martedì 25 settembre 2007

I VENTI PECCATI DI BOLOGNA

Bologna, come l'oro, non ha macchia, non ha peccato: ha soltanto avuto, nel tempo, uomini (bolognesi e forestieri) e amministratori, i quali per ferocia, per incuria, per gelosia, per stupidità, per interesse o per fanatismo, le hanno arrecato diverse offese. Cose fatte, cose fatte male e cose non fatte. Cito 20 esempi, ma sarebbero tanti di più:
1) pur comprendendo l'odio popolare per il tirannico Bertrando del Poggetto, è stato un peccato la distruzione (per ben 5 volte in 4 secoli: dal 1116 al 1512!) della Rocca a Porta Galliera, una delle più imponenti d'Italia e con una cappella affrescata di Giotto! Oggi avremmo un prestigioso monumento in più.
2) è stato un peccato non dare un sagrato degno al Duomo di San Pietro. Ci fu un progetto approvato dal Cardinale Lambertini (intorno al 1750), ma l'opera non fu mai realizzata, poiché si preferì costruirle davanti il Seminario Arcivescovile (ora Hotel Baglioni), abbattendo anche le case della famiglia di Ludovico Ariosto. Ed ora la chiesa, che pure non è tra le cose più belle di Bologna, ma è pur sempre il Duomo (dove tra l'altro mio padre, io e i miei figli siamo stati battezzati!), rimane strozzata tra i palazzi di Via Indipendenza, quasi invisibile al frettoloso passante. E c'è di peggio: la chiesa "era" tra le opere romaniche più belle, ma crollò nel 1599 a causa di sciagurati lavori, la cui colpa andò all'architetto Fiorini, ma la cui decisione fu presa dal cardinale Paleotti. Un peccato imperdonabile.
3) peccato non aver potuto finire i lavori di San Petronio: come ho già detto, sarebbe stata la chiesa più grande della cristianità e, aggiungo io, forse una delle più belle!
4) la distruzione della statua bronzea di Giulio II, fusa a Bologna nel 1506 da Michelangelo, una delle poche in bronzo (la più bella?) del grande scultore. Statua che troneggiava sul portale di San Petronio e che fu abbattuta dalla stupidità dei francesi, dei Bentivoglio e del Duca di Ferrara (ai quali va la mia damnatio memoriae) che si permisero di perpetrare un simile delitto in casa nostra e di trasformare l'opera d'arte (rifusa) in una bombarda,beffardamente chiamata Giulia!
5) la distruzione del magnifico Palazzo Bentivoglio, si disse "a furor di popolo", ma in realtà voluta dai Marescotti, nemici giurati dell'ultimo Signore bolognese e benedetta dal Papa. Se si fossero distrutte tutte le case dei perdenti, non avremmo altro che macerie: a maggior ragione potevano risparmiare quel Palazzo che i contemporanei giudicarono come uno dei più belli del Rinascimento. Il Teatro Comunale, 250 anni dopo, avrebbe potuto benissimo sorgere altrove!
6) peccato che il conte Aldini, per compiacere e per ospitare Napoleone, abbia fatto demolire l'antica Chiesa del Monte all'Osservanza, allo scopo di costruire l'attuale Villa Aldini. Peccato doppio, poiché Napoleone quella villa non la vide mai!
7) fin qui ho parlato di alcuni "peccati" commessi quando ancora la gente non aveva scoperto l'amore per le opere d'arte e molti affamati si sarebbero venduti la statua del Nettuno per un paio di polli! Ma vediamo di che cosa è stato capace il cosiddetto uomo moderno e civile: parliamo dello sventramento di Via Rizzoli, opera che si poteva non fare o fare meglio e, a questo proposito, il grande autore Testoni disse che avrebbe pagato per fare tornare tutto com'era prima. Sto con lui!
8) …e ancora dell'abbattimento delle numerose torri millenarie, mura e porte cittadine avvenute poco prima, durante e anche molto dopo l'era dello sciagurato sindaco Dallolio (primi del ‘900). Cose per le quali si sarebbero dovute fare dure dimostrazioni di piazza, come quelle che oggi si fanno per motivi molto più futili!
9) la costruzione (1938) dell'osceno Palazzo Volpe in Piazza Roosevelt (con tanti bolognesi e italiani, dovevano intitolarla proprio ad un personaggio dal nome così difficile da scrivere e da pronunciare?). Edificio che stona con il magnifico P.zzo Caprara che ha di fronte, come la stecca di un tenore e non è, purtroppo, l'unica bruttura moderna, in un contesto antico e glorioso come il centro di Bologna!
10) la mancata ricostruzione dell'Hotel Brun (Palazzo Ghisilieri), distrutto dai bombardamenti dell'ultima guerra: anziché ricostruire il bell'edificio (almeno nella sua facciata) si è preferito il, quanto meno discutibile, Palazzo del Toro!
11) la disattivazione della funivia di San Luca. Posso capire che il portico è bello, che la passeggiata è gradevole e che i voti e le penitenze si debbano fare in un modo non troppo comodo, ma la funivia era già fatta ed era un elemento in più che aggiungeva prestigio a Bologna. Perché buttarla?
12) la rimozione dei busti al Pincio. Ho già criticato il degrado della Montagnola e l'incuria per le belle sculture del Sarti, ma quei busti che c'erano non erano poi così brutti! Che fine avranno fatto? In quale cantina saranno andati a finire?
13) le strade della città antica intitolate a personaggi (soprattutto a partigiani moderni) che non hanno nulla a che vedere con la Bologna medievale. Perché intitolare strade e piazze a gente la cui importanza è solo politica e demagocica, per trascurare chi ha fatto qualcosa per l'umanità? Si poteva fare come gli americani fecero per le vittime del Viet Nam: grandi lastre di marmo, con sopra incisi i nomi. Ma non è una questione del centro storico e non è solo un peccato di Bologna: a Torino esiste ancora oggi il Corso Unione Sovietica, mentre la medesima non esiste più da 16 anni! Anche qui a Bologna la Via Lenin potrebbe tornare a chiamarsi Via Leona, come prima, e la Via Carlo Marx, si potrebbe intitolare ai Fratelli Marx: almeno quelli ci hanno fatto ridere! Dare il nome ad una strada non è un atto di fede politica, ma un gesto significativo ed impegnativo, perciò occorrerebbe farlo "cum grano salis"! Nessuno ha pensato che ad una persona di destra potrebbe dispiacere di abitare in Viale Lenin, come a una di sinistra potrebbe dispiacere abitare in una eventuale (ed esecrata!) Via Hitler?
14) …e veniamo, per completare questi pochi esempi moderni, alla più grande stupidaggine fatta a Bologna nell'ultimo mezzo secolo: i sottopassaggi pedonali in centro, brutti, costosissimi, non funzionali e perciò assolutamente inutili! Vorrei sapere chi li ha ideati: ecco, a lui dovremmo intitolare una strada (magari i sottopassaggi stessi) per tramandare ai posteri il ricordo un "genio" che…non ha capito nulla! A Norimberga, città antica e poco più grande di Bologna, dove tra l'altro le antiche mura danneggiate dalla guerra sono state ricostruite e non abbattute, dove si circola e si parcheggia molto meglio che nella nostra città, fecero diversamente. Ricordo, circa 40 anni fa, quando, contemporaneamente, si scavava nel centro delle due città: qui i sottopassaggi e là la metropolitana!
Il risultato parla da solo, al di là di ogni polemica o convinzione ideologica. Oggi Bologna è intasata ed è una sorta di "Città Proibita", poiché non si sa più come fare per andare in centro, senza dover aspettare per ore gli autobus, i quali peraltro, come è successo varie volte a me, non sempre ci sono!Se dovessi parlare adesso del 15° peccato, parlerei proprio della metropolitana: se ne parla da 40 anni, si era finalmente varato il progetto, si erano trovati anche i finanziamenti e oggi abbiamo trovato il modo di perderli, per colpa di altri "geni" dell'urbanistica! Così Bologna è ancora senza metropolitana, ma non disperiamo!
15) il 15° peccato non si fa aspettare! Anni fa, durante i lavori nelle cantine di P.zzo Zambeccari, in via Carbonesi, fu trovato un grande teatro romano. Vi si insediarono i Magazzini Coin e i resti si potevano ammirare attraverso opportune vetrine. Ora i Magazzini hanno traslocato e vorrei chiedere a qualche Assessore alle Belle Arti: che fine ha fatto il teatro romano? Resterà sepolto altri 2.000 anni?
16) peccato che non esista più, in Via Altabella, la "Porta dei Leoni". I leoni in pietra rossa sorreggono ora le acquasantiere di S. Pietro, ma sarebbe stato meglio lasciarli al loro posto!
17) peccato che non esista più il rudere di un pozzo del XIII sec., che era visibile ancora qualche anno fa in Vicolo S. Lucia e che ora è sparito. Che fine avrà fatto? Stati Uniti, Giappone o discarica del Comune?
18) peccato che dall'orologio di P.zzo D'Accursio non escano più i Re Magi, l'angelo e il paggio al suonar delle ore. Questi orologi meccanici in Germania sono tutti funzionanti (Monaco, Rothenburg, ecc.), mentre quello di Messina è sempre guasto: evidentemente Bologna è più vicina alla Sicilia che all'Europa!
19) il Palio per antonomasia è quello di Siena, ma tutte le città ne celebravano uno nel Medioevo. Siena ha il merito di aver conservato la tradizione, ma noi, che siamo "progressisti", abbiamo dimenticato sia la corsa dei cavalli "barberi", sia il Torneo dei cavalieri "aurati" che si svolgeva in P.zza Maggiore già nel 1143! Non mi si venga a parlare di traffico: forse a Siena e Pamplona non c'è traffico? Bologna ha inoltre dimenticato la Festa della Porchetta e quella della Vittoria che celebravano rispettivamente le vittorie sugli Imperiali e sui Visconti. Al contrario Medicina si è inventata la Festa del Barbarossa che non esisteva fino a 20 anni fa!
20) peccato che non sia più visibile il pozzo della "Secchia Rapita", il quale stava in mezzo all'attuale Via Saffi e del quale resta una poco visibile lapide al centro della strada. Fu tolto perché intralciava il traffico (dicevano), ma si poteva creare una delle tante isole spartitraffico col suo bel pozzo: addirittura in Viale Lincoln ne sono state create due assolutamente inutili, ingombranti e pericolose, con una fermata d'autobus che costringe le auto a stare ferme in coda! Che fine avrà fatto il vecchio pozzo? (Almeno lo avessero spostato a lato della strada!). Peccato perché, anche se della secchia a noi importa poco, per i "cugini" modenesi rappresenta una delle poche gioie, tra le tante batoste che hanno preso!
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Paolo Canè

AL CAGNÉN (n. 65)

Un sgnàuri l'é drì ch'al bàvv un capuzén con'na briòss int un bàr, quànd al cagnén d'una sgnàura, ón ed chi cagnén tótt pén ed pàil, ch'ans capéss brìsa al davànti dal de drì, ai dà un musgót int una gàmba. Alàura al sgnàuri al spèza un p'zulén ed briòss e la la slónga vérs al cagnén.
La sgnàura la dìs: "Ló l'é própi gentìl, vésst ch'al dà da magnèr al mi càn, nonostànt ch'al èva mùsghè!" e al sgnàuri: "Nà: mé a v'lèva sàul vàdder da che pèrt l'éra la tèsta, par dèri un chèlz int i marón!"

AL TARTAIÀN 1 (n. 64)

Ón ch'al tartaièva al và al bàr e al dìs: "Un ca-ca-ca-fà pa-par pie-piesàir" e al barésta: "A-a-ai a-al fa-fàgh só-sóbbit".

Un èter cliànt al dìs in fùria: "Un cafà curèt al cògnac" e al barésta: "Prónti, in tàza grànda o cén-na?".

Alàura al tartaiàn ai d'mànda: "Cia-ciàpel pr'a-a-l cu-cùl m-mé?" e al barésta: "N-nà a cia-àp pr'al cu-ù-cùl lulà!"

L’UCIÀTT (n. 63)

Un sgnàuri anziàn, ch'l'avèva la "vóiia ed pizàn" (al fèva sàmper l'uciàtt!), al và int una pastizerì con l'anvudén e il cìnno al tàca a fèr d'la sànn ch'al v'lèva una pàsta.

"Adès nà, ch'avàn d'andèr vì, mó dàpp a turnàn e as fàn dèr un bèl cabarè ed pàst da purtèr a cà" e al dìs al pastizìr: "A turnàn dàpp" e vi ch'al và col cìnno.
Vérs mezdé al tàurna e al d'mànda:

"Éni prónti el pàst?"
"Nà, ai ò bèle finé!"
"Cómm? Ai avèva pùr détt ch'a turnèva"
"Sé, mó ló am avèva fàt l'uciàtt…"
Alàura al sgnàuri als tén avért l'óc' màt con dàu dìda e a gli dìs: "Ch'al vàga bàn a fèr del pugnàtt!"

Proverbio n. 107

Cràss cavièra cùmm fà la mérda int l’aldamèra.
Gli (inutili) scongiuri di un calvo.

Proverbio n. 106

Ciavèr la sérva dal prìt de drì a l’altèr mazàur.
Non avere freni morali.

Proverbio n. 105

Ciapèr pr’al cùl.
Prendere in giro.

Proverbio n. 104

Ciamèr i quaión a capéttol.
Adescare gli sciocchi.

Proverbio n. 103

Chi vìv sperànd mór cagànd.
Detto a chi vive di speranze.

MOGLI E BUOI…

E non è che uno dei tantissimi riferimenti a questo maestoso erbivoro,al quale l’uomo ha prima reso un… brutto servizio e poi lo ha esaltato nei secoli, forse più di qualsiasi animale domestico. Dal bue Api degli Egizi, presso i quali fu addirittura un dio, alla ode carducciana “T’amo o pio bove”, il bue è stato citato in innumerevoli parole: da Bucefalo (testa di bue) a bustrofedico (tipo di scrittura che imita l’aratura dei campi) ad ecatombe (sacrificio di 100 buoi) all’oeil de boeuf (tipo di finestra usata in Francia) e in mille altre occasioni, con riferimenti proverbiali che parlano di “stalle chiuse quando i buoi sono scappati”, di “legare il carro davanti ai buoi” ecc. ecc.
Perché tanta nomenclatura e letteratura? È facile: perché il bue, fin dal tempo in cui le società agricole primitive lo usavano per l’aratura, è stato un mezzo basilare per la sua forza e per la sua docilità. Non intelligente come altri animali, forse, tanto da produrre modi di dire poco edificanti, come “popolo bue” o “testa di bue”, ma utile, anzi, indispensabile. Il “Foro boario”, toponimo che esisteva anche a Bologna, era la piazza nella quale si facevano le contrattazioni per la vendita dei bovini.
In bolognese è “al bà” (o “al bò”, ma io preferisco la pronuncia aperta, come s’addice ai bolognesi di città) con il plurale inequivocabile “i bù” o, come simpaticamente dicono o dicevano i vecchi medicinesi, “i bùa”, ma lo dicono solo a Medicina!
A proposito di differenze di pronuncia, voglio brevemente ricordare ciò che ho già scritto diverse volte altrove, e cioè che molte parole vengono spesso scritte e anche pronunciate con la “ò” o con la “à” a seconda dell’uso dei parlanti. Personalmente preferisco scrittura e pronuncia aperte, ma non è detto che io abbia ragione! Nessuno ha mai stabilito una regola e chi la volesse stabilire oggi farebbe un esercizio inutile, oltre che arbitrario ed opinabile! Meglio che ognuno faccia come si sente di fare.
L’uomo addetto alla cura dei buoi era chiamato “al bióich”, parola con la quale i cittadini hanno poca dimestichezza, ma che ha una storia etimologica interessante.
Il corrispondente italiano “bifolco” deriva da “bufulcum” che, a causa della “f”, gli studiosi presumono d’origine osco-umbra o etrusca, alla quale i latini contrapposero “bubulcum” (colui che guidava i buoi nei campi), da cui i latinismi “bobolco” e “bobolca” i quali, a loro volta, portano a “biolca”, una misura terriera ancora in uso nelle nostre campagne ed è quasi certamente la stessa via che porta a “bióich”.
Un’altra misura terriera, pure ancora in uso da noi, è la “turnadùra” (tornatura) e anch’essa ha a che vedere coi buoi, poiché “tornare” significa il “girare” dei buoi durante l’aratura. “Turnadùra” e “bióica”, misure non esatte, poiché variano da zona a zona, erano probabilmente grandi quanto il terreno che i buoi riuscivano ad arare in una giornata di lavoro.Dunque, a quanto pare, sono rimaste nella nostra lingua e nei nostri dialetti molte parole e molti proverbi o modi di dire che hanno a che fare con i buoi, ma ci si chiede: dove sono andati a finire i buoi? Chi spiegherà ai nostri nipoti che il bue era un animale grande, grosso, utile e buono, così tanto diverso da quello che vedono sui banchi delle macellerie?
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Paolo Canè