martedì 2 dicembre 2008

AL FRANZÀIS (n. 213)

Un bulgnàis al gìra par la strè con un só amìgh franzàis. Stù qué al vàdd una mérda ed càn par tèra e al dìs:

"Parbleu!". E al bulgnàis: "La pèr a tè, a mé l'am pèr zaltén-na!"

AL GÀT E AL PASARÉN (n. 212)

Al pèder l'é a séder in pultràn-na ch'al lèz. L'arìva al cìnno, tótt agitè:

"Bàbbo, bàbbo, cùmm'éla che al gàt l'é turnè in cà con un usèl in bàcca?".
E al pèder, sànza livèr só i ùc' dal giurnèl: "As vàdd ch'l'à mànch fìgh che tó mèder!"

L’ELEFÀNT CURIÀUS (n. 211)

Un elefànt, in st'mànter ch'al magnèva, l'incàntra un nàigher tótt nud. A gli guèrda e a gli d'mànda: "Di' só, mó té cùmm fèt a bàvver?".

LA TÓMBOLA (n. 210)

Dù amìgh is tróven par la strè:

"Sèt? Ai ò truvè un ristorànt dùvv as màgna ch'l'é un fenómen e as pèga al giósst!".
"Dìt dabàn?".
"At al zùr e pò sèt, dàpp magnè i organézzen una spézie ed tómbola e quàll ch'al vénz al và só int la stànzia a guzèr!".
"Mó va là, té èt mai vént?".
"Mé nà, mó mi muiér l'à bèle vént trài vólt!".

LA LÈNA (n. 209)

Un umarèl al và int un negózi par cumprèr un paltò:
"Quànt càsstel quàll lé bertén?"
"Al càssta dusànt mélla frànch, mó nuètr'avàn ànch quàsst qué culàur camèl, ch'l'é ed gràn móda, ch'l'é dimóndi pió bèl e al càssta sàul tarsànzinquanta mélla frànch!".
"Sócc'mel, am pèr un pó chèr!".
"Al scarzarà: al paltò bertén l'é ed lèna normèl, mó quàll culàur camèl l'é ed "pura lana vergine!".
"Bàn l'é listàss: mé a vóii ch'al bertén, ànch se la pìgra l'é una putèna!".

NOI ANALFABETI BOLOGNESI!

Dopo la pubblicazione del libro "V'gnì mò qué, Bulgnìs", che ho scritto con la preziosa collaborazione di Tiziano Costa, mi sono pervenute diverse osservazioni da amici e conoscenti e tutte simili. "Il dialetto è molto difficile da leggere", "Ma come fai tu a scriverlo?", "Io non so leggere il dialetto", "Io lo parlo male", ecc. Tutte osservazioni plausibili, ma…superflue, poiché, in fatto di dialetto, tutti noi siamo analfabeti! Immaginate che cosa saremmo noi se la lingua italiana non ci fosse mai stata insegnata e se l'avessimo dovuta imparare ad orecchio: saremmo analfabeti! E questo siamo, almeno in fatto di dialetto. Certo che tutti noi parliamo il dialetto a seconda di vari fattori: se lo usiamo più o meno frequentemente, se siamo gente di buona cultura o meno, se lo conosciamo bene o soltanto superficialmente. Chi ha avuto modo di parlarlo per tutta la vita, tutti i giorni è più agevolato di chi lo ha usato solo sporadicamente, infatti molti "autori" e "attori" (si fa per dire) d'oggi, per come scrivono o per come recitano, lasciano trasparire la loro poca dimestichezza in materia e danno l'impressione a chi ascolta che essi traducano in dialetto ogni frase che in loro viene prima mentalmente formulata in italiano. Chi conosce bene l'italiano ed ha una discreta cultura generale, avrà più difficoltà a calarsi nel dialetto, ma certo avrà più facilità a formulare frasi sensate e ad usare parole buffe e spiritose, poiché, non dimentichiamolo, l'ironia è preziosa caratteristica dei bolognesi.
Infine, chi lo conosce bene eviterà di incorrere in certi "errori" e soprattutto in certi "italianismi" che sarebbero superflui se conoscessero i termini dialettali. Costoro fanno pensare a quei giornalisti e uomini politici ignoranti (e sono tanti), i quali, forse in difficoltà a ricordare termini che la lingua ha ben vivi, usano parole inglesi, contribuendo così a quel guazzabuglio che sta diventando la lingua di Dante: "okey" invece di sì, "devolution" invece di devoluzione e spiacevolezze del genere.
Come faccio a scrivere il dialetto? Mi arrangio, come finora si sono sempre arrangiati tutti, ma senza "invenzioni" strampalate e non necessarie. Certo che il dialetto, come ogni altra cosa, bisogna studiarlo e amarlo: non ci si inventa cultori da un giorno all'altro. È un idioma non scritto che non ha regole scritte, perciò la scrittura è in sé una forzatura, d'altronde quale altro sistema di divulgazione ci sarebbe? È un idioma orale che ha delle regole orali, ma esse sono abbastanza approssimative e perciò anche il dialetto che sentiamo parlare è, qua e là, approssimativo. Ho già detto come mio padre, io stesso e parecchi bolognesi di città e di tradizione, tendano ad usare la "o" tanto aperta (in certi casi) da sembrare, anzi da essere una "a". Noi per "buono" preferiamo dire e scrivere bàn e non bòn, per "padre", diciamo pèder e non pèdar e così mille altre parole analoghe. Una discreta confusione viene fatta da molti tra l'articolo singolare maschile e quello plurale femminile: "il" si dice al, mentre "le" si dice él oppure égli, a seconda che la parola seguente inizi per vocale. Quindi al pèder, él barzlàtt, égli óv (il padre, le barzellette, le uova) sarebbe la regola orale approssimativa, poiché si sente dire spesso al barzlàtt e agl'óv. Esempi analoghi ne potrei fare (e ne ho fatti e ne farò!) migliaia, ma l'ambiguità del dialetto resterà, poiché nessuna regola, anche se giusta, potrà mai essere ufficialmente dichiarata tale…
Forse perché anche noi "veraci" talvolta diciamo bòn, pèdar, al barzlàtt, ecc.!

Un breve, ma significativo esempio di ambiguità fonetica (e grafica) ci viene da una famosa barzelletta italo-bolognese-americana in voga negli anni '50: al "marine" O'Connor muore il padre e il capitano ordina di avvisarlo, con la durezza e la disciplina tipiche del corpo dei "marines". Il sergente mette in fila i soldati e ordina a coloro che hanno ancora il padre di fare un passo avanti. Naturalmente il nostro eroe fa un passo avanti e il sergente ringhia (chissà perché in bolognese!): "O'Connor, fà pur sàmper l'èsen!". Ora, a parte il fatto che da allora "fèr l'O'Connor" è diventato sinonimo di "fèr l'èsen", debbo dire che noi ragazzi dicevamo "O'Connor, fà pur sàmpar l'èsan!", usando cioè la "a" nelle due parole che invece vorrebbero la "e".
Tale variante può essere dovuta a vari motivi:
a) per la nostra ignoranza in fatto di dialetto (non dimentichiamo che a noi era proibito parlarlo e che eravamo tutti scolarizzati)
b) per l'influenza dell'italiano che porta forse a pronunciare "a"
c) per corruzione dovuta ad altri dialetti della provincia, che so, di San Pietro in Casale o Argelato o Vergato o altro
d) infine, per il semplice fatto che molti bolognesi pronunciano in un modo e molti altri in un altro, a conferma che non c'è una regola.
Fatto sta che ancora oggi la situazione è invariata e, anche se molti di noi "veraci" pronunciano e scrivono "fà pur sàmper l'èsen", tolleriamo (e a volte pronunciamo) anche l'altra forma, poiché ormai entrambe debbono convivere. Diciamo perciò che entrambe sono corrette, ma…una è più corretta dell'altra!
E questo ci obbliga a ritornare sul tormentone dell'evoluzione delle lingue.
Un'evoluzione che c'è sempre stata e ci sarà sempre, come sempre stati e sempre ci saranno coloro che vorrebbero frenarla e coloro che sono impazienti di accelerarla.
Anche la posizione del dialetto (di tutti i dialetti) nei confronti della lingua è ambigua, poiché, da un lato appare che esso sia più "conservatore" e dall'altro appare …il contrario!
Più conservatore, perché moltissimi termini antichi, spesso d'origine latina, i dialetti continuano a conservarli, anche quando la lingua li ha già sostituiti e dimenticati.
Più innovatore, perché, accogliendo ogni tipo di tributo e di variazione da parte di ogni parlante, presenta nuovi termini e differenti pronunce che convivono tutti allegramente, senza che nessuno possa affermare ciò che è giusto o sbagliato.
La lingua infatti, pur evolvendo (arricchendosi ed impoverendosi, a seconda dei casi), è come "imprigionata" dalla sua grammatica e dai suoi dizionari: se la grammatica dice che il discorso deve essere fatto in un modo, che la pronuncia deve essere quella, e se il dizionario dice che una certa parola non esiste, tutto ciò che non rientra in queste regole è inequivocabilmente sbagliato. Sbagliato oggi, domani vedremo!
Il dialetto, giovane e vecchio sbarazzino, fa ciò che gli pare: esso non ha prigioni e perciò si può sbizzarrire in mille varianti. Certo che regole ne esistono, ma, come ho già detto prima, si tratta di regole approssimative che, siano esse di pronuncia o di grafia, sarebbe bene seguire, ma che si possono anche eludere, poiché, lo ripeto, si potrà dire ciò che è prematuro o inopportuno o esagerato o di cattivo gusto o campagnolo od obsoleto, ecc., ma non ciò che è giusto o sbagliato.
-
Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 40)

La mì ‘mbràusa l’é ‘na venerànda
La mì ‘mbràusa l’é ‘na venerànda
La mì ‘mbràusa l’é ‘na venerànda
La frólla al mulinèl con una gàmba.

La mì ‘mbràusa l’am n’à fàta ónna
La mì ‘mbràusa l’am n’à fàta ónna
La mì ‘mbràusa l’am n’à fàta ónna
d‘in vàtta i cópp la m’à mustrè la lón-na

(da “Al lìber ed quàll ch’pèga l’óli” a cura Vari Autori, 1983)

La festa studentesca più importante era quella di San Martino, quando si aprivano i corsi scolastici. Gli studenti si davano al “bel tempo” e cantavano inni, come quello composto nel 1482 da Antonio Urceo, detto Codro, docente di lettere latine, che così cominciava:

Io, io, io
Gaudeamus io, io,
Dulces Homeriaci,
Noster vates hic Homerus
Dithirambi dux sincerus
Pergraecatur hodie…
(A. Vianelli, L’antica Università di Bologna, 1978)

Quand’ero bambino, mia nonna, per farmi stare buono, diceva una filastrocca della quale ricordo solo poche parole e probabilmente si riferivano al “discorso” d’un pappagallo che lei aveva sentito chissà quando e chissà dove:

Loréto reàl
Ch’al vén dal Portogàl
“Chi passa?”
È il re che va alla caccia,
tarà ta ta, tarà ta ta, ecc.


Ricordo che, quando mi prendevano sulle ginocchia, allargandole poi di colpo quasi per farmi cadere, mi raccontavano una breve favola che diceva pressappoco così:

Ai éra una vólta
Pirén da la spórta,
la spórta la s’é ràtta…
e Pirén l’é caschè par ‘d sàtta.
(dai miei ricordi d’infanzia)
-
Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 39)

Ecco alcuni esempi di “romanelle” e di “fiorini” medicinesi, cose adattabili anche a Bologna, vista la poca distanza tra il capoluogo e Medicina. Le parti in dialetto le ho “tradotte” nel bolognese attuale:

Vorrei saper da te, Maestro bello,
quànti bràza ai’é d’in zìl in tèra*
e quànti lébber la pàisa una stadìra*
e ànch quànt fiùr ai é int’na premavàira.*

*tre parole diverse in bolognese, ma che fanno rima in medicinese.

In mezzo al giardin c’è posto un spin prugnolo,
sera e mattina canta l’usignolo,
al cànta al màis d’Agàst e quàll d’Aprile:
un cór inamurè non può dormire.

Dio del ciel, piuvéss di macarón
e che la tèra la fóss infurmaiè

e che le mosche fossero capponi,
Dio del ciel, piuvéss di macarón!

***

Fiurén di menta,
l’amore da lontano mi tormenta,
ma quello da vicino, iiii!
Mi fa contenta.


Fiorìn di z’rìsa,
vùt ch’a ti tocchi o ch’a ti bèsa
o ch’a t’abràza, iiii!
Sànza camìsa.


Fior d’àqua cèra,
la bèla zànt la và a murìr in guèra
e gl’imbuschè i stàn qué a fèr d’la gatèra.
Fior d’àqua cèra.

E infine la famosa ballata, detta “La Veneziana” come si canta a Medicina. In questo e in altri componimenti, abbondano doppi sensi di carattere erotico ed anche molti riferimenti ad usanze agricole, retaggio di riti pagani, come quello di salire sul tetto e mostrare il sedere (come abbiamo già visto) e il sesso al sole nascente, all’inizio della primavera o ai fuochi di Marzo, gesti propiziatori per una ricca stagione agricola:

La mì ‘mbràusa l’é ‘na cuntadén-na
La mì ‘mbràusa l’é ‘na cuntadén-na
La mì ‘mbràusa l’é ‘na cuntadén-naLa fà al furmài e la plócca la ramén-na.
-
Paolo Canè