martedì 30 settembre 2008

LA “ESSE” RACCONTA (parte 4 - ultima)

VARIAZIONI, a proposito di quanto ho appena detto, chiamo con questo nome diversi termini che il Mainoldi (ed altri) riporta in un modo, mentre io (ed altri ancora) ho sempre sentito in modo diverso. Si tratta di termini che farebbero parte di tutte le tre categorie fin qui indicate, ma che qui sono ovviamente insieme.

Sràin, sereno, ma io ho sempre detto e sentito S’ràggn, così come Ràggn (il Reno)
Sàin, seno, idem come sopra, quantunque raro, Sàggn. Ora per tutti è Pèt.
Sdarén-na, spazzola, più comune Z’darén-na
Sàuvra, sopra, si sente ancora, ma per quasi tutti è Sàura (però è meglio “in vàtta”)
Sbulgnèr, sbolognare, per me Sbulugnèr.
Sburgióll, vino leggero, che tutti chiamano Sbargióll
Scabuzèr, inciampare, Scapuzèr
Scanzì, scaffale, Scansì
Scièr, Scièlpa, Scimiót, Sciólt, Sciuchén (sciare, ma era più bello “sblisghèr”, sciarpa, scimmiotto, sciolto e schiocchino), queste ed altre sono tutte parole scritte con la “sc” che, come già detto, in bolognese esiste solo in due-tre casi, mentre in tutti gli altri si usa la nostra particolare “s” semplice. E questo Mainoldi lo sa, poiché più avanti riporta anche Simiót e altre parole simili, come Séna, scena; Siàl, scialle, ecc.!
S’ciàvvd, insipido, è una delle tante parole chi certi dizionari riportano sotto –ds: forse era quella la grafia iniziale, ma, come Menarini giustamente insegna, oggi è chiaramente “s’c” o “c’c” (S’ciarìr, rendere chiaro; C’càrrer, parlare, ecc.).
Spécch (citato anche come Dspécch), staccato, idem come sopra, cioè: C’pécch!
Scramazól-Scrumazól, capitombolo, che io conosco come Scarmazól.
Scumplózz, scampolo, residuo, Scamplózz
Sfiópla, vescica, che moltissimo pronunciano Sfialópla.
Sgarmiè, spettinato, ma io, come già detto altrove, ho sempre udito Sgramgnè.
Sgnàur e Sgnér, signor (anche al femminile). E’ una vecchia diatriba tra chi vorrebbe mantenere l’antico Sgnér (almeno davanti al nome), mentre oggi tutti dicono Sgnàur in ogni caso. Probabilmente il Sgnèr corrisponde al romanesco “Sor”.
Sgumtè, gomitata, oggi Sgumdè, così come Gàmbd (gomito) è diventato Gàmd.
Silé, gilet, forse forma antica per l’attuale Gilé.
Simpàtich, simpatico che convive con Sempàtich (Mainoldi li cita entrambi)
Singiàtt, singulto, per tutti Zingiàtt, forse per assonanza con Zéngia, cinghia.
Slèpa, schiaffo, ma mi sembra troppo…milanese. Preferisco il bel Smataflàn!
Sluchèr, lussare, ma per tutti è Slughèr, infatti il raro “luogo” fa Lùgh.
Sméca e Sméco, citati per belletto, cosmetico. Io l’ho sempre udito solo al maschile Sméco, per indicare un “non-so-ché”, uno spunto atto a migliorare, a rifinire.
Sóvver, sughero è forse antica denominazione dell’ormai diffuso Sógher.
Spànt e Spàult, rafforzativi per “imbariègh” o “móii”, ma il secondo è più diffuso.
Sfùgh, sfogo, che però nessuno usa più a vantaggio di Sfógh.
S’pdèl e S’pducèr (ospedale e spidocchiare), oggi S’bdèl e S’bducèr (anche se i pidocchi non ci sono quasi più), tuttavia Mainoldi li cita entrambi.
Starlén-na e Sterlén-na, viene fatta una distinzione tra la prima (stellina) e la seconda (sterlina): può darsi che sia giusto, ma io nutro qualche dubbio.
Stiàvo e Stiévo, citati entrambi per il colloquiale “basta, nient’altro”, ma io ho sempre udito soltanto la seconda forma “ai ò dezìs acsé …e stièvo!”, simile a “…e ciao”.
Stranùd, sternuto, Starnùd, come accaduto anche in lingua tra spengere e spegnere.
Sufà, sofà, ma io ho sempre e soltanto udito Sofà, come in italiano.
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E’ molto probabile che tante parole abbiano avuto un’antica pronuncia e grafia, poi cambiata col tempo per appiattimento sull’italiano ed è un vecchio discorso già fatto mille volte: il dialetto cambia ed ognuno parla quello del suo tempo!
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APPENDICE a questo capitolo è la lista dei seguenti vocaboli (sempre nell’ambito della lettera “esse”) che non sono citati nel Mainoldi, ma che sono ancora in gran parte vivi ed io stesso li cito nel mio trattato “Voci caratteristiche Bolognesi (1992)”. C’è di tutto: termini obsoleti, campagnoli, tipici e contestati ed è molto probabile che non siano stati inseriti in questo dizionario, poiché recenti o gergali o anche volgari, ciò che probabilmente l’Autore ha volutamente evitato. Però molti sono ben vivi e quasi universalmente usati. Sarebbe impossibile elencarli tutti, come è difficile fare un dizionario che contenga tutte (ma proprio tutte!) le voci del bolognese, tuttavia ne ho scelta un’ottantina in rappresentanza degli altri.
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Sàbla, sciabola
Sagatèr, scompigliare
Saiàn e Saiandàn, sciattone
Sampagnàn, sbruffone, bisbocciane (Champagne)
Sbaitìr, morire
Sbémbel, cosa flaccida
Sburnisèr, cuocere sotto la cenere, andato in naftalina con…la cenere!
Sbuvazàn, grassone, ma anche poco abile al gioco (da “buàza”=sterco bovino)
Scagaién, piccola quantità o persona bassa (termine non molto raffinato)
Scaièr, non cogliere nel segno, mancare, termine portato anche nel nostro italiano
Scalzacàn, detto di persona non professionale, specie ad un medico
Scapadézz, viscido (famosa è la “pràisa scapadézza” di un portiere che subisce gol)
Scaravànt, acquazzone, forte colpo di vento, ma anche una moltitudine di cose.
Scarpazèr, gergale per ciabattare (a sént bèle scarpazèr, per chi sta arrivando…)
Scarpinèr, gergale per camminare (scarpén-na pr’ì tù vìsi, va’ per i fatti tuoi)
Scartén, chi è scartato (leva) o una carta di poco valore alla briscola.
Scavàzz, il retro-fianco ben modellato d’una donna, contrapposta ad una Spiulè!
Schèv’tlà! Togliti di torno.
Sclémm o il più raro Sclébbi, per definire una grande quantità
Scràvvel, tipo di saggina (al gàmb ed scràvvel, sono sottili e deboli)
Scufiót, bel termine che rende il rovesciare qualcosa in testa a qualcuno. Scappellotto o qualcosa di simile allo Scabóff, pure citato dal Mainoldi.
Scurzén, pernacchia
Scutmài, arcaico per indicare il soprannome.
S’dàssd o meglio Z’dàzzd, sveglio ed è corrispondente di “desto”.
Sfighè, sfortunato, ma anche poco abile o anche disgraziato nel fisico.
Sfitladàura, affettatrice, ormai in disuso a favore dell’orrenda Afetatrìz!
Sgaitón (ed), di soppiatto “l’é arivè ed sgaitón”
Sgambózz (in), ormai raro per definire chi è senza calze
Sganapèr-Sganasèr, mangiare avidamente (da cui forse la maschera Sganapén)
Sgaróffla, altro termine per la buccia di cipolle o agli, ma anche per la roba da poco
Sgasèr, dare gas, entrato in uso con le moto “l’à dè una fàta sgasè!”
Sgaitèr, districare i capelli (che erano sgramgnè!)
Sghérel, parola “di nicchia” che indica il fischio per le allodole
Sgnifulèr, piagnucolare, ormai sostituito da “gnulèr, fèr d’la gnóla”
Sgnófla, una qualsiasi cosa di grosse proporzioni (dal latino “offula”)
Sgrandigiàn, sbruffone
Sgrugnàn, uno dei tanti termini per indicare un pugno in faccia (int el gróggn)
Sinifìni (un), un sacco un mucchio, storpiando il latino “sine fine”= senza fine
Slànz (omografo di slànz=slancio), significa di qualità scadente (latino: lonzus?)
Slimèr, ciondolare, esitare, lesinare
Slimunèr, pomiciare, ma è preferibile il petronianissimo Cipulèr!
Slusnè, lampo, il Mainoldi cita Lusnè, ma è più comune con la “s” iniziale.
Smarlitèr, ha vari significati: il più usato è lo …“sfanalare” delle automobili
Smulàdgh, molliccio, flaccido
Smurfìr, gergale per mangiare, come Cubièr (dormire), Buschìr (defecare) e tante altre voci: Strìsi (pane), Stufilàusi (tagliatelle), Stafèl (formaggio), ecc.
Snibièr, piovigginare di nebbia (Cróder), ma anche sbrinare i vetri dell’auto
Snécch, persona difficile nei gusti a tavola, termine simile al citato Suféstich.
Sócc’mel, è il classico “scibboleth” bolognese: quando sparirà, spariremo noi!
Soquànt, alcuni (forse da “non so quanti”), che molti si ostinano a scrivere Socuant.
Sparghlén, l’aspersorio (al sparghlén dl’àqua sànta è colui che paga per tutti)
Spastè, è chi non è in forma (incù a sàn spastè)
Spatachè, spiattellato, ma anche una gran botta (una gràn spatachè par tèra)
Spianères, l’avverarsi (di un sogno), ma è termine antico
Spipaièr, fumare, fumacchiare detto in senso ironico
Sprasulè, sfilacciato, detto di una sottana (i prasù d’la stanèla)
Sp’titè, raro per indicare chi non ha appetito
Spulétt, così al plurale, indica i lacci delle scarpe (del singolare ho già detto)
Stimères, darsi delle arie (ignurànt e pò…stémmet!)
Stlón, specie di paletti, ma anche squadra di calciatori “macellai” (vedi: stlèr)
Strapì, termine arcaico per indicare una rovina
Strazabisàch, in fretta, grossolanamente (magnèr a strazabisàch)
Strìguel, poco usato per il grasso di budella di maiale
Sufitót-Sufitàn, altro termine per indicare un pugno in testa
Svarslèr, fare urli, gridare
Svàttla, botta, schiaffo, colpo
Svìdria, gelata specie nelle strade d’inverno. Poco usato
S’zarvlères, scervellarsi, a ulteriore dimostrazione che la “sc” da noi non esiste!

***

Come dice il titolo, mi sono riferito, in questa ricerca, alla sola lettera “esse” che costituisce quasi il 20% dei vocaboli, più o meno in ogni dizionario. Credo che il fatto sia dovuto a due motivi:
1) perché probabilmente accade lo stesso anche in italiano
2) perché in bolognese spesso prendono la “s” rafforzativa molte parole che esistono anche prive di “s” (vedi il caso di Lusnè e Slusnè).
Se avessi la pazienza di esaminare tutto il dizionario, credo che il risultato della divisione dei vocaboli nelle quattro categorie sarebbe lo stesso, soltanto che sarebbe almeno cinque volte superiore nel numero. Ma credo che non lo farò: questa ricerca sulle parole che iniziano per “esse” basta e avanza per rendere l’idea.
Quanto ai molti lemmi che mancano nel Mainoldi, il motivo l’ho detto all’inizio, e cioè che questo è un dizionario molto succinto. Altri dizionari li indicano tutti e molti altri che magari io non conosco ancora: uno su tutti è forse il più completo, e anche antico, cioè il Coronedi-Berti, il quale però ha il “difetto” di riportare una grafia ormai arcaica, oltre che non del tutto esatta, poiché superata da studi più recenti.
Voglio infine ricordare ciò che ho già ripetuto fino alla noia quasi in ogni capitolo che ho scritto: un idioma come il dialetto, che ha dizionari, ma che non ha regole né di grafia, né di pronuncia, è suscettibile di mille e mille variazioni in moltissime parole, poiché esse sono affidate alla fantasia di ogni parlante e di ogni scrivente. Perciò ogni “novità” che arriva in un contesto senza regole viene accolta senza che debba essere respinta (come accade per una lingua ufficiale) e senza sostituire la parola usata in precedenza. Viene semplicemente aggiunta ed accettata come variazione, non solo, ma nel dialetto convivono parole vecchie e superate con neologismi, parole di città e parole di campagna e pertanto sbaglia chi crede di avere in mano l’unica verità, semplicemente perché le verità sono tante!
Se poi un giorno qualcuno sarà incaricato di fare le regole (cosa che difficilmente potrà accadere!), allora si potrà fare una grande pulizia e lasciare in un dizionario solo i termini che sono ancora vivi oggi (e non ieri), a Bologna (e non in provincia).
Nel frattempo è meglio limitarsi, come ho cercato di fare io, ad elencare tutte quelle parole che secondo me, sono obsolete, campagnole, tipiche, discutibili o mancanti, consci però che il tutto resta…discutibile! E per fortuna che ho parlato solo delle parole che iniziano con la “esse”!
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Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 25)

Dìn dàn dìn dón,
la campèna di frè Simón,
tótt i dé i la sunèven,
pàn e vén i guadagnèven,
guadagnèv’n un pèr ‘d capón
da purtèr ai sù padrón,
i sù padrón in i éren brìsa
i ér’n invézi ed dàpp a l’óss
a taièr ‘gli uràcc’ dal cócch,
cocco cocco malandrén,
dà la vólta al tó mulén,
dà la vólta al tó canèl
ch’ai ò trài pótti da maridèr
ónna cùs e pò la tàia,
ónna fà i caplén ed pàia,
ónna fà i caplén ed spén
da dunèr a Luvigén.
Luvigén l’é tànte b’lén,
l’à una rósa int al caplén,
l’à una rósa ch’l’é un bèl fiàur,
vàddel là ch’al fà l’amàur.


***

Dìn dón la tràmba l’é ràtta,
dìn dón fàla aiustèr
dìn dón ai vól di denèr
dìn dón vindì la gàta
dìn dón a l’ò vindó
dìn dón cus’èt ciapè?
dìn dón ai ò ciapè una rósa
dìn dón duv’èt la rósa?
dìn dón a l’ò dè a la spàusa
dìn dón duv’èt la spàusa?
dìn dón l’é in camaràtta
dìn dón ch’sa stèla a fèr?
dìn dón la si fà bèla
dìn dón dùvv’èla él b’làzz?
dìn dón l’ai à strà ‘l tràzz.


***

Suladén bendàtt,
fécca fóra trài bacàtt :
ónna d’ór, ónna d’arzànt,
l’ètra ch’fàga v’gnìr bàn tàmp.

(vedi versione più completa a pag. 35)
-
Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 24)

Questa verrebbe da Zola Predosa:

A lèt a lèt a vóii andèr,
tótt i sànt a vóii ciamèr,
trì da có e trì da pì,
tótt i sànt i én mì fradì.
Al Sgnàur l’é al mì bàn pèder,
la Madóna la mì bóna mèder,
san Zvàn l’é al mi bàn parànt,
a spér d’andèr a lèt sicuramànt.
Sicuramànt ai andarò,
gnìnt’ed brótt am insugnarò,
se par g’gràzia an me livéss
l’anma mì a Dio a la làs
e a prégh l’Ànzel San Michél
ch’a la métta a salvaziàn,
sia bendàtta ‘st’uraziàn
e chi m’l’insgné.


***


Sàn-na un’àura a la Zartàusa;
sàn-na él dàu, a li ò sintó;
sàn-na él trài, i én arbató;
sàn-na él quàter a san Iàcom;
sàn-na él zéncv a san Iazént;
sàn-na él sì a san Matì;
sàn-na él sèt a san Iusèf;
sàn-na égli ót a san Iób;
sàn-na él nóv a san Pól;
sàn-na él dìs al Paradìs;
sàn-na égli óng’ a l’Uservànza
sàn-na él dàgg’ a la pórta Sànta.
Cuss’é mai tótti ‘st’égli àur?
Cuss’é mai tótt quànt ‘sti dé?
La Madóna l’à parturé,
parturé un bèl bambén
biànch e ràss e rizulén.
La Madóna l’ai dà la póppa
pò al le métt int una gróppia.
Con il latte di Maria
san Giuseppe in compagnia.

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(Certi passaggi non sono sempre molto chiari!)
-
Paolo Canè

SECÀND I GÓST (n. 178)

"Di' só, cùm'éla a lèt tó muiér?"
"Mó? Ai é ch'in c'càrr bàn e ai é ch'in c'càrr mèl…"

EDUCAZIÀN 2 (n. 177)

Int una famàiia d'ignurantón, ai vén a d'snèr l'ambràus d'la fióla e lì las archmànda che tótt i c'càrren pulìd, sànza volgaritè. Int al silànzi generèl, al và incósa bàn pr'una mez'àura, po', quànd à la mèder ai càsca un piàt par tèra, al pèder l'à un scàt ed narvàus incontrolàbil e al sèlta só:

"Dì' só, cus'èt, al màn ed mérda?"
E al nón: "Da ch'la vì ch'a se c'càrr ed mérda, chi é ch'as é spazè al cùl coi mì calztén?".

LA RÉMMA 1 (n. 176)

A scóla al màster al d'mànda ai sù ragazù al nómm ed trài zitè chi finéssen par "-ul". As lìva in pì Dante, ch'al dìs: "Liverpùl".
"Béne".
E pò Fausto: "Istanbùl".
"Bràvo".
E pò Pirén: "Busdalcùl".

Alàura al màster a gli dìs:
"An l'ò mai sintó ch'la zitè lé. Sèt dìrum par chès dùvv'l'é?"
"Própi ed prezìs, an al so brìsa, mó l'an à brìsa d'èser dimóndi luntèna, parché quànd mi pèder al dìs ch'al và a bùs dal cùl, al sta vì póch!".

lunedì 22 settembre 2008

LA “ESSE” RACCONTA (parte 3)

TIPICI, chiamo così quei termini che sono tipici e rappresentativi del nostro modo di essere bolognesi. Purtroppo alcuni di essi sono già in via di sparizione, ma molti altri sono ancora vivi e vegeti. Diversi sono anche tradotti nel nostro italo-bolognese che comprendiamo solo noi. Sono parole che dovremmo cercare di conservare più a lungo possibile, poi sarà quel che sarà (italiano o peggio inglese o arabo!).
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Sacàn-na, giacca (proveniente dal gergo)
Sàcch e Saràca, entrambi per definire un individuo magro (sàcch stlè=magrissimo!).
Saguaièr, sciacquare, ma per il bucato vale Arsintèr
Salghè, Salghén, la seliciata e chi la fa.
Salén-na, il sale fino, che a Bologna chiamiamo tutti “salina”
Sanmichél, trasloco (in passato avveniva nei due giorni dedicati al Santo)
Sandràn, persona sguaiata o malvestita (dalla maschera modenese)
Sanguàttla, sanguisuga, mignatta, ma anche persona molto svelta e sfuggevole.
Sàntel-Sàntla, padrino e madrina
Santificétur, spesso storpiato in Santavicéta, se è una donna che fa la santarellina
Saràf, chi fa il finto tonto
Sàrrel, sedano, (plur: Sérrel=gambe molto magre)
Sbagérla, persona da poco o donna poco seria
Sbagiózza, merce di poco valore
Sbalérz, storto, sbilenco, ma anche strabico (l’à un óc’ sbalérz)
Sbandéren, una moltitudine, ma anche persona irrequieta e sempre in moto
Sbarlucèr, guardare di nascosto, occhieggiare
Sbatrì ‘d màn, applausi
Sbiàvd, sbiadito, pallido
Sbindlón, penzoloni
Sbisachè e Sbruzè, una moltitudine (tascata e barrocciata)
Sblisghèr e Sguilèr, scivolare, ma il primo significava anche “sciare”
Sbózz, abilità nel fare, talento
Sbraghiràn-Sbraghiràn-na, ficcanaso, impiccione (lui e lei)
Sbrudaiàn, brodolone, chi si sporca mangiando
Sburd’lèr, scherzare, giocare anche di cani
Sburzigh’lén, pizzicore, formicolio, uzzolo
Sbutinfiàn-Sbutinfiàn-na, grassone, ciccione (lui e lei)
Scabóff, scappellotto
Scagàza, paura
Scàia, donna di malaffare
Scalestrè, mal in arnese (di cosa e di o persona)
Scarnécc’, persona piccola e soprattutto magra
Scavzarì (ed gàmb), tremore delle gambe per la paura
Scóffia, cuffia, ma anche cotta, innamoramento
Scudóz, coccio, ma anche apparecchio o macchina antiquata e malmessa
S’fón (meglio Sc’fón), scoffoni, calzerotti, voce gergale, ma simpatica! Insieme a Scialèti, detto di persona con spiccata pronuncia bolognese (non citato dal Mainoldi) sono forse le sole parole che si scrivono con la “sc-“. Per tutte le altre basta la “s”!
Sfrumblàn, persona che è sempre in giro o in viaggio
Sgablànt-Sgablànta, testimone di nozze (forse da “sgabello”)
Sgadézza, segatura (spesso usata nella parola “avàir al zarvèl pén ed scadézza”)
Sgaligén, persona elegante, spesso detto anche in modo ironico.
Sgaramóffla, forfora, ma ormai usato pochissimo
Sgarlatón, garretti, parte inferiore delle gambe (drì ai sgarlatón = molto vicino)
Sgavagnères, cavarsela
Sghéssa, grande fame
Sgranfgnót, graffio, parola simpatica come tutti i diminutivi in “-ót”
Sguazén, godimento, spesso usato anche per dire il contrario “un bèl sguazén!”
Sgudàvvel, persona poco simpatica e non incline allo scherzo
Sguéggn, scivoloso, flaccido, molliccio
Simitón, complimenti in genere falsi di chi ostenta di non volere ciò che vuole!
Sladinèr, rodare, ma ormai sostituito da Rudèr
Slapazócch, testone o austriaco (nell’800 erano la stessa cosa!)
Smalvén, svenimento
Smanàzz, agitazione, euforia
Smàs, palmo (unità approssimativa di misura)
Smincèr, andare forte
Sóii, fango (parola bellissima come Rósch=immondizia)
Soncamé, sicuro, certamente, interiezione ormai solo degli anziani
Spàgna, erba medica
Spanézz, generoso, ma più spesso detto ironicamente a un finto generoso
Sparadèl e Spuntéren, due parti della scarpa (fóra dal sparadèl= fuori luogo)
Spéppla, bambina vivace
Spianèr, indossare per la prima volta (nessuno a Bologna userebbe mai “rinnovare”!)
Spinèl, tubo per annaffiare
Spisài, getto proveniente da tale tubo o altra sorgente
Splàddga, tessuti connettivi della carne macellata, ma anche la “ciccia flaccida”
Spomèti, tipo azzimato e impomatato: cognomizzazione di un aggettivo ironico come Schicchiruti, chi beve troppo (qui non citato), il già nominato Scialèti, Bragalduti,ecc.
Spónt, il gusto acido del vino
Sprócch, rametto pungente, come anche Sprucài, Sprucaién riferiti a ragazze carine
Sprunèla, rotella per tagliare la pasta (per tortellini, lasagne, ecc.)
Spulvràz, polverone: tipica espressione petroniana (italo-bol: spolverazzo).
Spunciàn, oggetto puntuto, usato anche per vezzeggiare i bambini
Squaiarót, piccola quaglia, ma anche persona piccola di statura
Squàlla (in), all’erta, trovato anche scritto “quàlla” e “s quàlla”. Ormai raro.
Squaquarèla, dissenteria, come anche Squézz, Cagàtta, Cagarót e via… dissentendo!
Squizàn, chi non sa tenere i segreti, mentre Squizòt è uno dei tanti bei termini in -ót.
Squès (più usato al plurale Squèsi), false moine, atteggiarsi in maniera affettata.
Squèsi, per alcuni vale “quasi”, ma io ho sempre sentito dire Quèsi!
Squénzia, la donna che si dà delle arie.
Stabièr e Stlèr, tagliare con l’accetta, fracassare, oltre al bel detto “mègher stlè”.
Satiózz-Staiuzèr, ritaglio, tagliuzzare
Stànch e Drétt, non stanco e dritto, ma sinistro e destro (oggi ormai: Sinéster, Dèster)
Stecadànt, originale e primitivo per “stuzzicadenti” col plurale in Stecadént.
Stianchèr, rompere (stianchèr incósa, tipico bolognese per “rompere tutto!).
Stiàpa, natica, ma anche chi non è abile, come Bróch, Trésst, Sbuvazàn, ecc.
Stiatén, bellissimo per “spruzzo”, invariabile al plurale.
Stièr, lavandino di cucina: di chi ha tutto si dice “lulé l’à al césso e al stièr in cà!”
Stiópa, doppietta da caccia, al femminile, mentre Stióp è un normale fucile.
Strafugnèr, sgualcire, ma anche per affettuose effusioni
Stralanchè, sciancato (di persona), ma anche traballante di automezzo o altro
Strambóc’, errore grossolano nel parlare, come anche il citato Balàn (plur: Balón).
Strà-Stramèz, tra, fra: simili rispettivamente all’inglese “between” ed “among”, ma Trà, come l’italiano, è ormai usato anche da chi crede di parlare bene il dialetto!
Strangusèr, tossire, quasi affogarsi.
Strasinèr, bellissimo per “sciupare”,ma ormai i giovani non lo usano più, come anche
Strécch e Strézz, rispettivamente “difficile respirazione” e “irritazione cutanea”.
Stricàtt (pl: Strichétt), tipo di pasta a forma di farfalla (“stretti” al centro)
Striflèr, stritolare (specie tra la folla o in autobus), bello ma ormai al tramonto.
Stuchè, stoccata, cioè battuta o insinuazione velenosa.
Stupài, tappo e Stupaién, vezzeggiativo per un bimbo. Oggi c’è l’orrendo “Tàp”.
Sturnèl, uccello, ma si dice di uomo alto e prestante
Susinèl, idem come sopra, ma io ho sempre sentito Susanèl!
Suféstich, bellissimo e ormai raro per chi è di gusti difficili.
Sulfanèr, rigattiere, poiché una volta vendeva anche i fiammiferi (Sùlfen).
Suzizèr, verbo ormai raro per indicare chi pronuncia male la “s” (…a proposito di “s”!)
Svultères, coricarsi, ormai quasi del tutto scomparso a favore di “andèr a lèt”.
A questo proposito ricordo che, come in molti altri casi, c’è chi scrive e chi pronuncia “svultères” e chi “svultèrs”: una delle tante ambiguità poiché non ci sono regole!
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(segue)
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Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 23)

Ecco una serie di ninne nanne e filastrocche:

Dirlindén-na pàn gratè,
mitìm a lèt ch’a sàn malè,
dèm un óv e una galén-na,
ch’a faràn la dirlindén-na.

***

Nàna ninàna,
chi fìla e chi dipàna,
chi fà di gumisì
chi lavàura con i pì.

***

Fà la nàna, fàla dànca,
al tó bàb pórta la cànca,
al la pórta só una spàla,
ch’al vól fèr una muràia,
al la pórta só un galàn,
ch’al vól fèr un muraiàn.

***

Fà la nàna la mi bèla,
l’é trài àur che màma brèva,
se la brèva l’à rasàn,
lì la v’révv ch’a fóssi bàn,
lì la v’révv ch’a féssi nàna,
fàla, só, pinén d’la màma.

***

Fà la nàna, fà ‘l nanén,
fà la nàna al mì fangén,
fà la nàna, fàla tótta,
fàla infén che màma é stóffa.
Fà la nàna, fàla pùr
ch’andaràn a lèt al bùr
con la lómm sànza stupén
fà la nàna al mì pinén.

***

Fà la nàna e fàla tótta,
fàla infén ch’la màma é stóffa,
fà nanén e fà cucù,ch’andaràn pò a lèt tótt dù.
-
Paolo Canè

AL CURÀG’ (n. 175)

Un cazadàur al cànta el sàu aventùr d'l'Àfrica:

"Una vólta sàul am la sàn véssta brótta" al dìs "Al fuséll l'éra vanzè in vàtta al càmion, mé ai éra a pì, disarmè, quànd ai sèlta fóra un leàn ch'als métt a córrum drì e mé vì 'd vulé vérs un àlber! Al stèva bèle par ciapèrum, quànd, par furtón-na, l'é sblisghè e acsé mé ai ò psó arapèrum só par l'àlber!"
"T'è avó un bèl curàg'" a gli dìs un amìgh "Mé al tó sìt am sarévv caghè adós".
"Parché, in vàtta a cósa cràddet ch'al sèppa sblisghè al leàn?".

ORGANIZAZIÀN (n. 174)

Un tìzio l'invìda un amìgh a fèr un'amucè: "Dài vén ch'as divartàn: i òmen i én tótt amìgh e el dón égli én un spetàquel!".

Al le cunvénz e i vàn int la cà d'ón, dùvv ai é una fèsta: i én tótt nùd e i dù is càzen in mèz à la móccia! Ogni tànt as sintèva a dìr: "Bisàggna organizères!" e dàpp un pó: "Bisàggna organizères!". L'éra l'invidè e l'amìgh a gli d'mànda:

"Ch'sa vùt dìr con organizères?"
"A vóii dìr che int un'àura ai ò tuchè apànna dàu tàtt, mó a l'ò bèle ciapè int al cùl trài vólt!".

AAAAAAGH !! (n. 173)

Un cazadàur bulgnàis ch'l'éra stè a càzia in Àfrica, al cuntèva ai amìgh una brótta aventùra:

"Ai éra da par mé int la forèsta e a sént móver el fóii, a prepèr al fuséll e infàti ai sèlta fóra un leàn, ch'am vén adós. A spàr, mó al fuséll al fà cilàcca. A tìr fóra la rivutèla, mó ànch quàlla la s'éra immuiè e la fé cilàcca. Alàura, d'sprè, a ciàp al mì curtèl, dezìs al tótt p'r'al tótt, quànd al leàn al fà un gràn sèlt e un gràn vérs AAAAAAGH!...e am sàn caghè adós…..".

"An fàgh brìsa fadìga a cràddri!", al dìs ón di amìgh e ló: "Nà, cus'èt capé? Am sàn caghè adós adès int al fèr AAAAAAGH!"

martedì 16 settembre 2008

LA “ESSE” RACCONTA (parte 2)

CAMPAGNOLI, chiamo così quei termini legati al mondo contadino (talvolta anche a quello artigiano dei muratori, ecc.) che in parte saranno ancor vivi in campagna, ma sconosciuti a noi cittadini e il mio bolognese è un dialetto di città.

Sàgguel, falce (quella grande era chiamata Fèr)
Sagramèr, spianare
Salvavén-na, grande imbuto (per il vino)
Sarasén, racimolo d’uva
Sarnèr, vento di maestrale (collegato forse a “rasserenare”?)
Sàuga, fune
Savurézzen, tipo di erba odorosa
Sbaldarì, frutte acerbe
Sbruchèr, potare (bróca = ramo)
Sburgadùra, ripulita delle piante
Scaparlè, colpo di mantello (caparèla = ferraiolo)
Scàvva, qualità di erba usata per le scope
Scavzadàura, macchina per la lavorazione della canapa
Scórria, frusta
Scucunèr, togliere il cuccume (pochi sanno cosa sia!)
Sculén-na, fossatello per lo scolo delle acque
Scurtàn, pezzo di campo di forma irregolare
Scuzèr, rompere le uova (così, dal romanesco, anche l’italiano “scocciare”, che da noi diventa Scucèr).
Sèvia, salvia, ma è più usato Sèlvia.
Sfratàn, Sfratunèr, Stablìr , attrezzo del muratore, levigare e intonacare.
Sfulàccia, buccia dell’uva
Sfundróii, posatura del vino
Sfurzén, cordicella
Sgaravlèr, rampollare
Sgarbàza, erbaccia (più usato nel significato di “pelle, pellaccia”)
Sgarzadùra, cardatura della lana
Sghérz, riccio delle castagne (da cui forse il diffuso cognome Sgarzi)
Sgrapót, graspo
Sinsalarì, senseria
Sivilén, piccolo chiodo del calzolaio
Slucadàura, macchina per la lavorazione dei cereali
Smalèr, togliere il mallo
S’mladàur, attrezzo per togliere il miele dai favi (mél = miele)
Smusticèr, pigiare l’uva
Sùma, soma (parola mai udita…tra le tante!)
Spèrz, Sparzén-na, asparago e asparago selvatico
Spanuciarì, mondare le pannocchie, più usato col significato di “chiacchierio”
Spigaróla, orzo selvatico
Spìzia, soglia, gradino di casa
Spulàtt, innesto (vedere dopo il plurale)
Spulinèrs, togliersi i pollini, parassiti dei polli.
Spunzóla, tipo di fungo
Squasèr, lavorare a fondo il terreno
S’santèr, mettere in fuga gli animali (??)
Stalàtt, piccola stalla per ovini
Stanziól, locale del fienile da dove si butta il foraggio
Starmìda (o Stermìda), suono di campane a stormo, nei casi di pericolo
Stìrpa, sterpi tagliati oltre ad altri significati
Stràm, erba secca per il letto del bestiame
Strópa, Strupèl, vimine per legare le fascine (forse origine del cognome Stroppa)
Suléi, al sole, cioè orientato ad est, ma io ho sempre sentito Sulàn (qui non citato)
Supiadùr, soffietto per attizzare il fuoco
Svidlèr, slattare i vitelli
Svinadùra, svinatura
-
(segue)
-
Paolo Canè

BASÉN E TEBÈSUM (n. 172)

(Quàssta l'é un'ètra ed ch'el sturièli popolèr, cómme "Chicàn à l'Aréna" e "Al franzàis a Módna", che is cànten da bàcca a bàcca, che inción scrìv e acsé is perdén da la memòria. A zarcarò d'arcurdèrmla, mó ai è chès ch'ai n'amànca di pìz).

Basén e Tebèsum i éren dù amìgh che spàss i aiutèven al prìt. Un dé al curèt a gli fé spazèr la cìsa: Basén al spazé la canònica e Tebèsum la capèla. Dàpp a li mandé tótt dù a fèr la spàisa: Basén al tùls la spórta e Tebèsum la bùrsa. Al dé dàpp i andénn int al bósch: Basén al cuiié i fónz e Tebèsum i marón. Int al bósch i truvénn un pasarén int al só nìd e i s'al purténn a cà: Basén al purté al nìd e Tebùsum l'usèl. I andénn int al cafà a zughèr al biglièrd: Basén al tulé fóra el stàcch e Tebèsum el bàl. À la sìra i andénn a magnèr una galén-na dal prìt: Basén al seglié la cósa e Tebèsum al cùl. La d'màndga i sunèven int la bànda: Basén al sunèva la tràmba e Tebesùm l'ucarén-na.

AL CAVÀL (n. 171)

Dal psichiàtra: "Dutàur, ai ò purté qué da ló mi maré parché al cràdd d'èser un cavàl".

Al psichiàtra al vìsita al maré, a gli guèrda dàntr'i ùc', a gli guèrda in bàcca e pò als métt a scrìver.

"Éni el medgén par mi maré?"
"Nà, l'é una d'mànda par la Cmón-na par fèri avàir al parmàss ed caghèr par la strè!".

AL PISADUR (n. 170)

Int ón ed chi pisadùr ch'ai éra una vólta int el strè, quànd i òmen ch'i pisèven, ón da una pèrt e ch'l'èter da ch'l'ètra pèrt, is guardèven int la fàza, ón l'incuntré un èter che l'avèva da dèri di baiùch e a gli d'mandé:

"Alàura cùmm'it méss con ch'al nécc' t'è con mé?"
"Guèrda", l'arspundé ch'l'èter, "adès ai ò un afèri pr'el màn che, s'al và drétt acsé, a stàpp ànch al tó bùs!".

RIME IN PILLOLE (pagina 22)

Ecco ora un paio di strofette che, secondo quanto si racconta, dovrebbero avere illustri natali (ma sarà poi vero?). La prima, scurrile e non grammaticalmente perfetta, è attribuita a Carducci; la seconda, a quanto mi raccontò Ligio Baldazzi, un vecchio anarchico, frequentatore del Bar Azzurra, sarebbe lo scambio di biglietti tra Carducci e Stecchetti, i quali, seduti al tavolo di un caffé, videro passare una bella signora. Si tratta di cosa di una volgarità e di una blasfemia inaudite, ma, conoscendo l’indole spregiudicata ed atea dei due personaggi, non faccio fatica a credere che sia vera. La riporto in parte, lasciando al lettore indovinare il resto:

Budrio mai stassi,
merda sui muri, merda sui sassi
e, ad ogni spirar di vento,
odor di merda sento!

Uno dei due:
“Che bella donna,
p… M….!”

L’altro:
“L’ho vista anch’io,
p… d’un D…!

Per contro ecco un paio di sermoni da recitare davanti al Presepe:

Tutti vanno alla capanna
per vedere chi c’è là:
guarda là che bel bambino
bianco, rosso e ricciolino!
Ah, se avessi un biscottino
da donare a quel bambino,
il biscottino non ce l’ho,
il mio cuor gli donerò!

***

Sermàn da Nadèl
al vén al fa bàn e l’àqua la fa mèl.
L’àqua la fa mèl e al vén al fa bàn:
ai ò bèle finé al mì sermàn!


Quando non si sapeva cosa dire:

dànca
par fèr i muradùr ai vól la cànca!
-
Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 21)

Da bambini ci si metteva in cerchio tenendoci per mano e uno di noi all’interno doveva cercare di « rompere » la catena delle mani unite ed uscire. Egli cantava:

Apri la porticina
e lasciami scappare:
la chiave l’ho perduta
e non la so trovare.

Al ché gli altri, in coro, rispondevano:

Allora starai dentro
tutta, tutta la notte
finché non sarai “buono”
di rompere scappar!
Duroooo!

..era il grido col quale si stringevano le mani il più forte possibile!

E quando qualcuno cantava per mascherare il suo risentimento, gli si diceva:

Al canarén in gàbia
ch’al cànta da la ràbia.


Ricordo vagamente una strana filastrocca, nella quale si parla di qualcosa che pende pericolosamente (pindéquel) sopra a qualcuno che dorme ignaro (durméquel), perciò se non fosse arrivato di corsa qualcuno (curéquel), il dormiente avrebbe corso rischi!

Durméquel durmèva,
pindéquel pindèva,
s’an i éra curéquel
durméquel murèva!

Riferito al Palazzo degli Strazzaroli in Piazza di Porta Ravegnana:

“L’à nóv pórt, nóv f’nèster e nóv f’nistrén,
la Madóna e al campanén”



6 gennaio:
La Befana vien di notte
con le scarpe tutte rotte:
neve, gelo o tramontana,
viene, viene la befana.
-
Paolo Canè

lunedì 8 settembre 2008

L’ALEVADÀUR ED NINÉN (n. 169)

Un cuntadén l'é drì ch'al dà da magnèr ai sù ninén, quànd al vàdd, da luntàn, arivèr una bèla màchina nàigra. Ai sèlta zà dù sgnàuri elegànt e ón a gli d'’mànda:

"Cùssa dèv da magnèr ai vùster ninén?".
"Chi mé? Mé ai dàgh d'la mérda!"
"Ah, sé? Bène: nuètr'à sàn d'la "Protezione Animali" e av fàn un miliàn ed mùlta!".

Dàpp suqànt mìs l'éra sàmper drì e dèr da magnèr ai ninén e al vàdd arivèr un'ètra bèla màchina. Ai sèlta zà dù sgnàuri e ón a gli d'mànda:

"Cùssa dèv da magnèr ai vùster ninén?".
"Ah, ai dàg del taiadèl, di turtlén, del lasagnàtt…"
"Ah, sé? Bène: nuètr'à sàn d'la F.A.O. e av fàn dù milión ed mùlta!".

Suquànt mìs dàpp, l'é sàmper là atàis al purzìl e al vàdd arivèr un'ètra bèla màchina. Ai sèlta zà ón ch'al gli d'mànda:

"Cùssa dèv da magnér ai vùster ninén?".
"Mé? Mé ai dàgh méll frànch tótt i dé e làur ch'is aràngen a cumprèr quàll ch'i vólen!".

AL SUIZIDA (n. 168)

"Giovàni, èt sintó la nutézzia?"
"Ch's'él suzèst?"
"Santén l'é mórt. Con la timpèsta l'é andè da mèl tótt al racólt di marón e ló a s'é impichè".
"Dit dabàn? S'él impichè pr'i marón?"
"Mocché, al s'é impichè pr'al cól!"..

AL MARCÀNT ED NINÉN (n. 167)

Un marcànt l'avèva una butàiga dùv al vindèva di ninazén e als fèva aiutèr da la só famàiia. L'avèva un sistéma spezièl pr'indvinèr al pàis di ninén e ai piasèva ed scumétter con i su cliént: als mitèva in bàcca al pistulén dal ninén e al gèva: "31 chillo e mèz!" e ai ciapèva sàmper, maraviànd la só clientéla. Un dé ch'ai éra dimóndi lavurìr als fé aiutèr da só fiól, mó, sicómm ch'ai v'gnèva dànter sàmper un mócc' ed zànt, al gé col cìnno:

"Và bàn a ciamèr tó mèder ch'l'é in cà ch'l'an fà gnìnta".
"An é mégga vàira" al gé al cìnno "ai ò vést ch'l'éra là ch'la p'sèva al zìo!"

PAPAGÀL 9 (n. 166)

Dù papagàl i scapénn da la gàbia e, zìrca dàpp un àn, is truvénn. Ón l'éra bèl gràs, con del bèli pànn lósstri e ch'l'èter l'éra brótt mègher e tótt móii. Al mègher a gli d'mànda:

"Dùv'it stè che t'i acsé in fàurma?"
"Ah, a sàn vulè int una cà, dùv'ai éra una famàiia ch'am à v'ló sóbbit bàn: i m'àn dè da magnèr e da bàvver e l'ónnich mi lavurìr l'éra quàll ed fèr divartìr i sù amìgh. E té?"
"Ah, mé a sàn vulè int al s'bdèl Sant'Àursla".
"E cus'èt fàt int al s'bdèl?"
"Cùssa vùt ch'ai èva fàt: al papagàl!"

LA “ESSE” RACCONTA (parte 1)

Parecchi sono i dizionari italiano-bolognese in circolazione: i più antichi sono il Ferrari, il Toni e l’Aureli (usciti tra il 1820 e il 1850), ma i più importanti sono il Coronedi-Berti (1869/74), l’Ungarelli (1901), il Bianconi, il Mainoldi e…peccato che Alberto Menarini non ne abbia voluto scrivere uno, che certamente sarebbe stato il migliore o, quanto meno, il più attuale! Ve ne sono altri più recenti, ma poco o nulla hanno aggiunto a ciò che era già stato trattato nei precedenti. Ho preso in considerazione il Mainoldi, più succinto degli altri, che dovrebbe essere il più recente, infatti la prima edizione è del 1967 (e la ristampa in mio possesso del 1996) ed ho preso in considerazione solo la lettera “S”, per esaminare una buona parte di vocaboli che qui divido in quattro categorie. Perché la “S”? Perché è l’iniziale più frequente nei vocaboli bolognesi, infatti comprende circa 1500 voci (sulle circa 8.500 dell’intera opera), delle quali ho voluto esaminarne circa un quarto che espongo qui di seguito. Il motivo di questo capitolo è quello di osservare quante siano le parole ormai disusate, quante, pur ancora valide, siano in via di lenta sparizione e quante, tipicamente petroniane, vengano usate sempre di meno, ma sarebbe il caso di salvarle…ancora per un po’! Premetto che, in questa mia stesura, ho eliminato tutti i segni del tipo “å, ^, j, ds-, ƒ,ecc.” che saranno anche utili per chi voglia conoscere esattamente le sfumature della pronuncia (pur se in molti casi la materia è molto opinabile!), ma che, come insegna Menarini, si tratta di anticaglie da rifiutare, anche allo scopo di rendere la lettura più scorrevole ed io mi attengo a lui. Vediamo.

OBSOLETI, chiamo così quei termini ancora sporadicamente usati, ma in pratica ormai abbandonati. Come l’antica “civitas rupta” romana, abbandonata dai bolognesi, fu miniera di materiali da costruzione, così questa categoria è quella dove certi falsi profeti del dialetto vanno a “ravanare” per cercare di rivitalizzare ciò che ormai dovrebbe essere sepolto e per apparire in tal modo esperti del dialetto. Una pratica che altrove ho definito “un esercézzi da pistulón”, poiché non solo riescono a darla a bere solo ai più sprovveduti, ma finiscono per usare vocaboli incomprensibili ai più e ormai spariti o sostituiti da altri più moderni.
Sàba come anche Sùghi, sono specie di marmellate che ormai non si fanno più.
Sabadàn, zoticone
Sabiàn, persona malvestita (termine simpatico, peraltro sporadicamente in uso)
Sabiunézz, sabbioso
Sacusót, scossa
Salaról, barattolo del sale, ma tutti ormai dicono Salìra
Saltabèla, orgasmo, ma oggi si dice Sverzùra, anche se non è la stessissima cosa.
Saltarèl, un tipo di verme, ma significava anche un ballo contadino.
Sàmm, sommo (stèr a sàmm= stare a galla, ma oggi tutti dicono “stèr a gàla”)
Santóc’, bigotto
Sariól, siero
Sàulfen (zolfanello), come Scuciól (berretta) spariti, ma restano i diminutivi Sulfanén e Scuciulén.
Savanèr, agitare un liquido, ma oggi al massimo si usa Saguaièr.
Sbaguté, sbigottito, oggi al massimo Sbiguté
Sbarbirè, tosato di fresco
Sbarlumèr e Slumbarzèr, vederci poco e albeggiare
Sbasucèr, sbaciucchiare
Sblécter, gente da poco (mai sentito e non sembra nemmeno bolognese!)
Sbranzughèr, brancicare
Sbucalè, risata sguaiata
Scàgn, avvizzito
Scàilter, scheletro
Scalfarót, calzerotto, ormai pienamente sostituito da Calztén (vedi dopo Sc’fón)
Scambrucén, stanzino
Scantalufè e Scaviaràn, chi ha i capelli in disordine
Scarfóiia, buccia di cipolla o aglio (vedere dopo Sgaróffla)
Scatizèr, stuzzicare
Scazói e Svanzói, avanzo, residuo (vedi anche scamplózz)
Schincadùra, botta sullo stinco
Scót, prima leggera cottura, ma sono più usati Buiót e Buiutén.
Scriturèl, scrivano
Scudrinèr, slombare
Scufièra e il più noto Scufiarén-na, modista, ma oggi si dice Mudéssta.
Scuplutèr, dare scappellotti
Scurézz, schifo, ribrezzo
Scurtadùra, scorciatoia, una delle tante parole che ormai tutti dicono in italiano.
Scùrzi, persona piccola e ridicola
Scutén-na, calore intenso
Sdurmicèr, dormicchiare
Séiì e Sónza, sego, ma oggi, oltre alle due parole è sparito anche il sego stesso! Anche
Sunzàn, unto, sudicione ha subìto la stessa sorte.
Sfóiia, sogliola, ma oggi tutti capirebbero “sfoglia”, che peraltro si dice Spóiia!
Sfrótla, frotta
Sfrùs, frodo
Sfundariàn, burrone, precipizio, ma oggi tutti capirebbero “errore linguistico” (Balàn)
Sfurbàccia, quell’insetto che ormai tutti chiamano Furbsàtta.
Sgalémber e Sghibìz, sbieco, reso più spesso con Tarquàider, Travérs, Giangón, ecc.
Sganèr, aprire una conduttura intasata, ma per tutti è Smunìr
Sgarangiót, persona sguaiata nel fisico
Sgarblè, scerpellato (parola che pochi conoscono anche in lingua!)
Sgrutèr e Slavinèr, franare, ma oggi è ormai Franèr o V’gnó zà!
Sgugiól, divertimento (parola cara ai moderni “archeologi” del dialetto!)
Sicarnén, ragazza elegante
Sicurtè, garanzia, da anni per tutti Garanzì
Simuvéss, tessuto di cotone felpato
Slàgn, floscio, parola sostituita da Sguéggn e da altre
Slavàc’, guazzo
Sludrèr, gozzovigliare
Smanvèrs, spogliarsi, oggi ormai per tutti Spuièrs, C’ftìres.
Smgnulèr, miagolare.
Smóiia, ranno: una pratica scomparsa con le lavatrici, ma allora c’era anche la parola Zindràndel, che peraltro il Mainoldi non riporta.
Smulinèrs, agitarsi
Snudadùra, articolazione, sostituita da Articolaziàn che è comprensibile a tutti.
Sófoch, aria soffocante, ma ormai si dice come in italiano Afa.
Sórta, sorta: “ed dàu sórt” è oggi sostituito da “ed dàu fàta”.
Sózer-Sózra, termini assai brutti per Suocero-Suocera, oggi detti in italiano.
Spadìr, allegare i denti, ma è più usato il verbo Lighèr.
Spaipàtt e Spinzén, piccola donna o ragazza vivace
Spampanèr, spargere qua e là, oggi Sparpaièr o Strumnèr (seminare)
Spanèr, togliere la panna dal latte (oggi ci pensa la Granarolo!)
Spardùra, aborto, oggi incomprensibile perché la gente dice Abàurd (con la “d”!)
Spartùra, madia, termine oggi sparito, come la stessa madia per il pane.
Spasegè, arcaico per passeggiata, ma oggi tutti dicono Pasegè.
Spianè, crescente, ma tutti dicono Carsànt
Spirén, lumino per la notte o del cimitero, oggi sostituito da Lumén
Spirlimpén, donna brutta e affettata (anche se il termine suona come complimento)
Spótich, dispotico
S’pteglèr, spettegolare
Spziarì, Spzièl, farmacia, farmacista, oggi Farmazì e Farmazésta
Squantéren, grande quantità (quasi antipatico come lo stucchevole Stracantàn!).
Squasàn, che fa complimenti esagerati, ma Squèsi, C’nómm, ecc. bastano.
S’rài, serraglio
Stiancàn, chi rompe tutto
Stóffel, Stuflè, fischio, fischiata, da tempo sostituiti dal diminutivo Stufilén e da Stufilè. Per “fischietto” da ricordare anche Subiól.
Strabèlz, caso, ma “ed strabèlz” è sostituito da “par chès
Stragualzèr, trangugiare
Straintànder, fraintendere
Stravànt, forte ventata, meno usato di Scaravànt
Stravultadura, distorsione che oggi si rende con Stórta
Strusciàn, Struscièr, sciupone, sciupare, espressioni ormai in naftalina, poiché si dice Strasinàn, Strasinèr, senza quella “sc-“ che è usata solo in Sc’fón e Scialèti (v. dopo).
Stùra, stuoia di cui è rimasto solo il diminutivo Sturén (Zerbino)
Sublimèt, sublimato: prodotto chimico. Spariti nome e prodotto!
Sunài, dall’espressione “di sunài!” che oggi non esiste più.
Surciót, sorso
Surzrì, sorgente, molto raro a favore del più comune Surzànt.
-
(segue)
-
Paolo Canè

mercoledì 3 settembre 2008

RIME IN PILLOLE (pagina 20)

Ferro alla Patria era la campagna di raccolta del ferro (dopo quella dell’oro) ai tempi dell’autarchia fascista.Vennero divelte le cancellate un po’ dappertutto e, in un’antica villa di Vedrana, la cui recinzione era stata eretta dal nonno Giacomo Zerbini, divelta dal regime e ricostruita dal nipote Antonio, figura la seguente iscrizione:

Giacomino ai la mité
e Benito a la cavé,
po’ Tugnàz ai l’armité
e ch’la sèppa finé lé!


Una lapide sulla Garisenda ricorda i versi di Dante (Inf. XXXI):

Qual pare a riguardar la Garisenda
sotto il chinato quando un nuvol vada
sovr’essa, sì ch’ella in contrario penda:
tal parve Anteo a me che stava a bada
di vederlo chinare…


(A.Menarini-A.Vianelli, Bologna per la strada,1973)


Ai bambini col moccolo al naso:

Cùmm t’um piès, cùmm t’um piès
con la gàzza sàtta al nès.


***
Vittorio Emanuele
che mangia le candele
le mangia senza pane
scorreggia come un cane


***
Un famoso scongiuro di noi ragazzi:

Terque quaterque
testiculum tactis
palleggiatoque augel
scrotoque pilis :periculum fugatum est.
-
Paolo Canè

I DU LEÓN (n. 165)

Dimóndi àn fa, dù león i scapénn dal Circo Medràno a Bulàggna. I zarchénn dapartótt mó in riusénn brìsa a caturèri. Dàpp a un àn i dù león is truvénn dal pèrt d'la staziàn: ón l'éra bèl gràs técc' e ch'l'èter l'éra mègher stlè! Al gràs a gli d'mànda:

"Mó dùv'it stè, t'i tótt acsé mègher e spnacè?"
"Stà bàn: a sàn stè int la bàsa, dùvv'ai éra una miséria ch'la fèva i cinén: an i éra gnìnta da magnèr par la zànt, figùret s'ai n'éra par mé! Té pitóst, ch't'i acsé bèl gràs, dùv'it stè?"
"Ah, mé a sàn vanzè in zànter a Bulàggna: am sàn méss pr'un àn davànti a Palàz Pizèrdi in Via D'Azeglio, ai ò magnè un feroviér tótt i dé e inción ans n'é mài acórt!".

I DU RAPRESENTÀNT (n. 164)

Dù rapresentànt d'eletrodomèstici is tróven e ón al dìs con ch'l'èter:

"Al sèt che al nóster coléga Mingózz l'é mórt?"
"Ah sé? E cùss'avèvel?"
"Ah, l'avèva la Triplex, la Zoppas e la Candy!"

AL PROGRÀMA (n. 163)

Dù pensionè is fàn el cunfidànz:

"Té cùmm vèla con la pensiàn? Ch'sa fèt tótt al dé?"
"Guèrda: a la matén-na apànna zdàzzd a fàgh 'na ciavadén-na, pò am lìv, a tóíi al cafà, a lèz al giurnèl e a fàgh v'gnìr mezdé. A màgn e pò a vàgh a lèt e a fàgh un'ètra ciavadén-na e dàpp am lìv e a vàgh a girèr par fèr v'gnìr l'àura ed zànna. A màgn, a guèrd la televisiàn, pò a vàgh a lèt a fàgh un'ètra ciavadén-na e am métt a durmìr".
"Sócc'mel, mó quant'él t'vè avànti con ch'la mùsica qué?"
"Ah, a tàch lonedé!".

AL BARACÀN

È una parola dal quadruplo significato: un baraccone, un festaiolo, un tipo di abito arabo e il Baraccano. Il baraccone, propriamente una grande baracca, può anche essere un veicolo o un qualsiasi aggeggio antiquato e malfermo, oltre che, specie al plurale, il Circo o un padiglione del Luna Park (vedi l’espressione: un fenómen da baracón). Il diminutivo femminile (la barachén-na) è invece l’edicola dei giornali o il chiosco dei gelati, mentre quello maschile (al barachén) è semplicemente una baracca piccola o il piccolo palcoscenico dei burattini, detto peraltro anche “baràca”. Inoltre, dato che stare in compagnia, mangiare,bere e cantare,si dice “stèr in baràca”, l’aggettivo si può riferire anche a chi ama gozzovigliare. È un’espressione tipica delle nostre parti, ma usata in molti altri dialetti; lo stesso vale per “andèr in baràca” che significa, in molte Regioni, andare a catafascio. La stessa parola si adatta anche ad un indumento tipico dell’Africa settentrionale (che però in italiano,come in diverse altre lingue, si scrive “barracano”) ma che nel nostro dialetto, povero di consonanti doppie, si scrive e si pronuncia come sopra. È tuttavia parola poco usata per bolognesi…colti! Infine il Baraccano che è una chiesa, addossata ad un residuo di mura, sorta intorno ad un’immagine della Madonna, dove i bolognesi vanno a “prendere la pace” dopo il matrimonio, infatti si chiama anche Chiesa della Pace. Era, o avrebbe dovuto essere, il tempio di Giovanni II Bentivoglio e quel vialetto che sbocca sulla via Santo Stefano in un occhio di portico molto alto, si dice che avrebbe dovuto collegare la chiesa con la “domus aurea” di Giovanni che sorgeva dove è oggi il Teatro Comunale. Ma tutto restò incompiuto, poiché quella Signoria ebbe vita breve e passò alla storia come un periodo infausto, mentre molti credono che, se fosse durata di più, forse avrebbe portato a Bologna le stesse cose che Medici, Gonzaga ed Este portarono nelle loro rispettive città! Ma Bologna era città guelfa (e forse lo è ancora oggi!) insofferente a Signori ed Imperatori, ma disposta, seppure obtorto collo, a restare coi Papi. Quanto alle etimologie di questa parola sono più di una:
Baracàn (come baràca) nel significato di “baracca” proviene da una voce spagnola, forse preromana, ”barraca” che era una capanna di pastori.
Baracàn nel significato di “gaudente” potrebbe riferirsi alle gozzoviglie intorno alle baracche dei vivandieri, ad esempio, di un esercito.
Baracàn nel significato di “barracano” deriva, ovviamente, dall’arabo “barrakan” che era un grosso cammello e un tessuto fatto della stessa stoffa o lana.Baracàn, infine, nel significato di Baraccano, ha una storia un po’ più complicata: è corruzione del vocabolo ”barbacane” che era un rinforzo esterno alle mura delle antiche città, infatti, dietro la chiesa, tale rinforzo è ancora evidente e,fortunatamente, non abbattuto, grazie all’esistenza della chiesa stessa. Parola d’origine incerta: c’è chi dice dal persiano bala (alto) khana (casa), chi dall’arabo bab (porta) al baqara (delle vacche, poiché il bastione proteggeva il recinto degli animali (termine forse preso in prestito dai Crociati) e chi dall’arabo barbahhane, il quale però è un canale d’acqua che col bastione non c’entra nulla. Come accade spesso, i dubbi restano, ma un “baracàn con un baracàn int un baracàn atàis al Baracàn” è un crapulone vestito da arabo che sta in una baracca vicino al Barracano!
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Paolo Canè

IL BOLOGNESE IN CUCINA

Lungi da me l’idea di parlare di cucina, argomento già fin troppo trattato da ogni rete televisiva, da centinaia di libri e riviste, del quale, peraltro, non capisco nulla.
Voglio solo parlare di alcuni arnesi della cucina, il cui nome è apparentemente strano, poiché abbastanza lontano dal termine della lingua. Tralascerò quindi moltissime parole come “p’gnàta, misclén, tàza, curtèl, cuérc’, ecc.”, poiché non molto dissimili dalle corrispondenti in italiano “pignatta, mestolo, tazza, coltello, coperchio, ecc.”
La terminologia che riguarda, oltre la cucina, tutti i mestieri tradizionali (falegname, muratore, meccanico, ecc.) comprende molte parole tipicamente dialettali e questo succede in tutti i dialetti. Parole che vengono spesso “italianizzate” dando origine a buffi incroci che sono comprensibili solo agli utenti di quel dialetto. Ma vediamo alcuni termini che riguardano la cucina, con i corrispettivi italiani, italo-bolognesi e con qualche tentativo di spiegazione etimologica:
buvinèl (imbuto), parola ormai sconosciuta ai giovani, ma che non ha altro termine, se non lo scherzoso “buvinello”, detto anche a chi è molto fortunato (bu…). Ogni regione ha il suo termine tipico: qualcosa di simile a “embusùr” (Piemonte), “pidariòl” (Romagna), ecc., il primo simile a ”imboccatore”, di chiara influenza francese (anche se il termine ufficiale è “entonnoir”, infatti “entonner” significa “mettere in botte”), il secondo…non so proprio da dove derivi! Il nostro “buvinèl” potrebbe avere a che fare con la radice “buv-“ (pure d’origine transalpina) che è alla base di altre parole, come “buvette=bettola, osteria” ed è forse lo stesso “bu” inserito nella parola “imbuto”, ma anche “be-“, “bi-“ di bere, bibita,ecc., stavolta di certa origine latina. Una fonte fa risalire “buvinèl” a “imbutinello”…sarà vero?
calzàider (secchio), più propriamente “secchio di rame”, termine usato anche dai muratori, che è però in fase di avanzata obsolescenza, poiché è ormai sconosciuto anche a molti adulti, in quanto sostituito da “mastèla”. Questo antico termine dovrebbe derivare da una voce del latino medievale del tipo “calcitrum”.
gradèla (graticola) che solo scherzosamente noi chiamiamo “gradella”, magari senza sapere che “gratella” è parola antica, ma ancora esistente come diminutivo di “grata”, come, del resto, lo è anche “graticola”, più aderente però al latino “graticula”.
pistadùra (tagliere) termine che a Bologna portiamo con disinvoltura, pari pari, in italiano, anche perché “tagliere” ci fa pensare ad un’altra cosa (vedi in seguito). E come “tagliere” si riferisce evidentemente a “tagliare”, così “pistadura” si riferisce a “pestare”, ma è anche probabile che perpetui un antico “pestatoia”, come, del resto, “pestatoio” è il ceppo su cui si pestano le castagne secche. Alcuni bolognesi, che intendono parlare bene l’italiano, rifiutano il termine “tagliere”, preferendo “mortaio” che però è cosa diversa, in quanto a forma di scodella e non piana.
ramén-na (schiumarola): chi chiama questo attrezzo col nome tosco-italiano, rischia di non essere capito, poiché da noi si dice sempre ed invariabilmente “ramina”! E’ probabile che il suo nome si riferisca al fatto che l’attrezzo era (e spesso è) di rame.
róla (teglia),che noi traduciamo in “ruola”,ma possiamo anche chiamarla giustamente “teglia”, poiché in dialetto esiste anche il termine “tàiia” col bellissimo diminutivo “tién” (colui o colei che tengono insieme la famiglia sono chiamati, secondo un vecchio detto, “quàll ch’tén drétt al tién”!).
ruscaróla (pattumiera), vecchio termine, ormai sostituito dal brutto “patumìra”, che si riferisce al nostro “róssch”, tradotto invariabilmente in “rusco”, parolina breve e perfetta che dovrebbe essere adottata anche dall’italiano, dove peraltro esiste, ma come “altro nome del pungitopo”!
scudèla (tazza), qui s’inserisce un malinteso tutto petroniano!In italiano la “scodella” è una grossa tazza, mentre per noi è il “piatto fondo”, quello usato per la pasta o per la minestra brodo (tra l’altro, il termine “minestra” è da noi usato anche per la pasta e per qualsiasi tipo di primo!). Perciò questo tipo di piatto, che in altre regioni si chiama “piatto fondo, fondina, piatto cupo,ecc.,da noi viene chiamato universalmente “scodella”.
sculadùr (colabrodo o colapasta) è parola dialettale che non è mai tradotta in italo- bolognese. Sembrerebbe simile ad un antico “scolatoio”, abbastanza simile ai termini in lingua, che fa parte delle tante parole bolognesi che iniziano per “s” come rafforzativo del loro intrinseco significato (scanzlèr, stravultèrs, spigazèr, ecc.), ciò che probabilmente accadeva anche in lingua e talvolta ancora accade (svuotare, col significato di vuotare completamente). Esiste anche l’ormai poco usato “passén” per indicare il “colino”, cioè un colabrodo di piccole dimensioni, che alcuni chiamano “culén”, incuranti del doppio senso!
spartùra (madia), termine antico che ormai non esiste più, anche perché la madia stessa non esiste più. È un termine che può apparire nei testi antichi, nelle poesie e nelle “zirudelle”, ma volerlo ancora usare oggi è un inutile esibizionismo.
sprunèla (rotella tagliapasta), il nome italiano di questo piccolo attrezzo è troppo lungo oltre che vagamente buffo. Per noi è invariabilmente la “spronella” e si usa quando si fanno in tortellini! Certamente deriva il suo nome dallo “sperone” che appunto ricorda nella sua forma di ruota dentata. Esiste in italiano anche il termine “spronella” o “speronella”, ma è il nome di una pianta!
stièr (acquaio) che noi tutti chiamiamo “secchiaio”, probabilmente perché un tempo, anche in mancanza del rubinetto, aveva un gancio al quale stava appeso il secchio. Si riferisce unicamente a quello di cucina, poiché quello del bagno si chiama “lavandén” e cioè “lavandino” (lavello)! È strano il fatto che solo il caso di “stièr” richiami la parola italiana “secchio” che, come abbiamo visto, era “calzèider” ed è “mastèla”. Singolare è il detto “lulé l’à al césso e al stièr in cà” per definire chi ha tutte le comodità, con riferimento ai tempi nei quali tali servizi erano, in comune, fuori casa!
tirabursàn (cavatappi), senza stare a sottilizzare se “tirabursàn” o “tirabursòn” (in questo e in mille altri casi le due pronunce coesistono), è l’unico termine per questo attrezzo che noi italianizziamo in “tiraborsone” solo quando scherziamo, per tacere del diffuso,pure scherzoso,“tirabusàn”. È notoriamente parola francese (tirebouchon) che fa parte, più o meno storpiata, di tutti i dialetti italiani dalle Alpi alla Sicilia.tulìr (spianatoia). Come nessuno chiamerebbe “tagliere” la “pistadùra”, così nessuno chiamerebbe “spianatoia” il “tulìr”, che a Bologna è per tutti il “tagliere”.
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Paolo Canè