spesso due versi di un certo dottor Annibale Bartoluzzi, autore del poemetto l'Asnada, il quale ha scritto oltre due secoli fa (1779):

Ogn' Bulgneis fá a só mod l'urtugrafì
N'avend ensuna lezz da tgniri drj

E questa "legge" manca ancora e mancherà sempre, poiché allo stesso Menarini che sarebbe stato in grado, eccome, di farla, nessuno ha mai dato l'incarico e finora, purtroppo, egli non ha avuto successori degni di lui: dopo Menarini gli scriventi in dialetto avrebbero dovuto imparare la lezione, ma non è stato così. O meglio, alcuni "dicono" di seguire la sua grafia, ma poi non lo fanno o non sempre lo fanno. Ho già avuto modo di criticare il Dizionario Santarini, redatto appena 10 anni fa, che ancora scrive il dialetto come se…Menarini non fosse mai nato! Scrissi a suo tempo al "Resto del Carlino", facendo notare che il titolo della rubrica affidata a Dino Sarti, (purtroppo scomparso recentemente) e scritto orribilmente così:

Bulàgna tra un sêcol e cl'éter
conteneva almeno 5 errori, poiché secondo me (ma soprattutto secondo il Menarini) avrebbe dovuto essere scritto circa così:
Bulàggna stra un sécol e ch'l'èter

monito che tuttavia non ebbe risposta dal parte del giornale (a dimostrazione che chi è ignorante, di regola, tende a volerlo rimanere!) e le cose sono rimaste invariate.
E ancora, sul Dizionario Vallardi, gli Autori prima si sono dichiarati seguaci menariniani e poi sono andati riesumare un'antica grafia (usata dal Mainoldi 50 anni fa) che sarà anche precisa (sempre che si sappia "quale" sia la pronuncia giusta delle parole!), ma che, inflazionata di una miriade di segni diacritici, è assolutamente ostica per chi (come tutti!) voglia leggere agevolmente a prima vista! Così la penso io, poiché credo che 12 vocali (5 per la sola "a": à,â,ä,å ed a !) siano veramente troppe. Fare differenza fra bän (bene) e bån (buono) sarà giusto, ma anche falso, poiché molti pronunciano "a" in entrambi i casi, tuttavia, se proprio si vuole fare una differenza per "buono", basta usare la "o": Menarini aveva già detto dell'inutilità di conservare segni diacritici ormai desueti anche in lingua. I nuovi Autori, paventando un eccessivo "appiattimento sull'italiano" e citando una frase di Leopardi (recanatese, mi pare, e non bolognese!) secondo cui "il dialetto bolognese avrebbe bisogno di un alfabeto di 40 o 50 o più segni" (sic), non solo hanno ripristinato un accento, ma ne hanno introdotti altri due che italiani non sono mai stati. Infatti io penso che:

1) L'accento circonflesso che esiste in francese in parole di origine latina nelle quali è caduta la "s" (être, êté, âne, ecc.) dovrebbe restare al francese ed indicare quella specifica caratteristica.
2) La dieresi che esiste nella lingua tedesca, serve per indicare (se si trova, ad esempio, sulla "a") un suono tra "a" ed "e" ("e" molto aperta) e perciò, nel nostro dialetto, basta "è" contrapposto a "é" ed "e"!
3) La "pallina" esiste nella lingua svedese e fa pronunciare la "a" come una "o" e perciò bastano le nostre varianti "ò", "ó" ed "o"!

Dunque, perché andarci a complicare la vita? Quanto a vocali bastano le nostre 5, con aggiunte le "o" e le "e" con gli accenti acuto (suono chiuso) e grave (suono aperto), mentre per il resto vale ciò che disse Menarini a proposito dell'UNICO suono bolognese diverso dall'italiano che riguarda l'incontro di una "n" alveolare e di una velare che il Maestro risolse con un semplice puntino sulla "n", ciò che però il mio "computer" non prevede e pertanto io rendo con "n-n"! Inutile ed anche abbastanza ostico da leggere ogni altro "provvedimento" come scrivere "cunpagnì" anziché "cumpagnì" per "compagnia": non solo vorrei sapere chi pronuncia la "n" anziché la "m", ma vorrei anche sapere al lato pratico che differenza c'è tra i due suoni!
Non credo che occorra temere di "appiattirsi sull'italiano" e nemmeno credo che occorra "inventare" una grafia per il bolognese o peggio pensare, come tanti fanno (o almeno facevano), che si debba scrivere "Bulògna" per poi dover leggere "Bulàggna"!). L'italiano (che è la NOSTRA lingua, della quale il bolognese è stretto parente), è nato dopo, ma è stato codificato prima e perciò non vedo niente di scorretto o di sbagliato nell'adottare le sue regole! Anche in italiano c'è chi pronuncia in un modo o nell'altro (ho già fatto l'esempio di "zio" e "zucchero", ma ce ne sono altri!) e pure si sono eliminati tanti segni inutili (accenti circonflessi, "J" lunghe, dieresi, ecc.) e tanti altri che invece sarebbero stati utili, come gli accenti, poiché evidentemente si suppone che i parlanti sappiano la differenza fonetica tra "bòtte e bótte", come anche la grafia di "acqua e soqquadro" senza che si facciano errori di pronuncia e di scrittura. Credo inoltre che non esista un solo dialetto per tutta la provincia: se a Medicina vogliono scrivere e pronunciare il loro dialetto (e già lo fanno) scriveranno e pronunceranno nel modo loro e non nel nostro, poiché il loro è medicinese, non bolognese! Superata è anche la differenza tra i suoni cittadini tra quartieri: ormai la città è invasa da "forestieri" di tutti i generi e queste differenze da molti anni non ci sono più.
Dunque lo ripeto: non complichiamoci la vita, seguiamo l'insegnamento di Menarini e, se proprio vogliamo fare qualcosa, andiamo avanti e non indietro! Non dico che dopo Menarini siano finiti gli studi sul bolognese (per quanto…), ma se il dialetto sopravvivrà, se cambierà, si provvederà a cambiare a suo tempo. Oggi credo che la pronuncia (ed anche la grafia) sia quella del Menarini e nessuno mi venga a raccontare che 100 anni fa il dialetto era tanto diverso da quello di oggi! Lo scrivevano "male" in modo che a leggerlo oggi ci può sembrare diverso, ma io credo che fosse uguale: ho già detto di mia nonna, nata nel 1882, la quale pronunciava esattamente come mio padre (1913) e come me (1939). C'erano allora, tra bolognesi veraci, differenze tipo "andó" per "andé" e "chèsa" per "cà" (ciò che da ragazzo feci in tempo ad udire con le mie orecchie), c'erano termini ormai in disuso come migh, tigh e mille altri, ma erano solo vocaboli (più soggetti a cambiare) e NON differenze fonetiche! La frase del dottor Bartoluzzi, riportata da Menarini e scritta 220 anni fa, oggi, secondo l'attuale grafia, che io ritengo più giusta, si scriverebbe:

Ogne bulgnàis al fà a só mód l'urtugrafì
N'avànd inciónna làzz da tgnìr drì

ma sono pronto a scommettere la pensione che la pronuncia era pressoché identica a quella di oggi! Oltre al fatto che così è molto più facile da leggere!
Confrontiamo l'italiano d’oggi e quello di un secolo fa: a parte vocaboli scomparsi e neologismi, la grafia ci fa supporre che la pronuncia fosse la stessa.Se non è cambiato l'italiano, perché dunque avrebbe dovuto cambiare il dialetto? Se dovessi decidere io (ma se dovessi decidere io, cambierebbero molte cose!), istituirei un'Accademia del Dialetto Bolognese, anche se non necessaria, non sentita e di scarsa utilità.
Lo farei come estremo omaggio ad un dialetto che è stato usato dai miei antenati per quasi 2000 anni e che forse tra 100 anni nessuno parlerà più.
Lo farei come monumento funebre per quella lingua, tutta nostra, che ci ricorda l'infanzia felice, che ci ricorda i discorsi dei nostri cari, che ha accompagnato molti di noi fin qui, con la sua simpatia, il suo sarcasmo, la sua immediatezza, il suo senso di complicità, la sua impareggiabile ed intelligente ironia.Lo farei anche per "dare un taglio" alle fantasie dei "nuovi linguisti", per mettere la parola "fine" all'anarchica definizione del prof. Bartoluzzi, perché la gente la smettesse di scrivere e di dare pareri (come faccio anch'io!), per poter dire "Adesso basta: il bolognese, oggi, si scrive e si pronuncia così!", in modo che coloro i quali ne hanno ancora voglia, potessero tramandare proverbi, parole e quant'altro, e così, in futuro, i posteri saprebbero la realtà delle cose e non dovrebbero faticare come noi che non sappiamo ancora esattamente come pronunciassero i latini, gli egizi e come scrivessero gli etruschi! Credo che Alberto Menarini sarebbe d'accordo con me.
Ho già avuto modo di osservare che da sempre, fino all'era di Menarini, vigeva una convenzione, secondo cui si sarebbe dovuto scrivere in un modo e…leggere in un altro! Gli esempi sono migliaia: si scriveva "donca, Bulogna, louna, seinza, zigar, ecc." per dovere poi leggere: "dànca, Bulàggna, lón-na, sànza, zighèr, ecc." il tutto condito con accenti gravi o acuti messi a caso, con accenti circonflessi, con j lunghe, con consonanti doppie o suoni "-sc", inesistenti nel nostro dialetto e varie follie.
Menarini pose fine a questa anarchia e mise a punto un sistema semplice, ma reale e di facile lettura: peccato che, a pochi anni dalla sua scomparsa, molti lo abbiano già dimenticato (ma forse non lo hanno mai conosciuto!).
Nella lingua italiana esistono regole precise sullo scritto e chi non le osserva è sicuramente ed inequivocabilmente un asino, mentre esistono molte eccezioni sul parlato, perché ognuno è influenzato dal dialetto della sua terra: come ho detto prima, un meridionale anziché "psicologia" oppure "interpretare" dirà "pisicologia" e "interpetrare", un sardo anziché "interpretato" dirà "interpretatto", mentre per "atmosfera" il milanese dirà "anmosfera", per "ottantotto" il veneto dirà "otantoto", per "ragazzo" il bolognese dirà qualcosa di simile a "ragasso", per "comprare" il toscano dirà "homprare" e tantissimi "errori" di pronuncia i quali ci fanno capire la provenienza di molti parlanti, non appena aprono bocca! Questo succede per l'italiano e per tutte le altre lingue, che pure hanno delle regole ben precise, figuriamoci cosa succede nei dialetti dove non ci sono nemmeno quelle!
Approfittando del fatto che non c'è nulla di prestabilito, né su come si debba scrivere, né su come si debba pronunciare correttamente, molti “imbroglioncelli” si spacciano per "intenditori" e cercano di dare validità ai loro strafalcioni: ci riescono con i più sprovveduti, ma non con chi bolognese lo è per davvero: per nascita, per tradizione, per pratica dialettale quotidiana e per studio! Ho assistito ad una commedia in dialetto, nella quale il "regista" pretendeva che gli "attori" dicessero "sgnèr" anziché "sgnàur" (signor), come peraltro mia nonna ha sempre detto. Ho assistito ad un penoso notiziario TV in dialetto, dove il lettore salutava gli ascoltatori con un antiquato "tersuà" (=torsùo=servitor suo), un saluto forse usato nel XVIII secolo, ma ormai scomparso!
Parole che suonano inutilmente ricercate e forzate,una mania di voler apparire "pratici del dialetto", quando invece non lo si è affatto. Basti pensare alla pronuncia incerta ed inesatta sia degli attori di quella commedia, sia del lettore di quel notiziario TV! Dubbi sulla fonetica, in mancanza d'antiche registrazioni, nascono leggendo lavori di 100-150 anni fa che farebbero presupporre mutazioni sensibili della pronuncia, quando al contrario e, più verosimilmente, si tratta di grafie errate, antiquate e superate che ci portano a leggere in un modo, mentre invece il dialetto parlato è praticamente lo stesso, oggi come allora. Certo, qualche vocabolo è andato in disuso e qualche neologismo è entrato in vigore, ma i "suoni" del dialetto sono certamente gli stessi! Prendiamo, ad esempio, quelle (per me bellissime) poesie di Testoni che, altrove, mi sono divertito a presentare in triplice versione: come sono state scritte, come si scriverebbero oggi e come suonano tradotte in italiano e vediamo di fare qualche considerazione:

a) noto che "Foj ch’croden" e l'altra intitolata "All'ustarì", entrambe da me attinte alla stessa fonte, sono scritte in modo diverso da "La mort dla mama": le prime piene di "j" e di consonanti doppie, l'altra piena di accenti circonflessi e nessuna "j", segno evidente che qualcuno ha voluto metterci del suo nel trascriverle, così ora non sappiamo quale sia la grafia originale che usò Testoni! In ogni caso tutte e tre sono scritte con grafie che si scostano sensibilmente non solo dalla pronuncia di oggi, ma presumo anche dalla pronuncia di allora.
b) la trascrizione da me fatta, il più aderente possibile alle regole del Menarini, è molto più facile da leggere (cosa che mi hanno confermato molti lettori) e molto più vicina a quella che dovrebbe essere la pronuncia "vera".
c) la traduzione in italiano è un gioco che mi sono permesso di fare il quale è utile, ma bugiardo: utile per far capire il senso ai forestieri e a quei bolognesi che non sanno più il dialetto; bugiardo, perché nessuna lingua sarà mai perfettamente traducibile in un'altra, poiché ogni lingua ha un'anima intraducibile e l'anima bolognese resta tra i versi scritti in dialetto e non va ad animare per nulla quelli scritti in italiano.

Ma gli esempi non finiscono qui. Un tempo Bologna era divisa in quartieri in perenne lotta tra di loro ed abitati da gente che sentiva l'orgoglio di far parte di quella comunità, ciò che impediva mescolanze d'ogni genere, anche dal punto di vista linguistico, tanto è vero che esistevano vocaboli e modi di pronunciarli che erano tipici del Borgo o del Falcone o di Gatta o delle Casse o di altri quartieri. I Quartieri d'oggi sono cosa ben diversa e i vecchi non esistono più, se non nei nomi delle strade o nel ricordo dei più anziani, ma certamente non esistono più differenze di vocaboli o di pronuncia tra un quartiere e l'altro, tanta è stata l'immigrazione di non bolognesi e la guerra al dialetto per tutto il novecento! O meglio, una differenza resta ed è il dialetto di città (quello parlato da bolognesi veraci, come mio padre, come me e NON come i miei figli e i miei nipoti!) e quello parlato anche solo a Castenaso, a Castel San Pietro, dai discendenti dei nativi e non certo dai bolognesi che vi si sono trasferiti, per non parlare poi di quello parlato a Medicina (che è un dialetto a parte) o ad Imola (che è romagnolo)!
Ne ho avuto la prova di recente, quando un amico di Castenaso mi ha invitato ad aiutarlo a registrare la versione bolognese di un noto pezzo americano e mi ha chiesto di correggerne il testo: ebbene, mi sono reso conto che ad ascoltarlo poteva sembrare lo stesso dialetto, ma a vederlo scritto sono emerse notevoli differenze, una per tutte quel "masadùr" (macero) che noi bolognesi chiamiamo "masnadùr"!
Pertanto, anche se non esistono più differenze "cittadine", persiste la differenza tra il dialetto di Bologna e quello dei Paesi della sua provincia, perciò sbaglia chi intende per "dialetto bolognese" la parlata di tutta la provincia, come è sbagliato che un non- bolognese scriva un libro o faccia una conferenza su un dialetto che non è il suo oppure che voglia spacciare per bolognesi certi vocaboli che sono prettamente campagnoli! Ognuno dovrebbe parlare il proprio dialetto e lasciare il bolognese ai bolognesi. In materia di lingue e dialetti la gente (per ignoranza) incorre spesso in grossolani errori del tipo:

1) il dialetto è una corruzione della lingua (sbagliato: il dialetto è nato prima e la lingua è una convenzione che è venuta dopo).
2) i dialetti settentrionali risentono dell'influenza francese o tedesca (pure sbagliato: essi sono all'85-90% puro latino con inflessioni locali che hanno a che fare con le invasioni barbariche, ma non con altre lingue).
3) i dialetti sono volgari e l'italiano è "fine" (sbagliato: è vero che i dialetti sono lingue popolari e non certo raffinate, ma una parolaccia in dialetto è sempre molto meno volgare della sua corrispondente in lingua).
4) il toscano è la vera lingua italiana (niente di più falso: il toscano è un dialetto come un altro, il quale anzi contiene forse meno latino di tutti gli altri. E poi la lingua italiana, prima di venire perfezionata in Toscana, ha avuto origini siciliane e poi elaborazioni bolognesi!).
5) i dialetti italiani sono circa un centinaio, cioè circa uno ogni provincia (grande errore: sono forse 700, forse 1000, poiché all'interno di ogni provincia convivono molti dialetti, forse simili tra loro, ma diversi).

Se nessuno avesse stabilito come si scrive e come si legge l'italiano (ciò che ha avuto e avrà diversi aggiustamenti nel tempo, ma che da secoli è regola inequivocabile), ancora oggi esisterebbero sostanziali differenze tra le varie città, noi italiani finiremmo per non capirci più tra di noi e… andrebbe a farsi benedire lo scopo per il quale l'italiano è nato! Questo stesso malinteso esiste nel nostro e in tutti i dialetti, proprio perché molti hanno provato a scriverli, ma nessuno ha mai potuto o voluto stabilire come si debbano leggere e come si debbano scrivere correttamente. Farlo oggi sarebbe forse inutile ed è certamente troppo tardi e perciò siamo costretti a tenerci questa "patata bollente" e a passarcela tra di noi!
Il problema resta aperto, ognuno scriverà e pronuncerà come ha imparato da mamma, ma una cosa dovrebbe essere importante: dovremmo avere rispetto del dialetto, se non altro perché è stata la lingua dei nostri antenati, perché è il terreno in cui affondano le nostre radici e perciò dovremmo evitare di stravolgerlo, di aggredirlo con inesattezze e neologismi, dovremmo chiamarlo con il suo nome e perciò chiamare "bolognese" solo quello che si parla a Bologna!

Paolo Canè