mercoledì 2 aprile 2008
CHICÀN CH’AL VÀ A L’ARÉNA (n. 108)
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 16:51:00 0 commenti
Argomento: Barzlatt
LA PULÀNT (n. 107)
Al dé dàpp a scóla al màster a gli d'mànda:
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 16:47:00 0 commenti
Argomento: Barzlatt
RIME IN PILLOLE (pagina 2)
In un capitolo in cui si parla di "etimologie bislacche", cioè di ricerche etimologiche strampalate o fasulle,viene ricordato certo Egidio Menagio, il quale sosteneva, con indicibili acrobazie, che il vocabolo ariostesco alfana derivava dal latino equa con i passaggi: equus, equa, eca, naca, faca, facana, fana e alfana! Ciò che gli valse da parte del Cavalier Giacomo de Cailly (Jacques D’Aceilly) il seguente epigramma:
Alfana vient d’equus sans doute,
mais il faut savoir aussi,
qu’en venant de la jusqu’ici
il a bien changé sur la route !
In materia di punticci, che sarebbero bisticci senza pretese letterarie e col solo scopo di raggiungere effetti comici in base alle assonanze, ecco una nota strofetta:
Egli nacque al Paraguay,
prese moglie nel Chilì,
la portò nell’Uruguay,
nel Perù, però, perì.
A proposito di una località, fuori Porta Mazzini, detta la Purtàza (o Via Portaccia) ecco le prima parole di una vecchia canzone popolare:
Una cà, una stradlàza
ch’i la ciàmen la Purtàza…
Nota anche questa tiritera:
Bàn mó dabàn?
Trì baiùch un m’làn,
almànch ch’al fóss bàn!
E invézi l’é sblisgàn ( o zidràn)
Ai tempi in cui il problema più importante era il mangiare, si diceva quanto segue:
Vìva la Frànza,
Vìva la Spàgna,
bàsta ch’as màgna,bàsta ch’as màgna!
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 16:27:00 0 commenti
Argomento: Rime in pillole
RIME IN PILLOLE - PREFAZIONE (pagina 1)
Prima di dire di che cosa si tratta, vorrei dire di che cosa NON si tratta:
- non è una raccolta di poesie
- non è una raccolta di filastrocche o “zirudèl”
- non è una raccolta di barzellette
- non è una raccolta di proverbi
- non è una raccolta di scioglilingua,
È una raccolta di nenie, canzoncine, modi di dire, epitaffi, giochi di bambini, curiosità e quant’altro, che hanno tre caratteristiche basilari:
1) sono scritte in rima (anche se non tutte)
2) sono scritte in gran parte in dialetto (anche se non tutte)
3) sono brevi componimenti (anche se non tutti)
Spero di essere stato abbastanza chiaro (anche se non lo credo del tutto), ad ogni modo, in questa lunga e paziente raccolta, ho avuto una speranza e una gioia:
a) la speranza che i miei eventuali, anche se pochissimi, lettori si possano divertire leggendo.
b) la gioia di riscoprire e di ritrovare, qua e là, pezzi dimenticati della mia infanzia, in quanto molte di queste storielle me le raccontava mia nonna.
Ho citato le fonti dove ho potuto, fonti che, magari, hanno attinto a loro volta altrove, ma io indico i testi sui quali ho basato la mia ricerca.
Ci sono anche alcuni brani che ho attinto dalla mia personale esperienza di…bolognese professionista!
Paolo Canè
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 16:25:00 0 commenti
Argomento: Rime in pillole
RIME IN PILLOLE (Copertina)
RIME IN PILLOLE
(RÉMM COL CANTAGÀZZ)
Bulàggna
Al bàsta andèr ónna ed ch’el bèli sìr
Ch’la lùs la lón-na, própi in mèz ed piàza
Parché ch’ans pósa fèr a mànch ed dìr:
T’i pùr bèla, t’i pùr, vècia Bulgnàza!
Difàti quèl’él mài ch’al furastìr,
E làsa pùr ch’al sìa ed qualùnque ràza,
Ch’an dégga ch’al v’révv vìver qué e murìr,
Parché l’é una zitè dóvv a se sguàza?
Raffaele Belluzzi (1837-1903)
Garibaldino, poeta ed educatore
2007
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 16:20:00 0 commenti
Argomento: Rime in pillole
MIO PADRE
E ancora un'espressione curiosa di mio padre, oltre alla già citata "tàia, tàia, mó l'é sàmper cùrt" (lo credo bene: non c'è dubbio che a tagliare si allunghi!), riferendosi ad una famiglia nella quale è la moglie quella che tiene insieme la famiglia stessa: "l'é lì ch'la tén drétt al tién!" (tién = piccola teglia), e solo l'immaginare chi porta lentamente un tegamino, facendo attenzione a non rovesciare una goccia, fa sorridere. Passando vicino ad un campo arato, mi ha parlato del "cùlter" e della "lèga", parole sconosciute a chi è sempre vissuto in città, per quanto cùlter, di chiara origine latina (cultrum), è citato in ogni vocabolario italiano, latino, etimologico e bolognese ed è la parte dell’aratro, il ferro (Culter=Cultello) che taglia la terra verticalmente. È evidente che anche il “coltello” deriva dalla stessa radice. La lèga (con è aperta e non chiusa) è invece il solco fatto dal cùlter. È parola di probabile origine longobarda (me lo dice l’orecchio, ma non ho trovato indicazioni al riguardo) ed è citata da pochi vocabolari bolognesi, senza alcun riscontro nella lingua italiana. Esclusa la parentela con la misura di lunghezza (lega) e improbabile la derivazione dal tedesco "legen", da cui "lage" che significa più “giacimento” che “solco”. Chissà! Al murèl (plur: murì) è una parte del campo. Al malgàtt è il fusto del granturco e triblèr significa triturare: tutti termini ignoti alla maggior parte dei dizionari. E già che siamo in campagna, ho notato che in bolognese vi sono curiose stranezze: la parola "érba" (erba), nella sua forma diminutiva (erbetta) fa "arbén-na" con la "a" e non con la "e" (come òmen-umarén, ecc.). Avevo già notato come, in tedesco, certi diminutivi cambiano la parola originale (Frau>Freulein) , ma non mi sembra d’aver mai trovato, in nessuna lingua, il cambiamento della lettera iniziale! E le discussioni eterne con mio padre sulle sfumature fonetiche! È l’antico scontro tra chi ha usato tanto e studiato poco e chi ha usato poco e studiato tanto! Un esempio per tutti sono certe parole che i parlanti possono pronunciare indifferentemente "o" oppure "a". La bislacca frase "A sòn andè int un cantòn sòtta al pònt", si può sentir pronunciare anche "A sàn andè int un cantàn sàtta al pànt": mio padre è per la prima ed io per la seconda, anche se poi, parlando, talvolta lui pronuncia a mio modo ed io a suo modo! Ma forse, come al solito, la verità sta nel mezzo: in realtà entrambi pronunciamo una vocale che non è né "o" e né "a"! Ma qui entriamo nel difficile!
Come ho già detto altre volte, io sono abbastanza fedele alle teorie ed ai sistemi di Alberto Menarini, a differenza di altri (anche più importanti di me) i quali, per ignoranza o per presunzione, non lo fanno. Una delle poche deroghe che mi permetto di fare (oltre all’abuso degli accenti, finalizzato ad una più facile lettura a colpo d’occhio) è il "non uso" della "h" nelle tre voci del verbo "avere", sia perché ritengo inutile una consonante muta, sia perché anche in italiano è concesso (o almeno lo era, anche se brutto) "ò, ài, ànno". In italiano "anno" e "hanno" si scrivono diversamente, ma si pronunciano uguali, in dialetto "àn" e "àn" si scrivono uguali (o almeno io li scrivo uguali), ma si pronunciano diversamente, poiché la "n" di "àn" (anno 2008) è palatale, mentre la "n" di "àn" (essi hanno) è nasale, oltre al fatto che la prima parola prevede un suono più lungo della “à”. Menarini avrebbe scritto la prima "àn" con l’accento, la seconda con la "h" e con il puntino sulla "n" ed avrebbe lasciato "an" senza nessun altro segno per il terzo caso del bolognese che è la negazione "non", spesso accompagnata dal rafforzativo "brìsa": "an vóii brìsa" = non voglio. Complicato, vero?
Noi trascorriamo così il pigro tempo della nostra pensione: guardiamo film, stiamo in giardino, andiamo in giro, parliamo di sport o di politica, ma sopra tutto parliamo il nostro caro dialetto…finché siamo in tempo!
Paolo Canè
Pubblicato da Riccardo G. alle ore 15:46:00 0 commenti
Argomento: Personaggi