sabato 9 ottobre 2010

Presentazione nuovo libro

V’informo che entro ottobre uscirà un mio libro sul dialetto bolognese dallo strano titolo metà in italiano e metà in dialetto:

per dirla…in “BULGNAIS”- parole e detti raccontati

Con le tre precedenti pubblicazioni: «V’gnì mò qué Bulgnìs» (2006) «Brìsa par critichèr…» (2008) e «Un quèl bulgnàis» (2010), scritte interamente in dialetto, Tiziano Costa ed io ci siamo quasi divertiti a raccontare storie e storielle, scritte con mano leggera, le quali peraltro hanno ottenuto un buon successo di vendita, anche se qualche copia ancora si trova nelle librerie.
Però si trattava di libri scritti in dialetto e perciò ostici per tutti coloro che non sono nati qui o almeno per coloro che hanno difficoltà con questo idioma familiare, ma d’inconsueta lettura.
Lusingato dal gradimento dei lettori, stavolta ho voluto cimentarmi in qualcosa di più impegnativo: un libro, onorato dalla prefazione di Tiziano Costa, che parla di dialetto, ma non è scritto solo in dialetto. Un libro, per scrivere il quale, si sono resi necessari alcuni anni di studi e di ricerche. Un libro che si divide in quattro parti:
1) espressioni dialettali con etimologie e mie personali osservazioni
2) modi di dire “semplici”, con un breve commento
3) modi di dire “con rimorchio”, poiché si può citare la prima parte anche da sola, mentre la seconda (tra parentesi) ne rappresenta il coronamento.
4) l’italo-bolognese, che è il nome dato da Alberto Menarini al nostro particolare linguaggio, di derivazione dialettale, che usiamo a Bologna.
Io mi sono divertito moltissimo a raccogliere migliaia di parole, detti, informazioni, etimologie e origini varie di vocaboli ed espressioni, colmando così tutto il tempo che mi concede questa vita di pensionato. Spero che anche voi vi divertiate altrettanto!

Paolo Canè

***

P.S. Il libro sarà presentato sabato 30 ottobre alle ore 11 presso la Mediateca di Via Caselle a San Lazzaro e sarebbe un piacere incontrarvi per fare due chiacchiere sull’argomento:prendete nota sulla vostra agenda!
Presentatore: Mario Cobellini


venerdì 23 luglio 2010

TURCO DI RITORNO (n. 346)

Una sìra ai éra una fèsta in màschera al Cumunèl e un umarèl a l’entrè al fèva l’anónzi a tótt quì ch’i v’gnèven dànter. Quànd ai véns dànter ón f’tè da tùrch, al déss: "Entra il turco!"
Stù qué al le guardé mèl, mó an déss gnìnta. Dàpp un póch al "tùrch" l’andé fóra (fórse al césso) e l’umarèl l’anunzié: "Esce il turco", un’ètra ucè ed travérs, mó an gé gnìnta gnànch stavólta.
Quànd al turné, l’umarèl al gé: "Turco di ritorno!" e ló, ch’an n’in p’sèva pió, ai gé: "Sócc’mel!" e l’umarèl: "Bolognese, invece!".

AL PETRÓLI (n. 345)

Quàsst l’é un fatarèl ch’l’é sàmper stè cuntè pr’un fàt vàira. Un biasanót al métt al nès int un tumbén avért, in San Flìs, e al d’mànda a l’operèri:
"Ch'sa zarchèv? Al petróli?"
"Nà, a zàirch ch'la vàca ed tó surèla."
"Alàura avì un bel pó da gratèr: la stà al M’lunzèl!"

RIME IN PILLOLE (pagina 96)

Uno scioglilingua di noi ragazzi:

Oggi seren non è,
doman seren sarà,
se non sarà seren,
si rasserenerà.

***

Cantava mio padre, in dialetto, un’aria antica dal titolo “Donna, Donna” (certo sei nata per farmi soffrir, donna, donna tu mi farai morir) che aveva forse sentito cantare da suo padre e della quale ricordo solo questo frammento:

…a la matén-na las lìva, las lèva
la ciàpa la bùrsa e la và a pasegèr…

(dai miei ricordi d’infanzia)

***

Prima del risanamento ubanistico di Via Rizzoli-Via Orefici, qualcuno chiese allo spiritoso e coltissimo Canonico Mons. Golfieri di scrivere un epigramma sul famoso “fittone”, malizioso simbolo per gli studenti bolognesi e il prelato scrisse, incredibilmente, quanto segue:

Del nostro Municipio questo è il cazzo,
e chi veder vuole i coglion, vada in Palazzo!

(A.Menarini- Bologna per la strada- seconda serie)

***

Una simpatica, brevissima “zirudella” del Cardinale Mezzofanti per un pranzo in campagna (mangiate e ballate…anche senza orchestra, magari con lo schiaccianoci!):

PR’UN G’NÈR IN CAMPAGNA

…Fè ch’la spóiia sia bàn fàta,
ch’la pulànta l’an sia c’fàta,
ch’èva ognón una fritèla,
tic e dài la zirudèla.

Int al prè, finé al g’nèr,
mitìv tótt a sgambitlèr
al trascn, la tarantèla,
tic e dài la zirudèla.

E s’ai mànca i sunadùr,
tulì fóra al macaclùr
e picèl int la padèla,
tic e dài la zirudèla.

(Ambra Ferrari- Emilia in bocca)

Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 95)

Questa non è in bolognese e nemmeno in italiano, ma in romanesco, tuttavia è degna di essere ricordata. Si tratta di una “pasquinata” risalente ai tempi di Napoleone:

Agnede a Mosca per divenir sovrano,
tornò da Mosca con le mosche in mano

(dalla Settimana Enigmistica)

***

Son finiti i giorni lieti
degli studi e degli amori,
o compagni, in alto i cuori
e il passato salutiam!
È la vita una battaglia,
è il cammino irto d’inganni,
ma siam forti, abbiam vent’anni,
l’avvenire non temiam.
Giovinezza, giovinezza,
primavera di bellezza!
Della vita nell’asprezza
il tuo canto squilla e va!

È questo il testo originale di un canto goliardico, molto in voga ai primi del Novecento, dal titolo “Il commiato” oppure “Inno dei laureandi”, composto da G. Blanc e N. Oxilia. Negli Anni Venti venne adottato dal regime fascista come inno col nome di “Giovinezza”!

***

A proposto del misterioso ed intraducibile grido, di moda ai primi del ‘900, “Tu’ só ch’i plón” (prendi quei polloni), Menarini ricorda la filastrocca bolognese-romagnola:

La Rosìna, ch’la burdèla
ch’l’am avèva rubè al cór,
sàmp’r atàch a la stanèla
ai d’mandèva ed fèr l’amór.
E lì sàmper l’um disèva:
“Tìr’t in là, stà fàir’m!” e po’
con paról ch’um turmintèven:
“Tu’ só ch’i plón, tu’ só ch’i plón!”

***

Quando un bambino sternutisce oggi si dice semplicemente « Bandéssel ! », ma la formula completa era:

Ch’at bandéssa San Z’vanén
ch’al bandéss tótt i pinén”

Paolo Canè

SIMILITUDINI

La similitudine è una figura retorica che consiste nel “paragonare una cosa ad un’altra” e nel XIII secolo fu proprio Guidotto da Bologna che così la definì. Si usa, ritengo io, per rafforzare un concetto e, soprattutto nei dialetti, per sottolineare l’aspetto comico delle cose. I dialetti sono “bambini” che amano scherzare e che a volte vogliono apparire simpatici per forza, mentre la lingua è un “adulto” che scherza di meno e che a volte tende ad essere serioso e pedante! Ma anche col dialetto bisogna fare attenzione: la similitudine, la battuta e lo scherzo debbono essere misurati per essere graditi e simpatici, chi invece ne abusa, finisce per ottenere il risultato contrario e ciò diventa antipatico ed insopportabile. Lo diciamo anche ai bambini (quelli veri) quando esagerano: “Il gioco è bello finché è corto”.
Qui ho raccolto una trentina di similitudini che ho diviso in due gruppi: quelle che, uguali o molto simili, troviamo anche in lingua e quelle che, per quanto mi risulta, abbiamo solo nel nostro dialetto (e forse in altri). Come ho detto, si può notare come quelli esclusivi del dialetto siano più simpatici degli altri. Altra caratteristica è quella che, almeno la metà dei seguenti esempi, usano come paragone un animale, mentre l’altra metà si riferisce a cose. Infine, ricordo che in bolognese il “come” viene detto in molti modi: cómm, cómme, cùm, cùmm, ch’mé (che io scrivo con l’acca per indurre il lettore a prima vista alla pronuncia dura della “c”), cumpàgn e cumpàgna!

Bèl ch’mé un ànzel che abbiamo anche in italiano “bello come un angelo”
Sudèr cumpàgn a una bìstia, sudare come una bestia, anche se in dialetto “bìstia” è il bovino per antonomasia e quello lavorava molto e perciò sudava!
Infiè (gànfi) cómme un bót o (una butaràza), gonfio come un rospo.
Sfighè ch’mé un càn in cìsa e i cani in chiesa, si sa, hanno poca fortuna!
Brótt ch’mé al dièvel (un dèbit, la fàm), il diavolo è brutto dappertutto, ma forse le similitudini con il debito e la fame sono più tipicamente dialettali.
Córrer cumpàgn a una lìvra, e la lepre è l’animale veloce per antonomasia.
Antepàtich ch’mé una mérda, paragone non fine, ma credo si dica anche in lingua!
Testèrd cómm un móll e il mulo lo è, anche se non è l’unico animale ad esserlo.
Lavurèr cumpàgn a un nàigher, si dice anche in italiano, ma non perché i negri (oh, pardon, i “di colore”!) lavorino più degli altri, quanto perché un tempo essi erano schiavi e perciò erano costretti a lavorare.
Spórch cómme un ninén, ed è buffo sottolineare come il maiale si chiami “ninén” a Bologna, “busgàtt” a Ferrara e “baghén” a Ravenna: mi chiedo come lo chiameranno ad Argenta che si trova nel punto dove queste tre province si toccano, forse “maièl”!
Mègher ch’mé un óss e non c’è nulla di più magro di un uscio!
Sàn cumpàgn a un pàss, sempre che i pesci siano veramente sani.
Móii cómme un pipién: credo che anche in lingua si dica “bagnato come un pulcino”
Càrgh (inaré) cumpàgn a un sumàr: “carico come un somaro” si dice anche in italiano mentre credo che “eccitato (inaré) come un somaro” si dica solo in dialetto.
Strazè (f’tè) cumpàgn a un zénghen, trasandato (vestito) come uno zingaro.

Ed ora altrettanti similitudini usate,a quanto mi risulta, solo in dialetto:

Ignurànt ch’mé un càpp, e il coppo deve essere ben poco intelligente, se se ne sta esposto sul tetto al cocente sole d’estate e alle intemperie d’inverno!
Inamurè cumpàgn a un gàt ràss, pare che i gatti rossi s’innamorino più degli altri!
Mérd ch’mé la lòch, è un noto ed antico detto, nel quale “mérd” è sinonimo di “spórch” e per il resto ho sempre creduto che l’allocco (l’alòch) fosse un uccello più sporco degli altri finché non ho saputo che “la lòch” è la (sporca) pula delle biade!
Catìv ch’mé al lóii, anche qui, da piccolo, credevo che si trattasse del mese di luglio (lóii), ma poi ho capito che si tratta del loglio, l’erba cattiva che si trova nel grano!
Magnèr ch’mé un lùder, questo “lùder” è l’ingordo, ma la parola deriva dal latino l’utreum = otre (ed anche il poco usato ludro), cioè riempirsi come un otre!
Lóngh (o lànt) cómme la mèsna (ed sàtta), si dice a chi è lento e comunque “lungo” a prepararsi, come la macina di sotto dei mulini che era più grossa e lenta dell’altra.
Indrì ch’mé i m’lón, suppongo che il detto si riferisca alla maturazione dei meloni che, a quanto pare, è lenta. Si dice a chi è ancora indietro, non è ancora pronto.
Smórt cumpàgn a una pèza lavè. In lingua si dice qualcosa di simile a “pallido come un cencio”; qui abbiamo “smórt” che è anche italiano (smorto), ma che è la sola parola bolognese per “pallido” .Quanto alla “pezza lavata” …si suppone sia bianca!
Imbariègh (in bulàtta) ch’mé un pózzel (un zvàtt). Si tratta di due improbabili maschi della puzzola e della civetta che vengono usati unicamente in questa frase, pure doppia: gli stessi animali sono paragonati a chi è molto ubriaco ed anche a chi è completamente al verde: in bolletta, in questo caso la bolletta del Monte di Pietà e, in precedenza, il bollettino con l’elenco dei falliti (A. Menarini).
Svélt cumpàgn a una sanguàttla (un pàss). Evidentemente la sanguisuga è svelta (ma io non ne so nulla), mentre il pesce, che abbiamo già visto nella similitudine con “sano”, è sicuramente svelto e guizzante.
Màt cumpàgn a un s’dàz! Questa è una delle più belle del nostro dialetto, che ci portiamo anche in italiano “matto come un setaccio”. Perché il setaccio? Perché esso fa passare il meglio (la farina) e trattiene il peggio (la crusca). Sarà matto o no?
Segrét ch’mé al tràn. Bella anche questa, benché sia ironica: cosa ci può essere di meno segreto di un tuono, che tutti possono udire? Si dice infatti ad una persona che non sa tenere i segreti!
Sàurd ch’mé un zócch. Un altro maschile strano (di zócca = zucca) che è usato solo in questo caso, quando si vuole definire chi è completamente sordo.
Pìz che un zóp (ch’an la tróva mài pèra). È una frase che si dice a chi non è mai contento, a chi trova sempre qualcosa da dire (praticamente a un “sufésstich”!) e precisamente a chi “non la trova mai pari” proprio come (paragone impietoso) uno zoppo!
Bàn ch’mé al pàn. Dicesi di persona buona: cosa c’è di meglio del pane?
Per ora mi sono ricordato di queste similitudini, ma se ne ricorderò altre le aggiungerò a questo capitolo.

Paolo Canè

giovedì 1 luglio 2010

AL MUDÈL (n. 344)

Una famàusa scultrìz l’avèva al só stùdi atàis a la séd d’una bàla ed fachén e, quànd l’avèva bisàggn d’un mudèl, la telefonèva al càpo par fèrsen mandèr só ón. Un dé la urdné: "Ch’a m’in mànda só ón bèl rubósst ch’ai ò da fèr una stàtua d’Ercole".
E, dàto che la scultrìz la paghèva bàn al sarvézzi, al càpo al ciamé sóbbit ón nóv chl’éra un ignurantàz, mó l’avèva un gràn fìsich:
"Pepìno, và só da la sgnàura dl’ùltum piàn mó am archmànd, gìra coi strazulén, brìsa dìr del buièt e avèrra la bàcca sàul par dìr bongiórno e arivedéci. Èt capé?"
"Stè tranquéll" e vì ch’l’andé.
Dàpp un póch Pepìno al turné indrì tótt móff e ai arivé una telefonè da la scultrìz, tótta incazè: "Mó chi m’avìv mandé? Avì da dìr a ch’al vilàn ch’as vargàggna! Vuèter con mé avì finé!" e la sbaté zà al teléfon.
Al càpo al ciamé sobbìt al fachén: "Disó Pepìno, cus’él suzest?"
"Gnìnta, a sàn andè só ai ò sunè, ai ò détt permèsso e lì la m’ha détt - Si spogli - e acsé ai ò fat. Òia fàt mèl?"
"Nà, mó và pùr drétt".
"Dàpp lì l’à détt - Mi mostri il torace - e acsé ai ò fàt. Òia fàt mèl?"
"Nà, t’è fat banéssum, mó po’ ch’s’ai él susezt?"
"Dàpp la m’à détt - Mi mostri i bicipiti - …ècco, lé a cràdd d’an avàir brìsa capé pulìd…!"

L’AMLÉTO (n. 343)

Un èter fatarèl vàira. L’atàur bulgnàis Andrìcco Cappelli l’éra un bèl sugèt, brèv mó ànch mèz màt. L’avèva un zért caraterén e al rezitèva sàul s’ai n’avèva vóiia! Una sìra ch’al fèva la pèrt d’Amléto all’Aréna o al Brunètti, al fé una pàusa tànte lónga int al “monologo” che un spetadàur al salté só e al gé: "Bàn, an andàggna pió avànti?". E Cappelli: "Póst t’è détt acsé, a stàg zétt èter zéncv minùd!". E al fé acsé!
P.S.: Un’ètra versiàn la c’càrr d’una pàusa un póch tróp lónga, dàpp: "Essere o non essere" e una vàus la gé: "Dezidét mò, una bóna vólta!" E tótt zà a rédder, mó… a mé am piès de pió la prémma!

AL RIGOLÈTTO (n. 342)

Un fàt vàira. Al Teàter Régio ed Pèrma ai éra al Rigolètto e al personàg’ ed Gìlda l’éra interpretè da la Lina Pagliùghi, un sopràn dimóndi famàus, mó che la p’sèva pió d’un quintèl, tànt che l’avèva una bèla gàta a fères cràdder, quànd l’interpretèva la Mimì d’la Traviàta, che la muré tìsga, lì ch’l’éra al ritràt d’la salùt!
Int la séna che al Rigolètto l’avèva da tirèrs drì al sàch con dànter la Gìlda, al fèva, naturalmànt, una fadìga d’la madóna, alàura ai salté só una vàus da la pizunèra ch’la gé: "Fa bàn dù viàz!".

ÒCIO AI SPÌGUEL (n. 341)

Al sgnàur Calìsto l’éra disperè parché só muiér l’éra mórta improvisamànt: gnànch al tàmp ed dìr una paróla, ch’l’éra vanzè dùra in vàtta a la pultràn-na! Quànd i bechén i purténn la càsa zà par la schèla, sicómm che an i éra b’sa sìt e la pasèva par pùch zentémeter, i ciapénn con la càsa càntr’un spìguel e as sinté un lamànt; l’era la muiér ‘d Calìsto ch’la parèva mórta mó l’éra ànch vìva: ai éra caschè ànch al dutàur! Sóbbit al funerèl al d’vinté una fèsta, mó dàpp a póch la sgnàura resusitè la dé un tramlót e la s’ré i ùc’: stavólta l’éra mórta dabàn! I ciaménn un’ètra vólta i bechén ch’i purténn vì la càsa e, apànna ch’imbuchénn la schèla, Calìsto, tànt par stèr int al sicùr, a gli gé: "Òcio ai spìguel!"

BARI, BARA, BARO, GIOCHI E TRUCCHI

Non esistono in dialetto le prime tre parole, non sempre con lo stesso significato.
Bari è esclusivamente il capoluogo della Puglia che noi chiamiamo esattamente allo stesso modo dell’italiano ed è l’unica parola di questa serie con uguale grafia, pronuncia e significato esclusivo.
Bara è la càsa da mórt che è l’unica definizione dialettale. Esistono altre parole come catafèlch e catalèt (quest’ultima ormai in disuso), ma si tratta di cose diverse; bàra ha anche il significato di “barra”(con una sola “r” canonica) il cui plurale è bàr.
Baro, cioè colui che imbroglia al gioco, non esiste proprio e,per definire un individuo del genere, noi diciamo “ón ch’al fà d’i balutén” (in italo bolognese “uno che fa dei balotini”). E’ una parola, a quanto mi risulta, soltanto nostra e non ne conosco l’etimologia: ci sarebbe un’eventualità,ed è solo una mia supposizione, ma è un po’… tirata per i capelli. Più che alle “ballotte”, castagne bollite che noi chiamiamo balùs (balògi!), balutén potrebbe essere collegato all’altra parola italo-toscana “balocco”, in questo caso”gioco, giochetto, trucco”. Sempre per restare nel campo della fantasia, un altro collegamento si potrebbe fare con bàla, non nel significato di “compagnia”, ma nell’altro di “bugia, frottola, imbroglio”. Ma ripeto: sono solo mie fantasie da notte insonne! Abbiamo altri termini per definire il baro: imbruiàn, baluitinèr, ecc., ma nessuna collegata o simile all’italiano “baro”.
Trucco, invece, è una strana parola multiuso: trócch ha due significati uguali alla lingua, il trucco di prestigiatori, maghi e imbroglioni (col suo diminutivo trucàtt) e il “maquillage” delle signore. Poi c’è un terzo significato, solo bolognese, di “pezzo, trancio, porzione” di qualcosa, di carne, di burro, di cioccolata o altro, il cui diminutivo, in questo caso, non sarà più trucàtt, ma trucadén. Nemmeno di questa accezione nostrana ho idea sulla provenienza e non mi viene in mente nessuna parola italiana, germanica o francese che possa somigliare a trócch, a parte il francese “tranche” (trancio) analogo come significato,ma che ha poco in comune con la grafia.
Gioco, sempre in materia di trucchi e giochetti, in dialetto fa zùgh. In verità, nel XVI secolo, quando il persicetano Mitelli inventò il “Gioco dell’Oca” lo chiamò zuogh, e questo mi fa pensare che a quel tempo si dicesse veramente così, similmente alla voce singolare del toscano “giuoco”, voce singolare che forse col tempo è sparita, lasciando solo il plurale zùgh che infatti oggi è invariata: un zùgh, dù zùgh! Una voce che usiamo per il calcio (al zugh dal fotbàl), per il lotto (al zùgh dal lót) e anche per qualsiasi altro gioco, ma NON per dire “giocattolo”, ciò che a differenza dell’italiano non si chiamerà anche “gioco” e ancor meno col toscano “balocco”, ma solo zuglén.
Infatti per dire che i bambini fanno i giochi, diciamo i ragazù i fàn i zuglén e non certo i zùgh, perché altrimenti sarebbero giochi di prestigio o altri simili!
E qui attenzione ad una sfumatura tanto piccola che potrebbe sfuggire a che non è bolognese verace: se diciamo fèr i zuglén, intendiamo “giocare di bambini” (ma anche di adulti, se sono erotici!), ma se diciamo fèr d’i zuglén (col partitivo), intendiamo fare dei giochetti e anche fabbricare dei giocattoli. Infatti la “fabbrica di giocattoli” si chiama “la fàbrica d’i zuglén”.

Paolo Canè

At salùt.

Il bolognese non è generalmente molto espansivo e perciò le forme di saluto sono poche. La più diffusa è “at salùt” (ti saluto), l’altra è “adìo” ed è curioso che entrambe si dicono, a persone alle quali si dà del “tu”, sia quando ci si incontra che quando ci si accomiata, mentre, almeno “addio” in italiano si dice solo quando si va e quando si ha poche speranze di tornarsi a rivedere.
Il bolognese è così poco espansivo che altre due forme, pure abbastanza diffuse, le prende in prestito, storpiandole leggermente, dall’italiano: una quando si arriva e si saluta, solitamente, un gruppo di persone alle quali si dà del “lei” ed è “bongiórno”, (o “bonaséra”), l’altra quando si va via ed è “arivedérci”(o “bonanót”), quando addirittura non i buffi “arivederlo” e “arivedérsi”!
Quest’ultimo saluto mi porta a parlare di una forma di commiato, prettamente dialettale, equivalente al nostro “arrivederci” che è “a se v’dràn” (ci vedremo), che spesso traduciamo nel nostro italiano con “ci vediamo”. Qui la stranezza sta nel fatto che in dialetto si usa il verbo al futuro, mentre in italiano si usa al presente, tanto che poi qualcuno ritraduce in dialetto e dice “a se v’dàn” (cioè… si vediamo).
Curiosa è, infine, la locuzione “mó vè chi é qué” (ma guarda chi c’è qui), detta da chi arriva, che sostituisce “adìo” o “at salùt” o “bongiórno” (o “bonaséra”), per salutare e contemporaneamente per dimostrare la sorpresa di trovare una persona inaspettata. Ma io credo che si tratti semplicemente del solito stile ridanciano dei petroniani i quali pare abbiano quasi vergogna di usare forme di saluto più convenzionali.Credo che le forme di saluto in…arrivo e in partenza, siano solo queste cinque o sei.
Il dialetto non possiede il “ciao”, se non quando si parla in lingua. “Ciao” è la contrazione della vecchia formula, pronunciata con accento veneto, “Sciao vostro” (schiavo vostro) ed è una parolina così breve e simpatica che ormai si usa in quasi tutte le lingue del mondo! Nel Seicento (e forse anche un po’ prima e un po’ dopo) erano diverse le forme di smancerie, come “Servo vostro” o “Servitor suo” che diede origine all’antico saluto bolognese, ormai da moltissimi anni in disuso, “tersuà”, un saluto che qualcuno di ostina a fare rivivere, ma che suona alquanto stucchevole, anche perché, almeno all’origine, sia “tersuà” che “ciao” si dicevano a persone alle quali si dava del “lei” o del “voi”.
Poi ci sono altri tentativi di nuove invenzioni, le quali però sono destinate a rimanere ad uso e consumo di chi le ha inventate e dei suoi amici. E’ il caso di “arvàddres” che vorrebbe essere un “arrivederci”, ma che suona poco bolognese e falso come una moneta da tre euro. Vista l’invasione delle parole inglesi che sembra tanto di moda, tanto valeva inventare “baibài” (da bye bye) o “a s’lóngh” (da so long) che sono ugualmente fantasiose, leggermente antipatiche e poco bolognesi.

Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 94)

Il sonetto è incorniciato e corredato da tre stornelli in italiano:

Fior di limone
ed ora si può dire che è abolita
perfino ancora l’invernal stagione.

***

Fiore tiranno
a veder tanto pelo e tante pelli c’è
da augurarsi inverno tutto l’anno.

***

Botton di rosa
è attratto là perfino l’Ehi! Ch’al scùsa
è attratta là ogni amante ed ogni sposa.

***

Uno stornello trovato nella Strenna dell’anno 1887 di “Ehi! Ch’al scùsa”( anche se non saprò mai chi era questo Don Cicotti né il sig. Fontanelli o Fontanile):

Fiàur ‘d Dàn Cicót,
a pensèri del vólt as d’vànta màt
che dàpp l’utantasèt vén l’utantót!
(dài pinsìr filosofich ‘d Funtanéll)

***

Filastrocca della “Favola di Leonora”:

Balàn-na, mì bèla balàn-na
dàm tànta cadàn-na,
ch’a pósa andèr a la spiàza dal mèr
a truvèr mì fradèl chèr.

…ma le oche di Rimondino continuavano a dire:

Lùs la lón-na, lùs al sàul,
mó quàlla ch’s guérna l’à pió splendàur.

…e alla fine di ogni favola:

Lónga la fóla, stràtta la vì,
gì mò la vóstra ch’aiò détt la mì!

(dalle Favole Bolognesi di C. Coronedi Berti)

Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 93)

Am spórz a la bànca vóstra
pr’avàir la gràzia vóstra
quànd a s’rò par murìr
a v’arcmànd l’ànma mì!

***

Sgnàur am métt zà,
v’gnì a visitèr la póvr’ànma mì,
fè ch’la séppa devóta d’la Vérgin Marì.

(M.Bianconi, Bologna minore negli aspetti di ieri, 1969-opera postuma)

***

Iersìra int el zéncv
al ciarghén al pasèva,
mó l’Ester ciamèva:
“Vén qué, schiciulén!”
“Non posso venire,
la mamma mi sgrida;
non posso più fare l’amore con te!”

(Mario Bianconi- dai suoi ricordi d’infanzia in “Bologna minore”)

***

Bologna, 1885: pubblicità in rima per la ditta Emilia G. ved. Roversi, dell’omonima pellicceria in via Garofalo, 2 (in faccia a piazza Cavour):

Un negózi in Bulàggna é stè piantè
e ch’l’é própi quelcósa d’elegànt
e, quàll ch’l’é méii, l’é tànt a bàn marchè
che a spànnder própi ai và una màsa ed zànt.

Ai é davàira al mód d’èser cuntént
pr’al lavurìr e par la qualitè
e pò di ugèt da séglier ai n’é tànt
che del vólt a s’arèsta ànch incagliè.

Andèi, andèi infén ch’l’é fràdd e a v’drì
che quànd ‘na vólta sàul ai sièdi andè,
a la prémma ucasiàn ai turnarì

e a condusrì parfénna i vùster fiù,
la nóna, la muiér, la mèd’r e al pà
int la Strè d Garófel, nómmer dù!

(Strenna dell’anno 1885 di Ehi! Ch’al scùsa)

Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 92)

Cùss’avìv fàt Mèder Marì
ch’avì tràt acsé bèl zìl?
S’an l’ò tràt a l’ò da trèr
l’uraziàn dal nóster Sgnàur
chi’n la sa, l’à da imparèr!
Chi’n la sa ‘l dé dal Giudézzi,
trài cadàn al cól, bàn strécchi.

***

Mi stendo in letto e vedo la faccia di Dio
così gran in Dio avàir da murìr,
chi spera in Dio non va a perir.
Questa notte ombre scure e tenebrose:
il corpo dorme, l’anima sia sicura!
Jesus Nazarenus Rex Judeorum salvo mi fa!
Bonaséra , Mèder dal bàn Gésó
dès una bóna strè ancàura a nó!
Preghè al vóster Bambén Gesó
ch’al s’la dàga ancàura a ló!

***

A vàgh a lèt con l’Ànzel perfèt
con l’Ànzel di Dì, con San Bartalmì
che dal zìl im fàn la vì.
Angelo mio bello reggimi col tuo consiglio,
salvami nel periglio.

***

Sgnàur am métt zà,
a livèr mé n’al sò,
chèso mai ch’an um livéss
a d’mànd trài gràzi a Vó, mi Sgnàur:
Cunfsiàn, Comeniàn, Óli Sànt,
am arcmànd a vó, Spìrit Sànt.

Variante:

Sgnàur am métt zà,
an sò s’am livarò só,
quàter gràzi a d’mànd da Vó:
Cunfsiàn, Comeniàn, Óli Sànt,
Spìrit Sànt a tótti egli àur
v’gnì a visitèr la póvr’ànma mì,
a vàgh a lèt e così sì!

Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 91)

Quando il Teatro dei Burattini era per i bolognesi d’una volta, ciò che oggi sono televisione, cinema e giornali insieme, imperava il grande burattinaio Angelo Cuccoli (quello del famoso “Paniràn”). Ecco alcune battute dei suoi personaggi:

RICETTA DI FAGGIOLINO

Recipe panum candidum
Cum stortibus perfettis,
Panem, salamen, ostricas,
E quattro broccolettis.
Sputus in faccia domini;
Al terzio scapellottus
A casa camminamini.
Fagiolin doctoribus.

***

RINGRAZIAMENTO DI FAGGIOLINO

Par prumóver tànta guèra / Adès, prémma ed terminèr,
Parché andéss lógh c’tàis in tèra; / Al mì d’vàir l’é ‘d ringrazièr,
Mó invézi ‘st invidiùs, / Per l’afèt di mì z’tadén
Svargugnè, tótt quànt confùs / Ch’i àn in vérs ed Fasulén.
I àn paghè la só finziàn, / In stasìra spezialmànt,
Tótt in fànnd al Paniràn. / Mé tótt quànt am sént cuntànt,
Mé con quàsst a vóii finìr, / D’avàir dè un póch la fróssta
Parché tróp arévv da dìr / A ch’i tèl ch’la fàn ingióssta,
Però av déggh con vàus giulìva, / Spezialmànt ai fèls amìgh
O bulgnìs, evìva, evìva! / Ch’i s’en tólti tànti brìgh!

(da “Felsina, Bononia, Bologna” 1962)

***

Quando qualcuno bussava alla porta, il petroniano DOC non si limitava a chiedere chi fosse, ma, non potendo rinunciare all’ironia e alla sua mania di citare, diceva:

Chi é ch’péccia, ch’sbàt e ch’smartèla a la pórta duturèla?
(diceva il Dottor Balanzone in una nota commedia di burattini)
L’é Fasulén ch’al fà la cagarèla!
(rispondeva l’ospite, citando la risposta beffarda di Fagiolino!)

(dai ricordi di mio padre)

***

Filastrocche di devozione e preghiere serali.

Don, don: l’é fèsta.
La Madóna é v’gnó a la f’nèstra,
con trì curdón in tèsta,
al pió bèl casché int al mèr,
San Giovàni l’andé a ciapèr,
al ciapé un bèl gardlén,
al le duné a Gesó Bambén.

Paolo Canè

lunedì 14 giugno 2010

Libri: "Un quèl bulgnàis".



Tutti gli amici e conoscenti interessati al dialetto bolognese e alla nostra cara Bologna, che, confortati dal gradimento di: «V’gnì mò qué Bulgnìs» (2006) e di «Brìsa par critichèr…» (2008) e lusingati dalle richieste avute, Tiziano Costa ed io abbiamo fatto uscire «Un quèl bulgnàis» (2010) il terzo libro di fatti, storie e storielle che, come al solito, abbiamo scritto, con mano leggera, unicamente per il divertimento nostro personale e dei nostri… 24 lettori (uno meno di quelli di Manzoni), i quali non saranno numerosissimi, ma certamente affezionatissimi!
Ricordo che il libro si potrà trovare in tutte le migliori librerie della città (e forse anche in qualche edicola attrezzata) a partire da oggi!
Auguro a tutti "Buon divertimento".

Un saluto da Paolo Canè

giovedì 10 giugno 2010

Slapazócch

È un vocabolo che i dizionari sbrigano laconicamente con la definizione “scemo”, senza dire nient’altro! Menarini, nel suo “Bolognese invece”, al contrario, gli dedica una mezza pagina (la 52) e forse ci sarebbe ancora da dire! Egli, come gli altri, scrive slapazócc, ma io preferisco la grafia con la “h” finale, per indurre il lettore a capire la “c” dura. Poi, magari, un giorno cambierò idea: “tout passe…”! Il nomignolo, a quanto scrive, è stato usato sia dall’Ungarelli che dal Testoni, italianizzato in “slapazucchi” e sarebbe uno dei tanti soprannomi dati agli Austriaci dai bolognesi, come scriveva Fulvio Cantoni nel 1923 prendendo spunto dall’opera“I moti del 1820 e del 1821 nelle carte bolognesi”, “I tedeschi erano detti dai contadini slapazôch, spruch, zarôch, sunzòn, perché sporchi, rozzi e bisunti” (cito sempre testualmente). Menarini ricorda anche che il nomignolo sunzón (stavolta con l’accento acuto alla maniera sua…e mia) significava “sudicioni” da sónza =sugna = sego, poiché pare lo usassero sia per i baffi che per insaporire le minestre (!) da cui “mangiasego”. Slapazócch, continua il Maestro, è diffuso in tutta l’Italia Settentrionale (e aggiungo fino a Roma, poiché lo usò anche il Belli) ed è comunemente impiegato come sinonimo di “individuo rozzo e balordo”, ma attende ancora una “spiegazione suffragata da adeguate indagini”, poiché sono insoddisfacenti le ipotesi avanzate dall’Ungarelli (tedesco läppisch = stupido), dal Maranesi (ted. Lappsüchtig “tocco dalla stupidità dei Lapponi” e di altri (ital. settentr: “slappare” = mangiare con rumore, avidamente). Menarini pensa che converrebbe indagare su termini austriaci, come schlafsüchtig (morto di sonno) o Schlampenzeug (straccio) ed eventuali rapporti con altri in –ucco (zarucco, patalucco, patatucco, ecc.).Io non vorrei sembrare presuntuoso e mettermi al livello di uno studioso della sua portata, anzi mi sembra strano che, pur intuendo che le ipotesi fossero poco valide, pur avvicinandosi ad una nuova, eventuale ipotesi, non ne abbia accennato. Lui così preciso, colto e documentato . Io noto due cose: che anche il Cantoni mette la “h” finale come me e che l’ipotesi del Maranesi sui Lapponi mi sembra ridicola, con tutto il rispetto! Detto ciò mi permetto di avanzare una nuova ipotesi che ho preso dal Cortelazzo: il termine “schiappa”indica chi è poco abile a fare ciò che fa e deriverebbe dalla schiappa che era una scheggia di legno. I contadini o boscaioli di una volta venivano, infatti, in città a spaccare la legna da ardere, cioè a ridurre in schiappe i pezzi grossi. Ogni zona settentrionale aveva termini diversi, ma simili: s’ciappein, schiapin, schiapa, ecc. (termini che forse, dico io, hanno originato soprannomi e cognomi del tipo Scappino, Chiappa, Chiappini che perciò nulla avrebbero a che fare con le…chiappe!). Questi lavoratori venivano detti s’ciapazuche o schiapazuche, anche nel senso dispregiativo di chi fa un lavoro malamente, senza troppa cura o precisione. Si pensa che il significato non avrebbe nulla a che fare con le “zucche” ma con i “ciocchi” (nei nostri dialetti zuch) e perciò “spacca-ciocchi” che mi sembra più attinente alla mansione. Si registra infatti s’ceppalegna (taglialegna) e il piacentino s’ciapazocc. Il Cortelazzo suppone che il passaggio da “ poco abile” a “persona sciocca” (il nostro slapazócch) sia dovuto alla maschera S’ceppin vestita da rozzo boscaiolo!

Paolo Canè

PÈVEL

È la versione dialettale bolognese del mio nome: Paolo. Una versione che sta andando velocemente in disuso (oggi si usa per lo più Pàolo anche in dialetto), mentre sembra resistere di più il suo diminutivo pavlén (Paolino).
A proposto di questo nome e del suo diminutivo, non posso fare a meno di osservare, come già fatto altrove, la curiosità tipica del bolognese (e anche del tedesco), dove, a differenza dell’italo-toscano in cui per fare i diminutivi cambia solo la desinenza, mentre la base resta uguale, da noi, talvolta, cambia anche la base! O meglio, cambia una vocale della base che può essere ad inizio di parola (érba e arbén-na oppure óca e ucarén-na, ecc.), ma anche a metà della parola (Pèvel e Pavlén, come in questo caso, o lèt e litén, ecc.). Non esiste una regola precisa e solo alcune parole presentano questa curiosa anomalia ed è anche per questo che il bolognese è difficile per chi non sia nato qui: noi queste cose le abbiamo imparate inconsciamente ad orecchio!
Ma Pèvel induce ad altri ragionamenti. In italiano è, come detto, Paolo, in francese, inglese e tedesco e qualche altra lingua Paul (stessa scrittura per pronunce diverse), comunque tutte versioni che contengono il dittongo –ao oppure –au.
In bolognese e anche nelle lingue slave (Pavel), al contrario, la vocale tonica è seguita dalla “v”. Forse ci sarà qualche motivo specifico, a me sconosciuto, ma ho pensato che esso possa nascere dal latino. Il nome Paulus deriverebbe da paucus, cioè poco, piccolo, ma esso potrebbe anche essere stato incrociato con parvus, che significa sempre piccolo, ed ha la “v”! Beninteso questa è solo una mia supposizione che andrebbe però ad avvalorare quanto sostengo da tempo e cioè che le lingue europee e i dialetti italiani, a differenza del toscano (e perciò dell’italiano), sono più aderenti alla morfologia latina! È un fenomeno che mi sembra da un lato normale e dall’altro strano: normale perché ogni dialetto o idioma neolatino deriva autonomamente dal latino e perciò parallelamente al dialetto toscano; strano, perché proprio l’italiano che è la lingua erede dei Romani, nata qui in Italia, è maggiormente diversa dall’originale!
Spagnolo e portoghese (non so nulla del rumeno, ma credo che si dica in maniera simile a Pavel), cioè le due lingue neolatine, non hanno né il dittongo –au/-ao, né la “v”, ma fanno Pablo e qui mi produrrò in una delle mie solite…illazioni. È probabile che la ”b” sia originariamente la “v” di un antico “Pavlo” e che sia poi diventata “b” a causa del caratteristico betacismo degli iberici, i quali scambiano le due labiali “p e b”, ciò che è andato ad influenzare tutti i nostri dialetti meridionali, dove si dice “varca e vase” per “barca e baci” e anche “bidi e abbocato” per “vidi e avvocato”!

Concludo qui le mie fantasie, anche perché, se qualche glottologo le dovesse leggerle, potrei anche trovarmi in pericolo di vita!

Paolo Canè

LA CAMBIÈL (n. 340)

La muiér ed Biànchi la sént che só maré als prélla int al lèt, e pò als lìva e al gìra par la stànzia, alàura l’impéiia la lùs e l’ai d’mànda:
"Disó, cumm’éla t’an dórum brìsa?"
"Stà bóna, d’màn aiò da paghèr la cambièl ed Romàno e an ò brìsa i sóld!"
"Ciàmal al teléfon".
"Mó nà ch’am vargàggn".
"Móché vargàggna d’Egétt, al vól dìr ch’ai teléfon mé".
E la fà acsé: "Prónto? Romàno? A sàn la muiér ed Biànchi e ai v’lèva dìr che mi maré an dórum brìsa, parché an à brìsa i sóld par la vóstra cambièl ch’la schèd d’màn".
E Romàno l’arspàus: "Và bàn, ch’ai dégga pùr ch’al pól andèr a durmìr, parché adès a stàg z’dàzzd mé!".