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venerdì 23 luglio 2010

SIMILITUDINI

La similitudine è una figura retorica che consiste nel “paragonare una cosa ad un’altra” e nel XIII secolo fu proprio Guidotto da Bologna che così la definì. Si usa, ritengo io, per rafforzare un concetto e, soprattutto nei dialetti, per sottolineare l’aspetto comico delle cose. I dialetti sono “bambini” che amano scherzare e che a volte vogliono apparire simpatici per forza, mentre la lingua è un “adulto” che scherza di meno e che a volte tende ad essere serioso e pedante! Ma anche col dialetto bisogna fare attenzione: la similitudine, la battuta e lo scherzo debbono essere misurati per essere graditi e simpatici, chi invece ne abusa, finisce per ottenere il risultato contrario e ciò diventa antipatico ed insopportabile. Lo diciamo anche ai bambini (quelli veri) quando esagerano: “Il gioco è bello finché è corto”.
Qui ho raccolto una trentina di similitudini che ho diviso in due gruppi: quelle che, uguali o molto simili, troviamo anche in lingua e quelle che, per quanto mi risulta, abbiamo solo nel nostro dialetto (e forse in altri). Come ho detto, si può notare come quelli esclusivi del dialetto siano più simpatici degli altri. Altra caratteristica è quella che, almeno la metà dei seguenti esempi, usano come paragone un animale, mentre l’altra metà si riferisce a cose. Infine, ricordo che in bolognese il “come” viene detto in molti modi: cómm, cómme, cùm, cùmm, ch’mé (che io scrivo con l’acca per indurre il lettore a prima vista alla pronuncia dura della “c”), cumpàgn e cumpàgna!

Bèl ch’mé un ànzel che abbiamo anche in italiano “bello come un angelo”
Sudèr cumpàgn a una bìstia, sudare come una bestia, anche se in dialetto “bìstia” è il bovino per antonomasia e quello lavorava molto e perciò sudava!
Infiè (gànfi) cómme un bót o (una butaràza), gonfio come un rospo.
Sfighè ch’mé un càn in cìsa e i cani in chiesa, si sa, hanno poca fortuna!
Brótt ch’mé al dièvel (un dèbit, la fàm), il diavolo è brutto dappertutto, ma forse le similitudini con il debito e la fame sono più tipicamente dialettali.
Córrer cumpàgn a una lìvra, e la lepre è l’animale veloce per antonomasia.
Antepàtich ch’mé una mérda, paragone non fine, ma credo si dica anche in lingua!
Testèrd cómm un móll e il mulo lo è, anche se non è l’unico animale ad esserlo.
Lavurèr cumpàgn a un nàigher, si dice anche in italiano, ma non perché i negri (oh, pardon, i “di colore”!) lavorino più degli altri, quanto perché un tempo essi erano schiavi e perciò erano costretti a lavorare.
Spórch cómme un ninén, ed è buffo sottolineare come il maiale si chiami “ninén” a Bologna, “busgàtt” a Ferrara e “baghén” a Ravenna: mi chiedo come lo chiameranno ad Argenta che si trova nel punto dove queste tre province si toccano, forse “maièl”!
Mègher ch’mé un óss e non c’è nulla di più magro di un uscio!
Sàn cumpàgn a un pàss, sempre che i pesci siano veramente sani.
Móii cómme un pipién: credo che anche in lingua si dica “bagnato come un pulcino”
Càrgh (inaré) cumpàgn a un sumàr: “carico come un somaro” si dice anche in italiano mentre credo che “eccitato (inaré) come un somaro” si dica solo in dialetto.
Strazè (f’tè) cumpàgn a un zénghen, trasandato (vestito) come uno zingaro.

Ed ora altrettanti similitudini usate,a quanto mi risulta, solo in dialetto:

Ignurànt ch’mé un càpp, e il coppo deve essere ben poco intelligente, se se ne sta esposto sul tetto al cocente sole d’estate e alle intemperie d’inverno!
Inamurè cumpàgn a un gàt ràss, pare che i gatti rossi s’innamorino più degli altri!
Mérd ch’mé la lòch, è un noto ed antico detto, nel quale “mérd” è sinonimo di “spórch” e per il resto ho sempre creduto che l’allocco (l’alòch) fosse un uccello più sporco degli altri finché non ho saputo che “la lòch” è la (sporca) pula delle biade!
Catìv ch’mé al lóii, anche qui, da piccolo, credevo che si trattasse del mese di luglio (lóii), ma poi ho capito che si tratta del loglio, l’erba cattiva che si trova nel grano!
Magnèr ch’mé un lùder, questo “lùder” è l’ingordo, ma la parola deriva dal latino l’utreum = otre (ed anche il poco usato ludro), cioè riempirsi come un otre!
Lóngh (o lànt) cómme la mèsna (ed sàtta), si dice a chi è lento e comunque “lungo” a prepararsi, come la macina di sotto dei mulini che era più grossa e lenta dell’altra.
Indrì ch’mé i m’lón, suppongo che il detto si riferisca alla maturazione dei meloni che, a quanto pare, è lenta. Si dice a chi è ancora indietro, non è ancora pronto.
Smórt cumpàgn a una pèza lavè. In lingua si dice qualcosa di simile a “pallido come un cencio”; qui abbiamo “smórt” che è anche italiano (smorto), ma che è la sola parola bolognese per “pallido” .Quanto alla “pezza lavata” …si suppone sia bianca!
Imbariègh (in bulàtta) ch’mé un pózzel (un zvàtt). Si tratta di due improbabili maschi della puzzola e della civetta che vengono usati unicamente in questa frase, pure doppia: gli stessi animali sono paragonati a chi è molto ubriaco ed anche a chi è completamente al verde: in bolletta, in questo caso la bolletta del Monte di Pietà e, in precedenza, il bollettino con l’elenco dei falliti (A. Menarini).
Svélt cumpàgn a una sanguàttla (un pàss). Evidentemente la sanguisuga è svelta (ma io non ne so nulla), mentre il pesce, che abbiamo già visto nella similitudine con “sano”, è sicuramente svelto e guizzante.
Màt cumpàgn a un s’dàz! Questa è una delle più belle del nostro dialetto, che ci portiamo anche in italiano “matto come un setaccio”. Perché il setaccio? Perché esso fa passare il meglio (la farina) e trattiene il peggio (la crusca). Sarà matto o no?
Segrét ch’mé al tràn. Bella anche questa, benché sia ironica: cosa ci può essere di meno segreto di un tuono, che tutti possono udire? Si dice infatti ad una persona che non sa tenere i segreti!
Sàurd ch’mé un zócch. Un altro maschile strano (di zócca = zucca) che è usato solo in questo caso, quando si vuole definire chi è completamente sordo.
Pìz che un zóp (ch’an la tróva mài pèra). È una frase che si dice a chi non è mai contento, a chi trova sempre qualcosa da dire (praticamente a un “sufésstich”!) e precisamente a chi “non la trova mai pari” proprio come (paragone impietoso) uno zoppo!
Bàn ch’mé al pàn. Dicesi di persona buona: cosa c’è di meglio del pane?
Per ora mi sono ricordato di queste similitudini, ma se ne ricorderò altre le aggiungerò a questo capitolo.

Paolo Canè

giovedì 1 luglio 2010

BARI, BARA, BARO, GIOCHI E TRUCCHI

Non esistono in dialetto le prime tre parole, non sempre con lo stesso significato.
Bari è esclusivamente il capoluogo della Puglia che noi chiamiamo esattamente allo stesso modo dell’italiano ed è l’unica parola di questa serie con uguale grafia, pronuncia e significato esclusivo.
Bara è la càsa da mórt che è l’unica definizione dialettale. Esistono altre parole come catafèlch e catalèt (quest’ultima ormai in disuso), ma si tratta di cose diverse; bàra ha anche il significato di “barra”(con una sola “r” canonica) il cui plurale è bàr.
Baro, cioè colui che imbroglia al gioco, non esiste proprio e,per definire un individuo del genere, noi diciamo “ón ch’al fà d’i balutén” (in italo bolognese “uno che fa dei balotini”). E’ una parola, a quanto mi risulta, soltanto nostra e non ne conosco l’etimologia: ci sarebbe un’eventualità,ed è solo una mia supposizione, ma è un po’… tirata per i capelli. Più che alle “ballotte”, castagne bollite che noi chiamiamo balùs (balògi!), balutén potrebbe essere collegato all’altra parola italo-toscana “balocco”, in questo caso”gioco, giochetto, trucco”. Sempre per restare nel campo della fantasia, un altro collegamento si potrebbe fare con bàla, non nel significato di “compagnia”, ma nell’altro di “bugia, frottola, imbroglio”. Ma ripeto: sono solo mie fantasie da notte insonne! Abbiamo altri termini per definire il baro: imbruiàn, baluitinèr, ecc., ma nessuna collegata o simile all’italiano “baro”.
Trucco, invece, è una strana parola multiuso: trócch ha due significati uguali alla lingua, il trucco di prestigiatori, maghi e imbroglioni (col suo diminutivo trucàtt) e il “maquillage” delle signore. Poi c’è un terzo significato, solo bolognese, di “pezzo, trancio, porzione” di qualcosa, di carne, di burro, di cioccolata o altro, il cui diminutivo, in questo caso, non sarà più trucàtt, ma trucadén. Nemmeno di questa accezione nostrana ho idea sulla provenienza e non mi viene in mente nessuna parola italiana, germanica o francese che possa somigliare a trócch, a parte il francese “tranche” (trancio) analogo come significato,ma che ha poco in comune con la grafia.
Gioco, sempre in materia di trucchi e giochetti, in dialetto fa zùgh. In verità, nel XVI secolo, quando il persicetano Mitelli inventò il “Gioco dell’Oca” lo chiamò zuogh, e questo mi fa pensare che a quel tempo si dicesse veramente così, similmente alla voce singolare del toscano “giuoco”, voce singolare che forse col tempo è sparita, lasciando solo il plurale zùgh che infatti oggi è invariata: un zùgh, dù zùgh! Una voce che usiamo per il calcio (al zugh dal fotbàl), per il lotto (al zùgh dal lót) e anche per qualsiasi altro gioco, ma NON per dire “giocattolo”, ciò che a differenza dell’italiano non si chiamerà anche “gioco” e ancor meno col toscano “balocco”, ma solo zuglén.
Infatti per dire che i bambini fanno i giochi, diciamo i ragazù i fàn i zuglén e non certo i zùgh, perché altrimenti sarebbero giochi di prestigio o altri simili!
E qui attenzione ad una sfumatura tanto piccola che potrebbe sfuggire a che non è bolognese verace: se diciamo fèr i zuglén, intendiamo “giocare di bambini” (ma anche di adulti, se sono erotici!), ma se diciamo fèr d’i zuglén (col partitivo), intendiamo fare dei giochetti e anche fabbricare dei giocattoli. Infatti la “fabbrica di giocattoli” si chiama “la fàbrica d’i zuglén”.

Paolo Canè

At salùt.

Il bolognese non è generalmente molto espansivo e perciò le forme di saluto sono poche. La più diffusa è “at salùt” (ti saluto), l’altra è “adìo” ed è curioso che entrambe si dicono, a persone alle quali si dà del “tu”, sia quando ci si incontra che quando ci si accomiata, mentre, almeno “addio” in italiano si dice solo quando si va e quando si ha poche speranze di tornarsi a rivedere.
Il bolognese è così poco espansivo che altre due forme, pure abbastanza diffuse, le prende in prestito, storpiandole leggermente, dall’italiano: una quando si arriva e si saluta, solitamente, un gruppo di persone alle quali si dà del “lei” ed è “bongiórno”, (o “bonaséra”), l’altra quando si va via ed è “arivedérci”(o “bonanót”), quando addirittura non i buffi “arivederlo” e “arivedérsi”!
Quest’ultimo saluto mi porta a parlare di una forma di commiato, prettamente dialettale, equivalente al nostro “arrivederci” che è “a se v’dràn” (ci vedremo), che spesso traduciamo nel nostro italiano con “ci vediamo”. Qui la stranezza sta nel fatto che in dialetto si usa il verbo al futuro, mentre in italiano si usa al presente, tanto che poi qualcuno ritraduce in dialetto e dice “a se v’dàn” (cioè… si vediamo).
Curiosa è, infine, la locuzione “mó vè chi é qué” (ma guarda chi c’è qui), detta da chi arriva, che sostituisce “adìo” o “at salùt” o “bongiórno” (o “bonaséra”), per salutare e contemporaneamente per dimostrare la sorpresa di trovare una persona inaspettata. Ma io credo che si tratti semplicemente del solito stile ridanciano dei petroniani i quali pare abbiano quasi vergogna di usare forme di saluto più convenzionali.Credo che le forme di saluto in…arrivo e in partenza, siano solo queste cinque o sei.
Il dialetto non possiede il “ciao”, se non quando si parla in lingua. “Ciao” è la contrazione della vecchia formula, pronunciata con accento veneto, “Sciao vostro” (schiavo vostro) ed è una parolina così breve e simpatica che ormai si usa in quasi tutte le lingue del mondo! Nel Seicento (e forse anche un po’ prima e un po’ dopo) erano diverse le forme di smancerie, come “Servo vostro” o “Servitor suo” che diede origine all’antico saluto bolognese, ormai da moltissimi anni in disuso, “tersuà”, un saluto che qualcuno di ostina a fare rivivere, ma che suona alquanto stucchevole, anche perché, almeno all’origine, sia “tersuà” che “ciao” si dicevano a persone alle quali si dava del “lei” o del “voi”.
Poi ci sono altri tentativi di nuove invenzioni, le quali però sono destinate a rimanere ad uso e consumo di chi le ha inventate e dei suoi amici. E’ il caso di “arvàddres” che vorrebbe essere un “arrivederci”, ma che suona poco bolognese e falso come una moneta da tre euro. Vista l’invasione delle parole inglesi che sembra tanto di moda, tanto valeva inventare “baibài” (da bye bye) o “a s’lóngh” (da so long) che sono ugualmente fantasiose, leggermente antipatiche e poco bolognesi.

Paolo Canè

giovedì 10 giugno 2010

Slapazócch

È un vocabolo che i dizionari sbrigano laconicamente con la definizione “scemo”, senza dire nient’altro! Menarini, nel suo “Bolognese invece”, al contrario, gli dedica una mezza pagina (la 52) e forse ci sarebbe ancora da dire! Egli, come gli altri, scrive slapazócc, ma io preferisco la grafia con la “h” finale, per indurre il lettore a capire la “c” dura. Poi, magari, un giorno cambierò idea: “tout passe…”! Il nomignolo, a quanto scrive, è stato usato sia dall’Ungarelli che dal Testoni, italianizzato in “slapazucchi” e sarebbe uno dei tanti soprannomi dati agli Austriaci dai bolognesi, come scriveva Fulvio Cantoni nel 1923 prendendo spunto dall’opera“I moti del 1820 e del 1821 nelle carte bolognesi”, “I tedeschi erano detti dai contadini slapazôch, spruch, zarôch, sunzòn, perché sporchi, rozzi e bisunti” (cito sempre testualmente). Menarini ricorda anche che il nomignolo sunzón (stavolta con l’accento acuto alla maniera sua…e mia) significava “sudicioni” da sónza =sugna = sego, poiché pare lo usassero sia per i baffi che per insaporire le minestre (!) da cui “mangiasego”. Slapazócch, continua il Maestro, è diffuso in tutta l’Italia Settentrionale (e aggiungo fino a Roma, poiché lo usò anche il Belli) ed è comunemente impiegato come sinonimo di “individuo rozzo e balordo”, ma attende ancora una “spiegazione suffragata da adeguate indagini”, poiché sono insoddisfacenti le ipotesi avanzate dall’Ungarelli (tedesco läppisch = stupido), dal Maranesi (ted. Lappsüchtig “tocco dalla stupidità dei Lapponi” e di altri (ital. settentr: “slappare” = mangiare con rumore, avidamente). Menarini pensa che converrebbe indagare su termini austriaci, come schlafsüchtig (morto di sonno) o Schlampenzeug (straccio) ed eventuali rapporti con altri in –ucco (zarucco, patalucco, patatucco, ecc.).Io non vorrei sembrare presuntuoso e mettermi al livello di uno studioso della sua portata, anzi mi sembra strano che, pur intuendo che le ipotesi fossero poco valide, pur avvicinandosi ad una nuova, eventuale ipotesi, non ne abbia accennato. Lui così preciso, colto e documentato . Io noto due cose: che anche il Cantoni mette la “h” finale come me e che l’ipotesi del Maranesi sui Lapponi mi sembra ridicola, con tutto il rispetto! Detto ciò mi permetto di avanzare una nuova ipotesi che ho preso dal Cortelazzo: il termine “schiappa”indica chi è poco abile a fare ciò che fa e deriverebbe dalla schiappa che era una scheggia di legno. I contadini o boscaioli di una volta venivano, infatti, in città a spaccare la legna da ardere, cioè a ridurre in schiappe i pezzi grossi. Ogni zona settentrionale aveva termini diversi, ma simili: s’ciappein, schiapin, schiapa, ecc. (termini che forse, dico io, hanno originato soprannomi e cognomi del tipo Scappino, Chiappa, Chiappini che perciò nulla avrebbero a che fare con le…chiappe!). Questi lavoratori venivano detti s’ciapazuche o schiapazuche, anche nel senso dispregiativo di chi fa un lavoro malamente, senza troppa cura o precisione. Si pensa che il significato non avrebbe nulla a che fare con le “zucche” ma con i “ciocchi” (nei nostri dialetti zuch) e perciò “spacca-ciocchi” che mi sembra più attinente alla mansione. Si registra infatti s’ceppalegna (taglialegna) e il piacentino s’ciapazocc. Il Cortelazzo suppone che il passaggio da “ poco abile” a “persona sciocca” (il nostro slapazócch) sia dovuto alla maschera S’ceppin vestita da rozzo boscaiolo!

Paolo Canè

PÈVEL

È la versione dialettale bolognese del mio nome: Paolo. Una versione che sta andando velocemente in disuso (oggi si usa per lo più Pàolo anche in dialetto), mentre sembra resistere di più il suo diminutivo pavlén (Paolino).
A proposto di questo nome e del suo diminutivo, non posso fare a meno di osservare, come già fatto altrove, la curiosità tipica del bolognese (e anche del tedesco), dove, a differenza dell’italo-toscano in cui per fare i diminutivi cambia solo la desinenza, mentre la base resta uguale, da noi, talvolta, cambia anche la base! O meglio, cambia una vocale della base che può essere ad inizio di parola (érba e arbén-na oppure óca e ucarén-na, ecc.), ma anche a metà della parola (Pèvel e Pavlén, come in questo caso, o lèt e litén, ecc.). Non esiste una regola precisa e solo alcune parole presentano questa curiosa anomalia ed è anche per questo che il bolognese è difficile per chi non sia nato qui: noi queste cose le abbiamo imparate inconsciamente ad orecchio!
Ma Pèvel induce ad altri ragionamenti. In italiano è, come detto, Paolo, in francese, inglese e tedesco e qualche altra lingua Paul (stessa scrittura per pronunce diverse), comunque tutte versioni che contengono il dittongo –ao oppure –au.
In bolognese e anche nelle lingue slave (Pavel), al contrario, la vocale tonica è seguita dalla “v”. Forse ci sarà qualche motivo specifico, a me sconosciuto, ma ho pensato che esso possa nascere dal latino. Il nome Paulus deriverebbe da paucus, cioè poco, piccolo, ma esso potrebbe anche essere stato incrociato con parvus, che significa sempre piccolo, ed ha la “v”! Beninteso questa è solo una mia supposizione che andrebbe però ad avvalorare quanto sostengo da tempo e cioè che le lingue europee e i dialetti italiani, a differenza del toscano (e perciò dell’italiano), sono più aderenti alla morfologia latina! È un fenomeno che mi sembra da un lato normale e dall’altro strano: normale perché ogni dialetto o idioma neolatino deriva autonomamente dal latino e perciò parallelamente al dialetto toscano; strano, perché proprio l’italiano che è la lingua erede dei Romani, nata qui in Italia, è maggiormente diversa dall’originale!
Spagnolo e portoghese (non so nulla del rumeno, ma credo che si dica in maniera simile a Pavel), cioè le due lingue neolatine, non hanno né il dittongo –au/-ao, né la “v”, ma fanno Pablo e qui mi produrrò in una delle mie solite…illazioni. È probabile che la ”b” sia originariamente la “v” di un antico “Pavlo” e che sia poi diventata “b” a causa del caratteristico betacismo degli iberici, i quali scambiano le due labiali “p e b”, ciò che è andato ad influenzare tutti i nostri dialetti meridionali, dove si dice “varca e vase” per “barca e baci” e anche “bidi e abbocato” per “vidi e avvocato”!

Concludo qui le mie fantasie, anche perché, se qualche glottologo le dovesse leggerle, potrei anche trovarmi in pericolo di vita!

Paolo Canè

lunedì 19 aprile 2010

Dànca (par fèr i muradùr ai vól la cànca)

Prendo in esame questo detto, perché mi offre il pretesto per fare un ragionamento. Questo detto, come mille altri, è condiviso da tutti i bolognesi: non c’è parlante che non lo abbia mai usato o, almeno, mai sentito usare, come anche l’altro simile “trì cunchén i fàn una cànca”. Entrambi citano la “cànca” cioè la conca che è quel recipiente, in questo caso indispensabile ai muratori, solitamente di legno, di forma allungata e concavo per poter contenere calce, cemento ed acqua con cui essi possano preparare la malta, aiutandosi con la cazzuola. “Conca” in italiano è anche il recipiente della lavandaia e praticamente ogni recipiente atto a contenere qualcosa, termine che, per inciso, viene da una parola latina col significato di “conchiglia”, ma non ha nulla a che vedere col termine “concavo” il quale è formato da “cum” e “cavo”. Ma torniamo ai nostri detti popolari. Ci si chiede: che cosa significa? Nulla! Non significa nulla, poiché è soltanto un gioco di parole che usa la “cànca” solo per far rima con “dànca”! Analogamente l’altro detto dei “trì cunchén” che avrebbe potuto essere adattato ad una parola diversa, la quale però avesse il suo bravo diminutivo, poiché il significato non sarebbe cambiato, come il proverbio che dice “trài nàbbi i fàn una pióva”, ecc., cioè a dire che tante cose piccole ne formano una grande! E ancora ci si chiede: perché la gente usa questi detti? Mah, si potrebbe pensare che le persone ignoranti d’una volta non avesse grande dimestichezza con la parola (anche parlando dialetto) e che perciò preferisse pronunciare proverbi o detti, così, tanto per dire qualcosa. Si potrebbe pensare che, la sera, davanti al fuoco, in un mondo dove non c’erano giornali, libri, televisione, radio e cinema, la gente si trovasse davanti al fuoco a raccontare storie, ad inventare “balle” (e poi a crederci per primi!) e a ripetere proverbi e detti, per il gusto di conversare o per apparire gradevoli e simpatici. Fatto sta che, parlando in italiano, possiamo soffermarci un attimo per raccogliere le idee e pronunciare “Dunque…” e poi metterci al lavoro senza dire altro. Chi parla in dialetto, solitamente, dice “Dànca” e subito aggiunge “par fèr i muradùr ai vól la cànca!” E ci si potrebbe chiedere: chi per primo ha usato questa o queste espressioni? E sarebbe una bella domanda! Già, chi? Me lo sono chiesto altre volte. Ci sarà pur stato qualcuno che lo ha inventato, forse due, tre secoli fa e che poi ha avuto tanto successo, da diventare espressione usuale di un’intera città. E automaticamente il pensiero va a certi “inventori” d’oggi, che spacciano certi loro detti, per patrimonio comune e invece li usano solo loro e basta. Sono modi di dire spesso brutti o stucchevoli, ma questo non sarebbe nulla: ci sono pure antichi modi di dire che lo sono. La differenza sta nel fatto che, in un mondo che si esprimeva solo in dialetto, fatto di gente che aveva difficoltà a parlare, si sono potute inventare espressioni, le quali però hanno due caratteristiche: a) sono antiche b) sono note e condivise da tutti. Insomma, hanno il fascino dell’antica saggezza popolare. Quando sento certe parole, inventate oggi, quando il dialetto sta morendomi chiedo: perché lo fanno? Per interesse? Per apparire simpatici? Per voler far credere di conoscere il dialetto? Perché offendere e falsificare il mio dialetto?

Paolo Canè

AGGETTIVI RAFFORZATIVI

In dialetto (anche in lingua, ma qui è del dialetto che parliamo!) esistono aggettivi accompagnati da un secondo aggettivo che diremo “rafforzativo” e insieme vanno ad accentuare il concetto, a formare una locuzione che è in pratica un superlativo. A volte questo secondo aggettivo si pronuncia con questa vera funzione rafforzativa, altre volte con intenzioni ironiche o per strappare un sorriso. Ho già parlato qua e là di alcune di queste forme particolari, ma in questo capitolo le vorrei riunire tutte insieme (o almeno, tutte quelle che ricordo), cercando, ove necessario, di trovare una spiegazione.

Amalè mórt era un modo un po’ crudele di definire una persona molto ammalata, con poche speranze di sopravvivenza.
Chèld buiiànt. “caldo bollente” è il contrario di “freddo gelato” (vedi sotto)
Chèr arabé. Si dice di prodotto o servizio molto costosi e probabilmente l’aggettivo “arrabbiato” si riferisce ai tempi in cui la rabbia era una cosa seria.
Dàulz m’lè, si dice di frutto o bevanda troppo dolci e alcuni traducono la locuzione nel buffo italo-bolognese “dolce melato”, magari con una smorfia! M’lè deriva da mél = miele, ossia a dire dolce come il miele.
Fràdd z’lè, ossia ”freddo gelato” di qualcosa che forse dovrebbe essere più caldo e invece non lo è per niente!
Gràs técc’, grasso “paffuto”. Non so quale significato abbia técc’ (che noi traduciamo in italiano con “ticcio”), ma di certo è allegro, al contrario di stlè, anche perché in passato la magrezza era indice di miseria, al contrario della grassezza.
Imbariègh dùr. Quando un tempo gli ubriachi erano molti più di oggi, gli aggettivi rafforzativi erano tanti, ma “duro” era il più diffuso
Inamurè spànt (anche imbariègh spànt),in questi casi spànt vale “completamente” o “del tutto” o “fradicio” o “perdutamente”, ecc.
Incazè nàigher. Lo traduciamo pari, pari anche nel nostro italiano, col significato di molto arrabbiato, ma ignoro il perché dell’aggettivo “nero”.
Lóngh c’tàis, detto specialmente di qualcuno che cade “lungo disteso” a terra!
Màt dùr, completamente matto, aggettivo che probabilmente ricalca il seguente:
Mègher stlè, magrissimo, tanto da sembrare spaccato (stlèr= spaccare specie di legna) e, come più volte detto, questo secondo aggettivo è, tutto sommato, triste, anche perché lo si pronuncia con un’espressione quasi schifata
Móii spàult, bagnato fradicio, specie di chi è stato sorpreso da un acquazzone.
Pén pèra. Molto pieno, di recipiente o di locale “pieno “ e forse “pari” al bordo.
Salè murdànt. Molto (troppo) salato, quando alla massaia “scappa” il sale!
Sótt bràssch è un’espressione del gioco delle carte, quando di un dato seme si possiede un solo esemplare che è “asciutto bresco”, così traduciamo in italiano, ma non ho nessuna idea dell’etimologia di questa parola.
Spórch lérz (in lingua “sporco lercio”)si dice di persona,cosa o animale molto sporchi
Stóff mèrz, stanco marcio, cioè molto stanco (molto più di “stóff mórt”!).

Paolo Canè

mercoledì 31 marzo 2010

Mérda.

Questo è l’argomento, sebbene poco raffinato, sul quale i bolognesi amano scherzare come e forse più che sul sesso. Le battute, le barzellette e le situazioni a base di tale
… materiale sono le più esilaranti per questo popolo ironico, bonario e grassoccio!
In dialetto il vocabolo mérda ha la doppia funzione di sostantivo (come in italiano, ma con la “é” chiusa) ed aggettivo, poiché è il femminile di mérd che significa “sporco”. Stesso significato hanno anche gli aggettivi spóch, lérz, simili all’italiano, ma abbiamo anche sóii (cioè infangato). Tuttavia anche l’italo-toscano non si fa mancare sinonimi riguardanti la sporcizia materiale, come sozzo, sudicio, immondo, lurido ecc., tutti vocaboli che in bolognese non esistono, tranne forse alcune forme ormai obsolete. Pare infatti che la via Senzanome, in dialetto Suznómm, avesse il significato originario di “sozzo nome” (tipo via Fregatette o simili) e che questo “sùz” fosse l’antico corrispondente di “sozzo”, ma è soltanto un’ipotesi.
Mardàn o mardàn-na sono l’uomo o la donna che si lavano poco o che tengono le cose in disordine, gente che noi apostrofiamo così:“Lulé l’é un gràn mardàn” oppure “Lilà l’é una fàta mardàn-na d’una dóna”, sinonimi di “sporcaccione (-ona)”.
Si sente dire anche: “Mérd ch’mé la lòch” cha sarebbe la pula, cioè lo scarto sporco e polveroso delle biade, “ Ch’al cìnno l’é spórch lérz” che è il massimo della sporcizia oppure “T’an vàdd t’ì tótt sóii?” a chi ha le scarpe infangate, ma non credo esistano altri aggettivi o almeno adesso non li ricordo.
Tornando al sostantivo mérda, anche in questo caso abbiamo varie curiosità. Così viene chiamato l’escremento umano (oltre a strànz!), ma anche quello di cavalli, cani, galline, piccioni, ecc., mentre lo sterco di mucca, che in italiano si chiama “bovina” e localmente “buina”, derivato dal latino (merdam) bovinam, nel nostro dialetto assume una curiosa forma peggiorativa, buàza, quasi ad esagerarne la dimensione; buàza, chissà perché, viene definita anche una grande stanchezza o la crisi di sportivo che esageri col “doping” (a sua volta detto bùmba come i beveraggi dei bambini!).
Gli escrementi animali di più piccole dimensioni, a partire da quelli degli ovini, fino a quelli di topi o di altri piccoli animali, vengono detti caganèl, che noi traduciamo disinvoltamente nel nostro italiano con “caganelle”! “Guèrda tótti ch’él caganèl ed pìgra!” oppure “Qui è pieno di caganelle di topo!”
Un detto, molto volgare, quando si parla di una giovane mamma, è: “L’à fàt al strunzlén” che non è ciò che sembra, ma…il bambino, specie il primo figlio!
Esiste anche il vocabolo mardóch che i meccanici usano (o meglio, usavano) per indicare quell’impasto di sapone e segatura, adatto a ripulire le mani sporche d’olio. Oggi esistono prodotti specifici, tuttavia è per questo che il cognome anglofono Murdoch (pron: Màrdoch) ha noi fa sempre ridere!
Mardochèo, che fa il verso all’omonimo personaggio biblico, viene apostrofato il bambino (ma anche l’adulto) sporcaccione, nel bolognesissimo modo (non troppo) ironico di prendere in giro la gente. Concludo con l’esclamazione “mérda, Zanibàn” che si riferisce ad un certo Zaniboni, che sembrerebbe collega del più famoso Luvén, ma che è certo una variante del detto “Mùdla, Zanibàn” già menzionato altrove!

Paolo Canè

sabato 6 marzo 2010

"EL AL" E PREFISSI VARI

No, non è la Compagnia Aerea Israeliana, ma si tratta di quegli strani prefissi che noi bolognesi usiamo nel parlare il nostro dialetto. Infatti è noto che per rendere l’italiano “io l’ho mangiato” noi diciamo “mé a l’ò magnè”, come dire “io a l’ho mangiato”, così come “ci sono andato “, “mé ai sàn andè”, “io a ci sono andato” ecc. e non è possibile parlare bolognese senza usare uno dei suddetti espedienti e perciò è impossibile dire “mé l’ò magnè”, “mé i sàn andè”, ecc. Chiarito ciò, che peraltro è pratica usuale di tutti, mi sono soffermato oggi a pensare e, a meno che io non sia improvvisamente rimbambito, mi sembra di aver fatto una…scoperta!
Si tratta di qualcosa che ho notato nel redigere un testo in dialetto, a conferma del fatto che, se si dicono o scrivono parole singole, è tutto (quasi) facile, mentre se si fanno o si scrivono discorsi articolati, l’orecchio ci porta ad usare questi prefissi, cosa che noi ormai facciamo automaticamente, ma che nessuno ci ha mai insegnato, in modo che lo facciamo, ma non ce ne rendiamo conto e non sappiamo perché!
La “scoperta” (a meno di una smentita che è sempre possibile) sarebbe questa: prendiamo ad esempio “magnèr”(mangiare)e alcuni generi alimentari come “parsótt” (prosciutto, singolare maschile), “arcóta” (ricotta, singolare femminile), “spaghétt” (spaghetti, plurale maschile) e “taiadèl” (tagliatelle, plurale femminile) e vediamo di combinare qualche frase.
Per il singolare,maschile e femminile,noi usiamo “al” ed “a”, che sono sempre riferiti all’oggetto e mai alla persona (sempre una terza persona) che (in questo caso) l’ha mangiato, perciò: “al parsótt al l’à magnè lì, al l’à magnè ló”, mentre “l’arcóta a l’à magnè lì, a l’à magnè ló”.
Quando invece siamo noi a parlare di noi stessi, diremo “al parsótt a l’ò magnè mé” e “l’arcóta a l’ò magnè mé” il riferimento pertanto non è più verso ciò che si mangia, maschile o femminile che sia, ma verso noi .
Così nel plurale “i spaghétt i àn magnè làur” il riferimento sarà per gli spaghetti, indipendentemente dal fatto che “làur” siano maschi o femmine (essi o esse), e “el taiadèl égli àn magnè làur”, per lo stesso motivo. Qui c’è da dire che questo “égli” (articolo femminile plurale, se la parola che segue comincia per vocale) sta sparendo rapidamente, sostituito da “a gli”. Ed anche “el” (articolo femminile plurale se la parola comincia per consonante), viene spesso sostituito con “al” e si sente dire “al taiadèl i àn magnè làur” come se le tagliatelle fossero di genere maschile!
Come nel caso precedente, se siamo noi a parlare di noi stessi, diremo “i spaghétt ai ò magnè mé” e “el taiadèl ai ò magnè mé”, con questo “ai” riferito a noi e non più al genere delle cose che abbiamo mangiato!
Mi sembra una caratteristica del nostro dialetto, poiché in italiano diciamo “il prosciutto, lo ho mangiato (la ricotta la ho mangiata) io, essi, esse, loro, ecc.”e “gli spaghetti li ho mangiati (le tagliatelle le ho mangiate) io, essi, esse, loro ecc., dove cambia l’articolo, cambia il verbo, ma il riferimento è invariabilmente alla “cosa” e non alla persona. O no?

Paolo Canè

giovedì 11 febbraio 2010

L’ITALIANO DI BOLOGNA

Tutti noi abbiamo spesso notato, divertiti, come sia buffo quell’idioma che Menarini chiamò “italo-bolognese”, cioè quel misto di dialetto e di italiano che molte persone usano per ignoranza, altre per praticità o per divertimento.

Un articolo apparso su un vecchio numero della rivista “C’era Bologna” di Tiziano Costa, a sua volta riferito al “Diario bolognese” di Jacopo Ranieri risalente al 1537, ci dimostra che anche quattro secoli e mezzo fa c’era una discreta confusione tra dialetto locale e lingua. È evidente che a quei tempi i bolognesi di ogni ceto sociale parlassero dialetto e che l’italiano di Dante, pur vecchio di tre secoli, era ancora ben lungi dall’essere usato e scritto correttamente, anche da parte dei cronisti.

L’articolo parla di un tentato omicidio: un giovane prete aveva gettato nel pozzo un vecchio prete e, ritenutolo morto, gli rubò il denaro, ma fu poi inseguito, catturato ed impiccato. Un articolo già ben fatto e commentato dal Costa in una pagina della sua rivista, ma che io vorrei riportare qui sotto, affiancando la versione in pseudo italiano di allora a quella nel dialetto di oggi, per evidenziare quanto le due lingue siano simili in molti particolari!


Versione nell’italiano del 1537

Versione nel bolognese del 2007

A dì 25, fu apichà uno prieto el quale aveva

tratto un altro prieto in t’uno pozzo e fu in

questo modo, zoè; questo prieto andò a chaxa

de questo altro prieto e disse se li voleva dare

uno puocho de aqua da bevere,e lui disse che li

volea dare del vino e lui disse io voglio de l’aqua

e lui andò a torro el calcedero e si li cominzò

a trarre l’aqua. El ditto prieto, prexo

l’altro prieto per li piedi e sel trè in tel pozzo,

e questo povero vecchio prieto ch’era nel pozzo

non disea niente, e l’altro prieto el credea chel

fusse morto e andò in chaxa e se li tolse 25 lire,

le quale erano dove era el corpo de Cristo e po

se partì, e l’altro prieto ch’era nel pozzo,

quando el sentì che s’era partito el comenzò

a cridare e fu sentito da li contadini e fu cavado

fuora del pozzo; e po andono in chaxa e trovò

che li era stato tolto li dinari e contò la cossa

como era stata a li contadini; e li contadini

cominzorno a cercare el prieto e l’acatono e

sel prexeno e sel menono prexone a

Bologna e fu apichà como o ditto de sopra.

Al 25 al fó impichè un prìt ch’l’avèva

trè un’èter prìt int un pàzz e al fó

acsé, cioè: ch’al prìt qué l’andé a cà

ed ‘st’èter prìt e al déss s’ai v’lèva dèr

un póch d’àqua da bàvver,e ló al déss che

ai dèva dal vén,e ló al déss a vóii l’àqua

e ló l’andé a tór al calzàider e al taché

a trèr l’àqua. Ch’al prìt lé, ciapè

ch’l’èter prìt pr’ì pì,al le cazé int al pàzz,

e ch’al póver vèc’ prìt ch’l’éra int al pàzz

an gèva gnìnta, e ch’l’èter prìt al cardèva

ch’al fóss mórt,l’andé in cà e al tùs 25 lìr

ch’i éren dùvv l’éra al córp ed Crésst, pò

al parté e ch’l’èter prìt ch’l’éra int al pàzz

quànd al sinté ch’l’éra parté al cminzipié

a svarslèr e al fó sintó dai cuntadén e cavè

fóra dal pàzz e pò i andénn in cà e al truvé

ch’i avèven tólt i sóld e al cunté la cósa

cùm l’éra stè ai cuntadén; e i cuntadén i

cminzipiénn a zarchèr al prìt e il caténn e

i al ciapénn e i al m’nénn parsunìr a

Bulàggna e al fó impiché cùmm ai ò détt sàuvra.


Questo articolo in lingua è forse più simile al bolognese che all’italiano e credo che fosse ancor più simile al dialetto d’allora, ma i documenti in bolognese di quel tempo (es.: G.C. Croce) hanno una grafia che non ci aiuta a fare confronti.


Paolo Canè

VOCABOLI...PROVERBIALI!

Sempre alla ricerca di vocaboli antichi o, quanto meno, strani, ho riletto i circa 1520 “Proverbi Bolognesi” che Alberto Menarini raccolse nell’omonimo libro del 1971 (poi ristampato nel 1995) e nel suo “Pinzimonio Bolognese” del 1985. Credo che il Maestro li abbia menzionati tutti, anche se alcuni sono simili o addirittura doppioni, o almeno tutti quelli che sono pervenuti fino a noi. Ma non è dei proverbi che voglio trattare, quanto dei vocaboli usati in essi. Questa mia ricerca non vuole certo riesumare antichi termini per cercare di rimetterli in circolazione, ma l’intenzione è quella di studiarli, ripulirli e conservarli, proprio come farei con antiche pietre, che vorrei consegnare al posteri e con le quali non vorrei certo costruire la mia casa!

Nella stesura dei suoi proverbi, Menarini ha usato (giustamente) la grafia così come l’ha trovata, riservandosi poi eventuali chiarimenti nella traduzione italiana che seguiva. Io invece li ho in gran parte “tradotti” nella grafia menariniana, in modo da renderli immediatamente riconoscibili al lettore di oggi. Si tratta di almeno 150 voci, in gran parte in disuso, ma non saprei dire se le differenze da quelle del dialetto odierno siano dovute:

a) a mutazioni naturali (più volte infatti ho detto che ogni generazione usa il proprio dialetto e che nel tempo cambiano soprattutto i vocaboli).

b) ad esigenze di rima o di metro

c) ad appiattimento su vocaboli della lingua toscana, da dove magari alcuni proverbi sono stati “importati”.

d) a veri e propri termini antichi che si sono dissolti nel tempo.

Li ho divisi qui in tre gruppi che andiamo a vedere in sequenza.

Il primo contiene frasi doppie o locuzioni delle quali riporto la forma antica, ormai in disuso, la traduzione italiana e la forma analoga in uso oggi:

ANTICO

ITALIANO

ATTUALE

a l'avanzè

in arrivo

In arrìv

a s'acóii

ci si prende

a si ciàpa

àqua ed currì

Acqua corrente

àqua curànta

at l'inchègh

Me ne frego

am n'infrégh

dèr l'imbèl

Criticare

critichèr

fèr zìra

Far complimenti

fèr di cuncón

fìvra tarzèna

Febbre terzana

malaria

inànz tràt

in anticipo

In antézzip

màss mandè

ambasciatore

ambasadàur

mèl pinté

Pentito

pinté

n'quànd

se non quando

sàul quànd

pàir nézzi

Pere marce

pàir mèrzi

pàn brón

Pane scuro

pàn nàigher

pórch zignèl

cinghiale

zingèl

Il secondo gruppo contiene vocaboli in gran parte superati, molti dei quali sono singolarmente simili alla lingua italiana. Non ho messo nessuna “traduzione” nel dialetto d’oggi, poiché si tratta in massima parte di parole che oggi nessuno dice più.

ANTICO

ITALIANO

ANTICO

ITALIANO

afèrs

Addirsi

marzèr

marcire

aflétt

Afflitto

minzunèr

menzionare

alóch

Allocco

paciacarén-na

fanghiglia

amanvè

Pronto

pàigla

pece

arcólt

Raccolto

parè

riuscita

arfiadèr

Rifiatare

pàver

papero

atànders

Attenersi

pimpinèla

pimpinella

avlè

Velato

pióva

pioggia

balzàn

Prematuro (grano)

pórzer

porgere

biesmèr

Biasimare

pretèrit

preferito (passato)

burla

fossetta sul mento

pultràn

poltrone

calànder

Calende

pussiàn

possedimento

capózz

Cappuccio

quàid

quieto

cavàz

Potatura

ràif

refe

cavzèl

Capezzale

ràza

rovo

chmèr

Comare

róch

rantolo

ciùsa

Chiusa

rumetgàz

eremitaccio

cócch

Fesso

rumétta

eremita

cól

Cavolo

rustézz

tizzone

c'pgnèr

Snervare

sànn

senno

cucìr

Cocchiere

scuvèr

scovare

cumiè

Commiato

sèld

integro

cunzèr

mettere a posto

sèvi

saggio

curbèl

Corbello

sfraschèr

disboscare

danièl

verruca sulla guancia

smóiia

ranno

estrémm

Estremi

sofrìr

soffrire

fràsca

insegna d'osteria

spianères

avverarsi

fughlèr

Focolare

spluchères

strapparsi i capelli

gabàn

Giaccone

stèl

scheggia di legno

gargóii

bolle della pioggia

ucàrrer

occorrere

granisiàn

Granigione

urdìr

ordire

gràp-garavlén

grappolo-grappolino

urlèr

ululare

gridèr

Gridare

verminàus

verminoso

làuv

Ingordo

giogo

lìra

Libbra

zàis

cece

madón

Zolle

zànz

ciance

manvèl

mannello (frumento)

zéder

cedere

martóff

Fesso

zói

gioielli

Infine il terzo gruppo che pure contiene parole obsolete, delle quali però ho aggiunto anche la “traduzione” nel dialetto d’oggi, poiché si tratta di vocaboli che, pur cambiati, tutti usano ancora quotidianamente.

ANTICO

ITALIANO

ATTUALE

ANTICO

ITALIANO

ATTUALE

acumdèr

accomodare

Aiustèr

masèra

massaia

arzdàura

agiachèrs

giacere

stèr a zèzer

murràia

morìa

murì

amèr

amare

v'làir bàn

mustàz

viso

fàza

arestèr

rimanere

Vanzèr

nascóst

nascosto

ardupiè

armagnèr

rimanere

Vanzèr

Óm

uomo

ómen

armàur

rumore

Gatèra

Padìr

digerire

digerìr

arpànder

nascondere

Ardupièr

Parlèr

parlare

c'càrrer

arusìr

arrossire

d'vintèr ràss

patìr

patire

padìr

bagnè

bagnato

Móii

Pàtt

peto

scuràzza

bartén

grigio

Grìs

piànzer

piangere

zighèr

bazghèr

bazzicare

Bazighèr

Plàus

peloso

pelàus

càmpa

vita

Vétta

Pótt

bambino

ragazól

cànta

canzonetta

Canzunàtta

Pulsén

pulcino

pipién

castràn

castrato

Castrè

Purasè

molto

dimóndi

chèsa

casa

P'zén

piccino

cinén

ciùs

chiuso

Asrè

P'zóla

toppa

pèza

clàmb

piccione

Pizàn

Ràigla

regola

régola

cmód

come

cómm-cumpàgn

rincràsser

rincrescere

agrivèr

cunsànzia

coscienza

Cusiànza

Róza

ronzino

runzén

dèster

destro

Drétt

sàcc'

secchio

mastèla

dscherziàn

discrezione

Discreziàn

Sanitè

salute

salùt

dulàir

dolere

c'pièser

servizièl

clistere

clistéri

èvra

(lei) apra

(a) vèrra

Sigurtè

garanzia

garantì

fàngh

fango

Sóii

Spzièl

farmacista

farmazésta

fàss

crepato

Carpè

Stràtta

affanno

afàn

férsa

rosolia

Rosolì

Sunài

coglione

quaiàn

frizza

fretta

Fùria

Tasàir

tacere

stèr zétt

gnént

niente

Gnìnta

Tèser

tacere

stèr zétt

lechèr

leccare

Pluchèr

Udìr

udire

sénter

lùgh

luogo-posto

Sìt

ventùra

fortuna

furtón-na

madóna-sózra

suocera

Suòcera

zupghèr

zoppicare

andèr zóp

Maièl

maiale

Ninén