venerdì 18 luglio 2008

LA PÉRDITA (n. 158)

Una putèna la và dal ginecólogh parché l'éra bèle un póch ed tàmp ch'l'avèva di c'tùrb. Al dutàur a gli d’mànda:

"Int l'ùltum màis èla avó del pérdit?"
"At al cràdd: quèsi trì milión!".

L’AMERICÀN (AL CASÉN 3) (n. 157)

A la fén d'l'ùltma guèra, un americàn al và int un casén ed Bulàggna. Al và só int la stànzia con una scàia dai cavì cùrt cùrt, l'ai léssa la tèsta e al d'mànda: "No lana?" e lì: "Nà, a mi sàn taiè!". La se spóiia e l'americàn al vàdd ch'l'é plè ànch sàtta el lasén e a gli d'mànda: "No lana?" e lì: "Nà, am sàn rasè!". Quànd las chèva el mudànt al vàdd che l'é quèsi tótta plè e al d'mànda: "No lana?" - "Di' só ragazèl, it v'gnó qué par ciavèr o par fèret un giubén?".

UN CÀN ED RÀZA (n. 156)

"Sócc'mel, che bèl càn ch'avì! Cus'él un Rotvàiler?"
"Mocché Rotvàiler".
"Alàura un mastén?"
"Nà".
"San Bernardo?"
"Nà."
"Alàno?"
"Ói, par caghèr al chèga!".

RIME IN PILLOLE (pagina 19)

Giuramento:

Zùra zùra,
pànza dùra,
pànza infiè,
ch’a móra in ‘sta bulè!
(variante: zura té che mé ai ò bèle zurè!)


Quando piove:

Sànta Bèrbara,
Sàn Simàn,
liberèm da la saiàtta e dal tràn,
dal fùgh e da la fiàma
e da la mórt subitànea.

Piove, piove,
viene il sole:
la Madonna raccoglie un fiore,
lo raccoglie per Gesù,
finalmente non piove più.


Se si tiravano i capelli, si diceva:

I cavì d’la càppa
i fàn avrìr la bàcca
e qui lasó
i la fàn avrìr de pió!


A proposito delle difficoltà insite nella grafia del dialetto bolognese, il Magnani scrisse già nel 1688 (probabilmente ussol=gola e grasp=razzorino):

al scriver bulgnes l’è un cert d’affar
ch’fa spess volt all’ussol l’grasp vgnir


(A. Menarini, Pinzimonio bolognese, opera postuma 1985)
-
Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (paguna 18)

In questo dolce e profumato asilo
feci uno stronzo che pesava mezzo chilo.

(e sotto, con calligrafia diversa):

Ed io, per misurar le forze tue,
uno ne feci che pesava due.

(e sotto ancora):

Pensa e ripensa e alfine ho dedotto
che avete tutti e due il culo rotto.

Io ne trovai una nei cessi del Pier Crescenzi che recitava così:

Affinché questo Istituto nulla perda,
ciò che mi dà in saper gli rendo in merda.

Infine quasi una formula matematica:

+ me lo – + mi sento venir –
e x non venir + a – non me lo – +

E, ancora a proposito di iscrizioni nei cessi, ricordo questa breve, ma chiara:

Non importa che facciate centro,
ma…almeno dentro!

Saggezza popolare e regola di vita (in latino più o meno maccheronico):

Cacatio mattutina,
sicut medicina;
catatio meridiana
nec utilis nec vana;
nocturna cacatio,
mala manducatio


Detti e credenze relative ad occhi che ballano e orecchi che fischiano:

Óc drétt, guài trésst
Óc stànch, guài grànd


Uràccia stànca, paróla frànca
uràccia drétta, paróla mèl détta
-
Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 17)

Le iscrizioni dei cessi sono famose. Eccone alcune, partendo dall’era fascista:

“Viva l’Asse”…del cesso

Qui la faccio e qui la lascio
metà al duce e metà al fascio:
se le tasse non riduce,
niente al fascio e tutto al duce.

(A parte che 70 anni dopo, in fatto di tasse, non è cambiato nulla e perciò si dovrebbe trovare qualche parola “da cesso” che faccia rima con Prodi, io conoscevo una versione simile la cui seconda parte era scritta da un secondo…avventore):

… io la faccio qui alla luce
e la lascio tutta al duce.

Qui si entra pesanti e dolenti
e si esce leggeri e contenti.

Chi col dito il cul si netta,
tosto in bocca se lo metta…
(Ma io conoscevo anche il seguito)
…e così resta pulito
muro, culo, carta e dito!

Si pregano i signori azionisti
di questo banco deposito di non
fare conteggi con le dita e di
non lasciare spiccioli sul banco.

Passiamo a quelle molto oscene:

Qui si entra e non si paga
qui si piscia e qui si caga
e, se il tempo lo permette,si fanno anche le pugnette
-
Paolo Canè

QUANDO LA “O” DIVENTA “U” E VICEVERSA!

La parola “con”, oggi pronunciata e scritta come in italiano, fino a tutto il Settecento e, talora, anche nell’Ottocento, veniva scritta (e forse anche pronunciata) ”cun”: el taiadèl cun al ragù, ciò che oggi più nessuno fa, se non forse qualche provinciale, e che molto probabilmente ricalcava il latino “cum”. Ma vi sono altre mutazioni da “u” ad “o”: basti pensare che, fino ad un secolo fa, molte parole come “originale”, “opinione”, ecc. venivano scritte (e pronunciate) uriginèl, upiniàn, ecc. mentre oggi, forse per influenza dell’italiano, si sente dire dovunque originèl, opiniàn, ecc. Tuttavia gran parte delle parole che in italiano iniziano per “o”, in bolognese continuano ad iniziare per “u”. Vediamo qualche esempio: ubidìr (obbedire), ucè (occhiata), ufàisa (offesa), udàur (odore), uséggin (ossigeno), urèl (orlo), utàn (ottone), ucèl (occhiali), urdinèri (ordinario), perfino urinèri (orinale) e tante altre. Da notare che “ufficio” ed “officina”, in dialetto fanno entrambi “u”:ufézzi,ufizén-na.
La corrispondenza del bolognese “u” con l’italiano “o” è così ben radicata nel nostro orecchio che, anche quando vogliamo scherzosamente tradurre in italo-bolognese una parola dialettale in “u” la rendiamo con “o”: usvéii (arnese)= osvìglio!
Altre parole iniziano per “o” anche in bolognese, ma poi prendono la “u”, nei diminutivi (fenomeno che si riscontra nelle lingue germaniche, dove la dieresi muta il suono delle vocali) ed anche negli aggettivi e nei verbi. Qualche esempio: óli- ulièr (olio-oliare), óca- ucarén-na (oca-ocarina), órt-urtlàn (orto-ortolano), óc’- ucèl (occhio- occhiali), ózi- uzièr (ozio-oziare), óbligh-ublighè (obbligo-obbligato), ecc.
Questa è la regola, ma…esiste anche il suo contrario! Ci sono infatti parole che iniziano per “u” in italiano, ma che iniziano per “o” in dialetto: ónnich (unico), óv (uovo), ómen (uomo), ómmil (umile), óttil (utile), ecc. Il motivo è dovuto in parte al latino (homo e ovum, che anticamente facevano, anche in italiano, omo e ovo), poiché, non dimentichiamolo mai, il bolognese e tutti gli altri dialetti non derivano dal toscano, ma direttamente ed autonomamente dal latino! Per altre parole, che anche in latino avevano la “u” (humilis, utilis, unicum, ecc.), si tratta probabilmente di distorsioni o adattamenti del latino, poiché, anche questo non dimentichiamolo mai, prima dell’avvento dei Romani, i nostri antenati non parlavano certo a segni, ma usavano altre lingue, autoctone o di origine celtica, le cui inflessioni, oltre ad influenzare il latino, non sono mai sparite del tutto.
L’ho già detto e lo ripeto: che cosa darei per sapere come parlavano i bolognesi del Medio Evo e che cosa darei per sapere come parlavano alcuni secoli prima, quando il latino si parlava soltanto nel Lazio e qui da noi si davano il cambio diversi popoli: dai Liguri agli Umbri, dai Villanoviani, agli Etruschi, ai Celti.
Infine, a proposito di ómen e di óv, vediamo che nei diminutivi e nei derivati riprendono la loro brava “u”: umarén e uvén. Questo mi fa ricordare che, tempo fa, in via Gombruti, aprì un’osteria dal nome “l’uvaról” e i proprietari adottarono come insegna una figura con dell’uva. Ma l’uva in dialetto si chiama curiosamente e brevemente ù, perciò, se mai esistesse, avrebbero dovuto chiamare l’osteria: “l’uèr”. L’uvaról è il “treccone”, cioè il raccoglitore di uova! C’era anche tràccuel (Mainoldi).
-
Paolo Canè

sabato 5 luglio 2008

TRA LE BRACCIA DI MORFEO

È incredibile il numero di pensieri e d’idee che ci vengono quando siamo a letto, in quei momenti che definiamo “tra la veglia e il sonno”. Sono cose anche interessanti che però, se non abbiamo la forza di alzarci e di prenderne nota, il mattino seguente saranno svanite come i sogni! E interessanti sono sicuramente le parole del dialetto che hanno a che vedere col riposo quotidiano.
Coricarsi: è una parola che in bolognese non esiste. Noi diciamo “andèr a lèt”, come del resto si dice anche in lingua. Si dice invece al Sud: “cuccà” in napoletano, che è analogo al francese “coucher”, e qualcosa di simile anche negli altri dialetti. Curioso (e d’origine latina!) è il calabro-siculo “vaiu me curcu” (vado mi corico=vado a coricarmi) ed anche il termine “ritirarsi” che ha lo stesso significato, ciò che da noi invece significa soltanto: “diventare più corto”!
In via di sparizione abbiamo anche il termine “agiachères” che è quasi certamente la versione bolognese di “giacere”.
Alzarsi: è un’altra parola che non esiste. Noi diciamo “livères” (levarsi) che peraltro si dice anche in lingua.
Dormire: anche noi diciamo “durmìr”, ma è curioso ricordare come una volta si dicesse “al drómm” anziché “al dórum“ (egli dorme), mentre “indurmintè” significa addormentato, detto anche di persona imbranata! Curioso è anche un termine, ancora ben vivo, d’evidente estrazione latina: “cubièr”. Infine, per esaurire le curiosità, abbiamo “la dórmia” che è l’anestetico. “Dórmia” è anche voce verbale di quel tempo che io ho chiamato “interrogativo dubitativo”, inesistente in lingua, come anche “vàghia o stàghia?” (vado o resto? Con insito il dubbio).
Sogno: si dice “insónni”, ma anziché dire “ho sognato”, si usa la forma riflessiva “am sàn insugnè” (mi sono sognato, anche in italiano, per gente meno acculturata).
Svegliarsi: nonostante che esita la locuzione “strà la véglia e’l sànn” (tra veglia e sonno), non esiste un verbo che riproduca l’italiano “svegliarsi”. Ne abbiamo uno tutto bolognese, difficile da scrivere e anche da pronunciare (per i forestieri) che è “z’dères”, da cui “z’dàzzd” (sveglio). A prima vista sembra una parola strana, anche perché fa pensare…ad un setaccio (sdàz), ma la spiegazione è molto più semplice: è l’esatta traduzione di “destarsi” e “z’dàzzd” significa “desto, cioè sveglio”.
Ho fatto alcune fantasie su questo termine che potrebbe essere partito da “dàst” e poi “sdàst” per arrivare a “z’dàzzd” e mi sono chiesto: perché la “z” e non la “s”? Perché non “s’dàsst”? Sempre restando nel campo delle supposizioni e delle fantasie, senza nessuna base di studi specifici, ho fatto caso che molte parole bolognesi che hanno la “z”,derivano da parole latine con la “x”.E’ il caso di “z’nèster” (lombalgia) dal basso latino “sinexter” (sinistro, accidente) ed è anche il caso del nostro “z’dères” (destarsi) che deriva dal latino “deexcitare”, cioè “de excitare” = chiamarsi fuori (dal sonno). E, dato che la scienza ha limiti, ma la fantasia no (e questo è un gioco che mi diverte moltissimo!) ho anche pensato che i latini potessero pronunciare la “x” in un modo che potrebbe essere simile alla “z”. Nei dialetti sardi, che sono forse i più vicini al latino, la “x” viene infatti pronunciata in modo “strano”: la località “Su Nuraxi” viene pronunciata “Su Nuraji” con un suono strascicato, tra “s” e “z”, simile al francese di “fromage”. Sono miei “voli”, d’accordo, ma spiegherebbero quanto detto sopra!
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Paolo Canè