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martedì 15 gennaio 2008

PAGANINO BONAFEDE E IL "THESAURUS RUSTICORUM"

Un interessante capitolo apparso sulla Strenna Storica Bolognese, edita a cura del Comitato per Bologna Storica e Artistica nel 1962, scritto da Agostino Bignardi, ci parla del nostro concittadino Paganino Bonafede o Bonafè (1310-1375 ca.).Chi era costui? Bologna gli ha dedicato una strada fuori porta Mazzini, ma non so se in tutta la città ci siano 10.000 persone che sanno chi egli fosse. Fu contemporaneo del Petrarca e "collega" del più famoso bolognese Pier de' Crescenzi, tuttavia anche di quest'ultimo i bolognesi sanno poco: io stesso, che ho frequentato per cinque anni l'Istituto Tecnico a lui intitolato, non sono mai stato informato su chi egli fosse e ho dovuto fare personali ricerche per sapere che fu un dotto ed eclettico concittadino, vissuto dal 1233 al 1321. Questi eccelse in varie discipline (medicina, diritto), ricoprì varie cariche (giudice, assessore) e nel 1305 pubblicò la monumentale opera Liber Ruralium Comodorum, ritenuto il codice agrario del Medio Evo, intorno al quale furono ridestati (dopo Virgilio) gli studi agrari a Bologna, ma anche in tutta la penisola ed io penso che si debba a lui l'antica tradizione agricola della nostra Regione. Dunque personaggio di notevole spessore, anche se oggi la maggioranza dei bolognesi sanno molto meglio chi siano Lucio Dalla o Gianni Morandi! Ebbene, il nostro Paganino, pur avendo trattato lo stesso argomento del Crescenzi, non ne aveva la statura né la cultura, tuttavia ci ha lasciato il suo Thesaurus che è valido sia per quanto concerne l'agraria e le tecniche di semina, coltura, concimazione, potatura e quant'altro di cereali, viti, olivi, ecc., sia perché esso fu scritto (55 anni dopo l'opera di Pier Crescenzi) in un linguaggio che, nonostante il titolo latino, è considerato il primo saggio di poesia didascalica volgare di tipo "rustico", poiché non è scritto né in dialetto, né in volgare illustre, ma in un linguaggio "nuovo" fatto in gran parte di forme dialettali bolognesi volgarizzate, come osservò il Vivarelli. Ed è proprio questo aspetto che mi interessa e del quale voglio trattare. Scriverò pertanto qui di seguito tutti i versi del Thesaurus riportati dal Bignami e ne uscirà un elenco di parole e di consigli frammentari, sui quali farò qualche commento.
Ritengo interessante e doveroso ricordare questi due bolognesi, diversi per la loro importanza, ma uguali nell'essere…ignorati anche dalle buone enciclopedie! Penso che non dovremmo essere tanto ignoranti e che qualcuno dovrebbe istruirci sui nostri grandi concittadini del passato: non è sufficiente dedicare loro una strada e basta! Ma vediamo Paganino:

Anni trecento e mile sesanta 1
dal comenzare della vera fede santa 2
de Cristo gratioso et benigno… 3
…tute le infrascritte cose… 4
…e del teren e del piantare 5
e d'altre bone cose che son da fare… 6
…de seminare secondo li tereni 7
terren crudegno, tufo, bisio over bertino, 8
dolce, forte, bruno, rosso over giallo… 9
il gran restudo, toxello, asarino e ciciliano 10
…ogni teren ch'è magro e fievole 11
senza letame è poco frutevole 12
…se un altro ben tu glie vo' fare 13
subito fa la stoppia arrare 14
e revolgere ella tutta dentro 15
che l'è un gran ingrassamento… 16
…quando la terra è troppo grassa 17
lo gran mai ben garnire lassa… 18
(il letame) dagliene spesso e poco per volta 19
Quando tu voi seminare formento 20
al primadizio sta sempre atento, 21
e però semina da setembre 22
com'è compide le vendeme. 23
Sichè semina adoncha primadizio 24
prima che venga el fredo e'l strizio. 25
Loda el serodan e tienti al primadizio. 26
…le biave c'àno la spica 27
altre biave da cornechie 28
o civaie o legumi (sitiola e vernia) 29
melega, miglio e panìco. 30
De la vigna e de la stasone del potare… 31
…de invischiare la vigna per le rughe, 32
del fare le proane, del piantare della vite… 33
…delo insedire de la vite.. 34
…perché lo grande aculturare 35
è quel che vigna fa frutare… 36
…e poi e piglia un poco con un dito 37
e ungi bene lo capo della vite 38
disotto dalli ochi ne lo capo novo 39
che li è di bisogno e li fa luoco, 40
e le rughe andar su non porano 41
a li ochi de la vite affarli dano. 42
Se taioli piantare vorai 43
come io dirò così farai 44
dico che l'insedire tu faci 45
inanci che 'l suchio suo t'impaci, 46
le sede se voleno spolenare 47
spesse volte e no 'l falare. 48
Zapare si è l'onguento 49
che tiene sano lo piantamento. 50
De li olivi; de le grane di olive chative 51
ogni arboro che voi aledamare 52
ledame schietto mai non li dare 53
ma meseda cun tanta terra in prima… 54
li olivi vechi si volon potare d'ogni seccume 55
…poi mitti su una stuora (le olive) 56
e ben d'intorno le fassa 'lora 57
sì che non tochino la terra né 'l muro. 58
Peri, prugni, meli, mandoli, mori, fichi, 59
persichi, nuci, muniache, nucelle. 60
…e nota ancora questa dotrina: 61
che ogni pianta picolina 62
se piglia più volintiera 63
che quella pianta ch'è grosiera, 64
e durerà più lungamente 65
e abij questo bene amente. 66
Molto se vol ben zapare 67
ogni pianta a remenare 68
quatro volte o tre almen l'ano 69
per le poce radice che ano, 70
e la terra sta allora amorosa 71
tu non li porissi mai far la miglior cosa. 72
Muri da fare perfeta foglia 73
che sia ruvida grossa e dura, 74
come de' essere de natura 75
per vermi da foliselli 76
che fina seta fazan quelli 77
alla primavera 78
quando gli stornelli fan de dui schiera. 79
Or tutte le cose che qui son ditte, 80
e che son qui notate e scripte 81
tutte quante son certe e proate, 82
e corrette e regolate 83
per Paganin de Bona fé 84
che le compose e disse e fé 85
per amaistrare quelli che men sano 86
da lui se tanto saver vorano. 87
Explicit thesaurus rusticorum. Deo gratias. 88


Sono poco meno di cento versi dei poco meno di mille scritti da Paganino che sono arrivati fino a noi. Non è questa la sede, né sono io qualificato per discutere di agronomia (per quanto le tecniche ed i consigli dati in materia siano validi ancora oggi!). Vorrei soltanto soffermarmi un poco sul linguaggio usato dal nostro concittadino che non è, come si è detto,dialetto bolognese e nemmeno italiano colto, come quello usato allora da pochi eruditi, tra i quali certo quel Pier Crescenzi che pare Paganino nemmeno conoscesse.
Del resto la maggioranza degli eruditi scriveva ancora latino che era e restava la lingua colta ufficiale e presumo che la stragrande maggioranza del popolo a quei tempi (650 anni fa) non sapesse l'italiano e non sapesse nemmeno questo "basso" volgare, il quale peraltro mi sembra molto più vicino alla lingua di Petrarca che non al dialetto dei bolognesi. Farò qualche nota interessante (e per me divertente!) su forme e parole scritte allora, le quali richiamano il dialetto che parliamo ancora oggi ed è a questo scopo che ho numerato gli 88 versi:
1-2-3: un modo complicato per dire che correva l'anno 1360 d.C.
8: "cudràggn" significa ancor oggi "coriaceo", "terreno cretaceo", mentre "bertén" (o “bartén”) è il nostro solo modo d'indicare il grigio, a parte il brutto "grìs".
10: "grano restudo" significa "aristato", cioè con una specie di spiga e forse il corrispondente termine dialettale, come altri, è andato perduto. E "tusèl" è ancor oggi un tipo di grano senza resta; "asarino e ciciliano" (forse siciliano) sono due tipi di grano duro.
16: "che l'è" in dialetto "ch'l'é". Buoni consigli per l'aratura.
19: lo stesso aveva detto il de' Crescenzi, ma può essere una coincidenza.
20: "formento" è forma più simile a "furmànt" che a frumento.
21: "primadézz" significa precoce e "atento" è il nostro "aténti"(una "t")
23: "compide le vendeme", cioè dopo la vendemmia.
24: "adoncha" più simile a "dànca-adànca" che a "dunque".
25: "strézz", screpolato anche se oggi è riferito soprattutto alla pelle.
26: qui cita un proverbio che è sopravvissuto nei secoli: "Lóda la lódla,mó tént al primadézz", cioè seminare anche avanti il tempo delle allodole!
27: "c'àno", nel nostro italiano colloquiale diciamo "c'hanno".
28: le cornechie (el curnàcc') sono i bacelli
29: "stióla" e "vérnia" sono le fave precoce e tardiva
30: "melega, miglio e panìco" sono tre cereali poveri d'allora. Oggi io conosco solo "méii" in dialetto, ma il primo ha dato origine ad un diffuso cognome (come "ligabò" e "bunèga" dei quali ho già detto in altra sede)
31: la stasone, derivato da "stasàn"
32: "rùgh" sono i bruchi nocivi alla vite, come le formiche e altri parassiti (le rughe)
34: insedire, cioè "insdìr", innestare in toscano!
40: luoco è quel "lùgh" ormai quasi scomparso che significa "il suo posto"
41: non porano, cioè non potranno, "in p’ràn (brìsa)" e mi piacerebbe sapere se questa doppia negazione già esisteva o se è entrata in uso dopo!
42: affarli dano, "a fèri dàn" (tutti consigli per fare il vischio).
43: "taiól" è la talea ancora oggi.
46: "suchio suo" e la linfa della pianta
51: "chative" è "catìvi", quasi che l'acca accentui l'unica "t" canonica!
52: "aledamare", mettere il letame e ci ricorda la nostra "aldamèra"
54: "meseda" traduzione da "màssda-armàssda" mescola.
55: "si volon" e infatti "is vólen"
56: "stuora" la stuoia che oggi si chiama "sturén"
57: "'lora" sarebbe l'aria o forse "l'óra" = l'ombra?
58 e 73: "muro" è il moro, il gelso, in dialetto unicamente "màur"
60: "pérsga", "mugnèga" frutti chiamati così ancora oggi che con le latineggianti "nuci" e "nucelle" trattai già in altra sede.
63: "volintiera" come "vluntìra" o "d'vluntìra" con la "a" finale.
66: "tenere amente" è il nostro "tént in amànt" cioè ricorda.
75: "come de' essere" ricalca "cùmm l'à da èser"
77: "fazan", facciano si dice ancora identico insieme alla forma "fàgan"

Io mi sono divertito a fare questa ricerca, non so il lettore! Certo che uno degli aspetti più affascinanti e misteriosi delle lingue e dei dialetti è il loro incrociarsi e mescolarsi ed il loro divenire nel tempo.
Non c'è, non c'è mai stato un giorno in cui qualcuno abbia detto:" Adesso stop col latino e parliamo tutti in italiano!", né ci sarà qualcuno che un giorno, qui a Bologna, dirà:" Stop col bolognese e parliamo italiano".Sono cose che avvengono gradatamente, quasi inconsapevolmente e direi automaticamente, secondo i grandi eventi storici che sanciscono il predominio o la decadenza di un certo idioma e l'insorgere di altri. Cose che dipendono dai diversi stadi di alfabetizzazione, di acculturamento delle genti. Solo a distanza di secoli possiamo dire:"Questo è latino, questo è dialetto, questo è italiano" (pur se tutti si trasformano lentamente), ma mentre viviamo il nostro tempo non ci accorgiamo dei cambiamenti, a meno che non ci si faccia molta attenzione!
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Paolo Canè

mercoledì 7 novembre 2007

ANCHE IL DIALETTO CAMBIA (O ALMENO DOVREBBE…)

Ogni anno alcuni giornali dedicano l'intera pagina culturale all'uscita dei due principali dizionari, Zingarelli e Devoto, con due articoli affiancati. E' la stessa pagina d’ogni anno, perciò potrebbero ripubblicarla, tale e quale, anche il successivo, con qualche lieve variazione e cambiando la data! Il giornalista si limita a riportare il numero dei lemmi, dei significati nuovi e dei neologismi, facendo di questi ultimi qualche esempio, tanto per soddisfare la curiosità del lettore, ed anche il prezzo, anch'esso concorrenziale, ad esempio: € 68,40 l'uno ed € 68,50 l'altro!
Si dà molta importanza alla lingua che cambia e s'invitano i consumatori ad acquistare queste nuove edizioni, ma in realtà si tratta di pubblicità occulta ai due dizionari, poiché gli Editori, dovendo pur vivere, sono costretti ad una nuova uscita ogni anno. Però, se è vero che un dizionario ci può servire per 5-10 anni e che pertanto non siamo costretti a spendere 68 euro l'anno, è anche vero che la lingua cambia, ogni giorno, come del resto ha sempre fatto. Ma cosa cambia? Cambiano soprattutto i significati di una stessa parola, ma le "novità" vere e proprie sono quasi sempre o parole americane o "mostriciattoli" (così li chiamava Aldo Gabrielli) che sarebbe bene dimenticare, anziché riportarli su un dizionario che voglia essere serio!
La parola "fusto" ha significato per secoli il tronco, lo stelo, la parte centrale e portante di un qualsiasi corpo. Poi, con l'avvento del petrolio, ha assunto il significato di bidone e infine, nel gergo del '900, l'ulteriore significato di uomo bello e prestante: non si tratta dunque di parola nuova, ma di nuovi significati dati ad una parola vecchia. Uno dei due dizionari una volta dichiarò "solo" 3000 parole nuove e ben 25.000 nuovi significati di parole vecchie.

A differenza di quanto dichiarò una volta un accademico plurititolato: "Non è vero che l'italiano cede sempre più spazio alla lingua americana, se non in pochi determinati settori", dal mio modesto punto di vista io credo che ciò non sia esatto, poiché i "pochi settori" sono apparentemente tanti: la tecnica, l'informatica, la scienza, la medicina, lo spettacolo, la politica e, quel che è peggio, la nostra vita di tutti i giorni!Siamo inflazionati di termini americani, anche se non sappiamo scriverli, anche se non sappiamo pronunciarli, anche se già abbiamo corrispondenti termini italiani di antica nobiltà, anche se detti a sproposito. Sono invece d'accordo col succitato accademico quando denuncia il mondo televisivo ( gli "atroci" reality show) e quello politico (welfare, question time, ecc.) come diffusori di inutili parole incomprensibili alle masse ed attentatori alla nostra lingua.
Il giornalista Giulio Nascimbeni riportò una bella citazione del filologo svizzero Giovanni Pozzi: "Il libro (dizionario, in questo caso), deposito della memoria, antidoto al caos dell'oblio, dove la parola giace, ma insonne, pronta a farsi incontro con passo silenzioso a chi la sollecita. Amico discretissimo, il libro non è petulante, risponde solo se richiesto, non urge oltre quando gli si chiede una sosta. Colmo di parole, tace". Una evidente reazione all'aggressione, soprattutto televisiva, della pubblicità e dell'informazione esasperata, che il Nascimbeni riporta come pertinente alla presentazione di un dizionario, mentre io credo, al contrario, che un dizionario pieno di parole inutilmente "nuove", fastidiosamente anglofone, sovente di dubbio gusto e in buona parte destinate a non durare nel tempo, non rappresenti soltanto un'aggressione al sottoscritto, ma anche alla nostra bella lingua!
Qui non si tratta di voler fermare un processo innovativo che è sempre esistito, si tratta solo di non avere troppa fretta e la pubblicazione annuale di nuovi dizionari induce alla troppa fretta di innovare, poiché qualcosa di nuovo debbono pure pubblicare, se vogliono vendere! Ecco che il libro- dizionario cessa di essere "l'amico discretissimo" descritto dal Pozzi, limita la sua funzione di "conservatore della lingua" che dovrebbe essergli congeniale e diventa strumento di aggressione, perché giustifica e rende ufficiali troppe vanità, come fa la TV, come fanno i giornali, come fa la politica, come fa Internet e come fanno tutti coloro che si spacciano per persone introdotte e moderne.

E la lingua cambia, anche se più lentamente, poiché la globalizzazione lo impone, lo impone l'informatica e lo impongono i sempre più frequenti contatti internazionali. Fortunatamente però molti nuovi termini, anche se i dizionari continuano a riportarli, spariscono dalla bocca degli italiani o restano circoscritti in piccole zone: "ganzo", col significato, secondo le regioni, di bello, elegante o fidanzato o amante, chi lo usa più, se non i toscani? Chi tra i giovani chiama più "matusa" i genitori o "ferro" l'automobile? Eppure questi termini (e centinaia di altri), ostinatamente riportati dai dizionari, sono stati a suo tempo "novità" che hanno fatto vendere nuove edizioni!
E' difficile oggi, ubriachi di consumismo come siamo, distinguere ciò che è utile, giustificato, elegante e necessario da ciò che ci viene inculcato allo scopo di vendere: oggi non esiste più, apparentemente, l'educazione o l'insegnamento, ma esiste solo ciò che si vende o non si vende!
E la lingua cambia. Cambiano di poco la grammatica e la fonetica (per fortuna!), mentre cambiano di molto i vocaboli e così i dizionari diventano i "sacerdoti" delle innovazioni, stabilendo ciò che si dice o non si dice, e pertanto diventa corretto ciò che essi riportano e scorretto ciò che non riportano.
Sono il termometro del cambiamento, anche se i cambiamenti veri e propri hanno bisogno di molto più tempo e di citazioni da parte d’illustri scrittori e poeti.Anche i dialetti cambiano, ma, rispetto alla lingua, hanno tre principali differenze e mi riferisco ora al bolognese:

1) il loro cambiamento è sovente un semplice appiattimento sulla lingua che è sempre più predominante: ho già detto che stiamo salutando il "pulismàn" a favore del "véggil", il "cumpàgn" a favore del "cómme" e da tempo abbiamo dimenticato "chèsa" a favore di "cà", ma gli esempi sono innumerevoli.
2) per il solo fatto d'essere idiomi soprattutto parlati e incidentalmente scritti, accade che i parlanti cambino in modo anche sensibile, mentre i dizionari continuano a riportare vecchie parole che così restano scritte, ma non più pronunciate: vedi "paese" che tutti i dizionari, anche i più nuovi, continuano a scrivere "paiàis", mentre la quasi totalità dei bolognesi pronuncia, da anni, "paàis".
3) proprio perché nessuno ha mai stabilito come si debba scrivere e come si debba pronunciare, a differenza dell'italiano che ha le sue precise regole e poche eccezioni, c'è un'enorme confusione in fatto di fonetica e di grafia tra ciò che è antico e ciò che è moderno, tra ciò che è corretto e ciò che è scorretto, tra ciò che viene tramandato da persone colte e ciò che viene riportato da persone ignoranti e, infine, tra ciò che dicono o che scrivono i bolognesi e ciò che dicono i campagnoli.

La lingua italiana segue dunque il suo percorso, anche se afflitta da parole straniere, anche se inflazionata da termini non duraturi, inquadrata dalla sua grammatica e rifornita dai suoi dizionari, mentre il dialetto, sempre più prossimo alla sua estinzione, è allo sbando. Cambia la pronuncia, ma non cambiano i non troppi scriventi, alcuni dei quali seguono la dottrina illuminata del Menarini, vero innovatore in questo campo, ma la maggior parte degli altri continua a scrivere in un'orgia di termini obsoleti, grafie scorrette e spesso, purtroppo, di non conoscenza: si tratta in pratica di analfabeti che vogliono scrivere!Dunque anche il dialetto cambia o almeno "dovrebbe" cambiare…se solo fosse una lingua scritta!
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Paolo Canè

venerdì 5 ottobre 2007

IO E I TOSCANI

In molti miei scritti e anche di recente ho avuto modo di manifestare spesso la mia poca simpatia per la Toscana, i toscani e il loro dialetto, ma ora credo che sia il caso, se non di ravvedermi, quanto meno di spiegare i vari motivi di tale mio atteggiamento.Premetto che la Toscana è bellissima, che tra i toscani ho alcuni buoni amici che sono, tra l'altro, brave persone e che il dialetto (o "vernacolo" se preferite!) toscano non è né meglio, né peggio degli altri. Ma debbo anche dire che:

a) siamo regioni confinanti e si sa che non c'è peggior avversario di colui che ti sta alle costole (gli stessi toscani lo insegnano, vista la loro faziosità)
b) non amo l'atteggiamento di superiorità dei fiorentini, lo stesso che hanno romani e milanesi, ma almeno costoro sono abitanti di metropoli e tutti i metropolitani europei (parigini, londinesi) tendono ad avere un po' di "puzza" sotto il naso. I fiorentini sono appena mezzo milione!
c) i miei avi hanno sempre preso in giro la loro parlata (il famoso "tosquigno"), perciò lo faccio anch'io. E con molto piacere!
d) mentre le battute dei romani (e napoletani e siciliani, ecc.) sono spesso simpatiche, difficilmente lo sono quelle, spesso prevedibili e datate, dei toscani. Almeno così le ho sempre percepite.
e) i toscani in genere, ma soprattutto fiorentini e senesi, credono ancora di parlare il solo "italiano" possibile e ci sono pure altri (sprovveduti) italiani che lo credono (mi sono spesso scagliato anche contro il Manzoni!), ma non è vero. O almeno NON E' PIU' vero!

Questi sono i motivi che stanno alla base della mia scarsa simpatia, motivi che possono essere o meno condivisibili, ma credo che bastino!Il bel trattato di G.L. Beccaria il cui titolo è "ITALIANO" (Garzanti-1988) è chiaro sul punto e): quello alla Toscana ed al dialetto fiorentino è un "vecchio riferimento", cioè un modello che è stato valido ai tempi di Dante e che ha mantenuto una certa validità fino a Manzoni, ma poi altri dialetti hanno contribuito alla lingua, tanto da renderlo superato. Ed io sono perfettamente d'accordo: voler ribadire oggi la supremazia linguistica del dialetto fiorentino è come voler resuscitare un morto e, a mio modesto parere, sono abbastanza ridicoli certi termini toscaneggianti dei "Promessi Sposi" che c'entrano con la realtà lombarda come i cavoli a merenda!Il libro di Beccaria ha solo tre difetti (sempre a mio modesto parere):

1) con le sue 300 pagine fittissime, nelle quali si trattano forse troppi argomenti, è un po'…pesante da digerire!
2) comprende troppi riferimenti politici. Tempo fa scrissi alcune e-mail al professore, osservando che nella trasmissione televisiva "Parola mia" esagerava qua e là nel palesare le proprie idee. E' un vezzo di quasi tutti i componenti della sua parte, i quali, operai o professori che siano, non resistono alla tentazione di ostentare la propria idea, convinti come sono che sia la migliore! E Beccaria non sfugge alla regola: peccato, perché se si limitasse a scrivere di ciò che sa e di ciò che è pertinente alla lingua, sarebbe molto meglio per tutti!
3) la sua posizione nei confronti dei neologismi, degli inserimenti forestieri e della "difesa della lingua" in generale, è fortemente intermedia e decisamente ambigua, ma anche ciò è in linea con il suo modo di pensare: un permissivismo spinto a 360 gradi che lo spinge ad accettare tutto, anche se poi, leggendo bene, si desume che…permette molto meno di ciò che dice! Una posizione ben diversa di quella, ad esempio, del prof. Gabrielli, altro insigne linguista (…e parente delle sorelle Pivetti!), il quale non esitava a scagliarsi in modo deciso contro i "mostri" e gli inserimenti inopportuni, ma … Gabrielli aveva tutta un’altra mentalità!

Per quasi tutto il resto sono d'accordo con Beccaria e con il suo libro dal quale ho imparato molto e che consiglio a tutti coloro che s'interessano di lingua e di dialetti. Egli cita Menarini come "grande esperto di gerghi" e cita inoltre molte parole e proverbi del dialetto bolognese, di più di quelli del Piemonte che è la sua regione: ciò dimostra che ha letto, che stima e conosce bene l'opera di Alberto Menarini e ciò mi fa molto piacere! Come mi fa piacere il fatto che nel suo libro tratti diversi argomenti e faccia parecchi esempi (alcuni dei quali peraltro arcinoti) che sono gli STESSI fatti da me in questa ed in altre raccolte dialettali e linguistiche precedenti: ciò dimostra che, nel mio piccolo, ho centrato più di un problema ed è un’intima soddisfazione.Beccaria giudica "antico" il rigore linguistico (e rischia di cadere nella esagerazione opposta), tuttavia è contrario al "burocratese", agli anglicismi (da lui detti "anglismi") inutili, ciò che condivido in gran parte, mentre condivido in pieno ciò che afferma sull'inutilità degli "interventi dall'alto" in fatto di lingue e dialetti e sul fatto che "tutte" le lingue siano in realtà miste e pertanto sia sciocco imporre regole o invocare il concetto di "lingua pura" che non è mai esistito! Condivido, anche… se mi dispiace.
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Paolo Canè

CATTANEO E I DIALETTI

Un articolo apparso di recente sul "Corriere della Sera", ricorda come Carlo Cattaneo, pur parlando volentieri il dialetto milanese ed ammirando le poesie di Carlo Porta, ritenesse il dialetto un’inutile anticaglia, in contrasto con l'idea di un'Italia unita dove si sarebbe dovuto parlare una unica lingua. L'articolo è, in effetti, una polemica del suo autore nei confronti della Lega che ha voluto "sottotitolare" in dialetto i nomi dei centri della Lombardia, usando cioè il dialetto come elemento di divisione, ciò che ho già avuto modo di criticare in un precedente capitolo.
E' irritante come la politica usi qualsiasi strumento, anche il più sacro (la Patria, la mamma, la pace, la lingua, ecc.), pur di portare l'acqua al proprio mulino e non si faccia scrupoli, né si vergogni!
Io credo che la posizione del Cattaneo non debba essere né osteggiata da una parte politica (la Lega) per introdurre o reintrodurre la pratica dialettale con altri subdoli scopi, né essere usata da un giornalista per controbattere tali iniziative. Cattaneo, anche se non lo dice apertamente, è molto chiaro: il dialetto è una cosa nostra, che deve restare tra noi e non deve avere altri significati, se non quello di portare avanti una tradizione, un'intimità di tutti coloro che sono nati in una certa area, mentre la lingua si riferisce ad un'area più vasta, con scopi del tutto diversi. Un secolo fa l'Italia stava nascendo e posso capire che ci fosse da parte di molti la volontà di favorire l'italiano a scapito dei dialetti, non per un rifiuto di questi ultimi, ma sopra tutto per togliere ogni dubbio dalla volontà di costruire una Nazione.
Sono passati 150 anni da allora, l'Italia è fatta (…quasi!), l'italiano è parlato (anche se male!) da tutti e credo che lo stesso Cattaneo, se vivesse ancora, non sarebbe così duro nei confronti di quel suo dialetto, che nella sua Milano sta ormai scomparendo.
Strumentalizzare anche il dialetto per fini politici è delittuoso, sia perché ogni persona di senno potrà anche pensare ad una separazione amministrativa ma non certo politica del nostro Paese, sia perché favorire una rinascita del dialetto oggi, sarebbe come voler portare alle Olimpiadi un vecchio di 90 anni!L'ho già detto e lo ripeto: amiamo questo nostro dialetto, come un vecchio malato, che ha ancora pochi anni da vivere, ma non illudiamoci che egli possa ritornare giovane, per riprendersi quella funzione che certamente ha avuto, ma che non può assolutamente avere di nuovo.
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Paolo Canè

sabato 29 settembre 2007

IL TOSQUIGNO

"Il bel parlar tosquigno", così i nostri vecchi solevano fare il verso alla lingua italo-toscana: evidentemente la pensavano già come la penso io! E proprio in questa parola tosquigno, che non è italiano (toscano) e nemmeno bolognese (tuscàn), è racchiusa tutta l'antipatia per quel dialetto e per quel popolo. Scusate se ogni tanto sento il bisogno di ripeterlo, ma è più forte di me! Ogni popolazione, ogni persona può essere più o meno antipatica, ma ai toscani non riesco a perdonare quella caratteristica di essere saccenti, supponenti e superbi, soprattutto nei riguardi della lingua, oltre al fatto che essi non riescono mai a farmi ridere! Se ad esempio parliamo di "burro", un toscano è capace di ridere a crepa pelle sul fatto, ormai stantio, che in spagnolo quella parola significa "asino", perciò se a Barcellona chiedi un "panino al burro" rischi di vederti consegnare il povero animale! Beh, cosa c'è di tanto buffo? Se fosse davvero quel conoscitore che dice di essere, potrebbe osservare che una voce del basso latino simile a "burricus" significa "cavallino o somarello" ed è perciò da lì e non dal burro che nasce sia lo spagnolo che il sardo "su burricu": ciò non farebbe ridere, ma sarebbe più interessante di una vecchia battuta ormai consunta! E, a proposito del burro, quando lo stesso toscano dice a noi che siamo ostrogoti, poiché lo pronunciamo "butìr" (e riecco la vecchia polemica!), potremmo osservare che dal greco "butyron" si è formato il latino "butyrum", esportato poi in Francia (prima "burre" e poi "buerre") ed evidentemente reimportato dai toscani come "burro", mentre noi bolognesi abbiamo continuato a chiamarlo come i latini! Chi è dunque l'ostrogoto?
Così come la nostra "camisa" (camicia) sembra una storpiatura dialettale del tosco italiano, ma non è così, in quanto ripete esattamente il tardo latino camisa: dunque chi è che storpia?
Tuttavia non siamo soltanto noi altri settentrionali a risentirci per essere chiamati "ostrogoti" dai toscani, ma anche i meridionali i quali vengono chiamato "arabi". Essi dicono "carricare" per "caricare" e i toscani giù a ridere, ma "carricare" era il latino che nasceva da "carro" ed è quindi più aderente alla nostra antica lingua.
Allora, è vero che noi abbiamo avuto le invasione barbariche dal nord e i meridionali quelle arabe, ma, a quanto pare, i soli italiani che parlano un dialetto lontano dal latino sono proprio i toscani! Forse parlano etrusco!
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Paolo Canè

GIANGUEL E IERGOEGEN

Ho trovato qualche appunto preso tempo fa e vorrei trattare brevemente un argomento che, anche se l'ho già fatto in passato, è meritevole di altre osservazioni: si tratta dei cosiddetti gerghi furbeschi.
Il "giànguel" è un gergo ormai quasi scomparso e del quale restano solo poche parole che la gente talvolta dice, ma forse non sa che esse fanno parte di un idioma ben più articolato e molto usato in passato, quando entro certi ambienti circoscritti c'era la necessità, o meglio, la volontà di non farsi capire da chi di quell'ambiente non faceva parte. Ho trovato notizie in merito grazie al solito Menarini, il quale, negli anni quaranta, pubblicò i suoi "Gerghi bolognesi", libro ahimé esaurito che non ho mai avuto il piacere di consultare per intero. Le parole che restano sono del tipo "fanghi" (scarpe), "tap" (abito), "stufilàusi" (tagliatelle), "strézzi" (sigarette) e poche altre, mentre paiono ormai in disuso altre come "strìs" (pane), "batintén" (orologio), "quài" (portafoglio), "sc'fón" (calzini), "giàz" (fiammiferi), "lisa" (mantello) e tante ancora, usate dal popolino, oltre a quelle usate, ad esempio, dai muratori: la "manèra" (donna), "ch'la s'istànzia pr'i là" (che passa da quella parte) "scarpén-na pr'i tu visi" (va' per i fatti tuoi),ecc., parole e frasi che ho udito da mio padre e da pochi altri ormai anziani, che però essi stessi da anni non utilizzano più.
Lo "iergoegén", pure ricordato dal Menarini, è ciò che lui stesso definisce un "gergo meccanico", di quelli cioè che non si basano su termini speciali, ma utilizzano quelli normali del bolognese (o del "giànguel"), intervenendo su di essi con una… operazione meccanica di divisione e di aggiunte fonetiche! Il parlante deve mentalmente dividere a metà la parola (ad es.: "gergo" diventa "ge-rgo"), poi deve pronunciare prima la seconda metà e dopo la prima (ed es: "rgo - ge"), infine deve aggiungere un prefisso ed un suffisso fonetici, come suggerisce l'orecchio, senza dimenticare l'importantissima "e" eufonica di congiunzione ( es.: ie- e -n) ed ecco che, magicamente, la parola "gergo" diventa…"iergoegén"!
Sembra una cosa da pazzi (e forse lo è!), ma un certo allenamento ed un certo orecchio, portano a parlarlo correntemente e ad intendersi perfettamente, tra lo sconcerto di chi non lo capisce!
Non voglio ora trattare a fondo la materia, anche perché già lo ha fatto chi è ben più competente, tuttavia ho voluto ricordarla, prima che ne sparisca anche l'ultima traccia, poiché in tutta la mia vita ho inteso parlare questo…"iergoegén" da mio padre (che l'imparò da ragazzo quando era garzone alla “Invulnerabile”, allora famosa fabbrica di serrande),da mia zia Gilda e dal fabbro di via Saviolo a San Lazzaro, Walter Berselli, ciò che è stata una vera sorpresa! Altri non ne ho uditi mai.
Voglio anche aggiungere che del cosiddetto "furbesco", oltre questi gerghi, fanno parte anche centinaia di espressioni che io stesso ho citato spesso e di cui sono pieni tutti i libri che trattano il nostro dialetto: una per tutte (che mi è balenata in mente ora) è "s'cataràggna in piaza?" che significa "ci troveremo in centro", ma che gioca sulla parola "catères" (trovarsi) e "scatarèr" (tossire e anche sputare), ciò che si dice appunto quando qualcuno tossisce in modo convulso. Una volta ridevano così!
Torno allo "iergoegén" per ricordare i tanti discorsi tra mio padre e me, ogni volta che non volevamo farci capire dagli altri, certi del fatto che sarebbe stato difficilissimo trovare persone in grado di capirci!
Mio padre mi parlava in modo spedito ed io, pur capendo ogni parola, stentavo parecchio a rispondere e non sempre lo facevo bene, poiché lui stesso non riusciva a capirmi e mi correggeva!

Gli dicevo: "iaemén a iàrrec'cón ióchepón al iergoegén,
mó a iapéssecàn ièsiequén iottetón"
che significa: "mé a c'càrr póch al gérgo, mó a capéss quèsi tótt"
cioè: "io parlo poco il gergo, ma capisco quasi tutto"


e, come mi aveva insegnato lui, quando qualcuno mi diceva di parlare in modo più chiaro e possibilmente in italiano, io traducevo così:
"iaemino a iorrec'cone iochepone il iergoegino,
iaemone a iapissecano iasiequone iuttetone!"


E ridevamo divertiti, ma per gli altri non era cambiato nulla!
Non so che importanza possano avere queste cose nel campo della scienza, delle lingue, della cultura, ma so di certo che queste erano cose veramente, unicamente ed inequivocabilmente NOSTRE, che le abbiamo praticamente ormai perdute, come tra poche generazioni perderemo il dialetto stesso e così avremo più tempo per le altre cose che saranno più importanti nel campo della scienza, delle lingue e della cultura, ma che certamente non saranno più NOSTRE!
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Paolo Canè

LINGUE VIVE E LINGUE MORTE

Credo che la "lotta" tra progressisti e conservatori in fatto di lingue non avrà mai fine come quella tra le analoghe fazioni del Parlamento!
E' un discorso ormai vecchio, ma ogni tanto viene a galla questa nota divergenza, per cui il conservatore cerca di salvare la lingua, in un certo senso, mummificandola, mentre il progressista pare trovi un gusto sadico nell'inserire parole nuove, parole straniere, anche quando si tratta di veri e propri "mostri" e anche quando esse sono assolutamente superflue.
Due opposte posizioni, entrambe sbagliate!
Le lingue (e naturalmente anche i dialetti) si potrebbero dividere in due grandi categorie: quelle vive e quelle morte! Quelle morte, come il latino, tanto per fare un esempio, possono (e forse debbono) essere anche mummificate, in quanto non sono più usate e non possono (e non debbono) perciò progredire, mentre quelle vive, come il nostro italiano ed il nostro bolognese, finché sono usate, sono suscettibili di modificazioni, come lo sono sempre tutti gli idiomi ancora in uso. Sarebbe stupido ed inutile cercare nuovi termini per l'informatica in latino, come altrettanto stupido ed inutile sarebbe cercare d'impedire arrivi (ma anche partenze!) di nuovi termini, sia che essi siano stranieri o italianizzati o neologismi costruiti su basi greco-latine: il progresso non si può fermare. Tuttavia sarebbe altrettanto stupido ed inutile chiamare “pundghén” il “mouse”: chi può voler usare questa parola quando è al computer?!
Occorrerebbe perciò che i conservatori fossero un po' più possibilisti ed i progressisti non avessero così tanta fretta di rinnovare o di inserire ciò che è inutile! Ma so bene che le mie sono parole al vento!
Piuttosto ho notato un fatto curioso: i meno istruiti sono i maggiori innovatori delle lingue e dei dialetti, forse perché non conoscendo i termini già esistenti, ne inventano o ne introducono dei nuovi, mentre gli intellettuali si limitano unicamente a denunciare gli orrori, ma si guardano bene dal creare o almeno dal vigilare se non altro in quanto a buon senso e a buon gusto. E per "meno istruiti" non intendo solamente quelle persone che non hanno avuto la fortuna di andare a scuola, ma anche e soprattutto giornalisti (della carta e della TV), conduttori televisivi, politici e personaggi pubblici i quali non dovrebbero essere ignoranti e in vece lo sono, se non altro perché creano (e spesso male!) ciò che non sanno che è già esistente! Gente che ci prova gusto ad inventare, credendo forse di apparire così più alla moda!
E, come già detto, si arriva a lamentare un'istituzione che manca o, se c'è, che non funziona come dovrebbe. Un'istituzione che stabilisca le regole di grammatica, i vocaboli e la pronuncia della nostra lingua e di tutti i nostri dialetti e che sia lei stessa a decidere quali termini siano da accettare e quali siano da eliminare oppure (come nel caso dei dialetti) come essi si debbano scrivere e pronunciare, accettandone le inevitabili variazioni, almeno finché tutti questi idiomi vivranno. Anche giornali e TV dovrebbero vigilare di più, per evitare gli strafalcioni dei loro dipendenti.Poi, stabilito ciò, chi vorrà, potrà anche continuare a creare "parolacce", a parlare (male) l’inglese, a scrivere e pronunciare il dialetto in modo scorretto, ma almeno noi avremo il diritto di chiamarli ufficialmente ignoranti!
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Paolo Canè

mercoledì 13 giugno 2007

IL DIALETTO CHE SE NE VA

La lingua italiana, che è strumento artificiale costruito sull'ossatura del dialetto toscano e che nel tempo ha avuto innumerevoli apporti da altri dialetti, da parte di altrettanti scrittori, è un idioma nato principalmente come lingua scritta circa 8 secoli fa e la tradizione ne individua, giustamente, il padre in Dante Alighieri. Una lingua dotta che ha sostituito il latino medievale di quel tempo, usata da scrittori e poeti, voluta come necessità di fare comunicare tra loro le genti italiche le quali parlavano decine di dialetti, dopo che il latino (proprio come il dialetto oggi!) stava scomparendo e sopravviveva, corrotto e diverso da quello classico, solo in ristretti ambienti intellettuali. C'era bisogno di una lingua nuova, non così complicata (ancorché perfetta!) come il latino e più simile ai dialetti parlati, perché si potessero intendere tra loro, ad esempio, i mercanti per le loro transazioni o i notai per mettere d'accordo i loro clienti nelle loro diatribe. Dante, insieme ad altri grandi scrittori e poeti contemporanei ed in buona parte conterranei, ne fissò le regole in modo che un’Italia, ancora ben lungi dall'essere unita, avesse quanto meno una lingua ufficiale, com’era già successo in quasi tutte le altre nazioni europee. Una lingua scritta, all’inizio, solo da pochi, poiché il popolo continuava a parlare il dialetto: se non poteva parlare latino, poiché in gran parte ignorante, per lo stesso motivo non poteva parlare italiano. Suppongo che l’italiano abbia cominciato, lentamente, ad affiancarsi ai vari dialetti in un lavoro che è durato secoli e che…sta ancora durando!

Il popolo analfabeta imparava il dialetto ad orecchio e pertanto non sapeva scriverlo, anche perché non aveva bisogno di scriverlo. Alcuni documenti attestano che altri, prima di Dante, hanno tentato di scriverlo, ma si trattava di casi sporadici, di autori non certo all'altezza dei grandi del due e trecento e di lingue volgari, le quali restavano comprensibili in un'area ben più ristretta rispetto a quell'Italia, ancora da venire, che si estendeva per tutto lo Stivale e che parlava dialetti diversi, ma pur sempre figli del latino. Dante stabilì che quello doveva essere l'italiano e mi piacerebbe sapere se egli stesso si sia reso conto di aver "inventato" una lingua che sarebbe durata per sempre! Com’è noto, altre Scuole precedettero quella toscana (quella siciliana e quella bolognese, le quali, per poco, non ebbero il sopravvento) a dimostrazione che una "lingua italica" non era soltanto un gioco, un’utopia o un esercizio intellettuale, ma una necessità sentita dalle Alpi al Mediterraneo. Il popolo dunque continuava col suo dialetto (e in qualche misura anche il popolo attuale, continua così dopo otto secoli!) e forse buona parte di esso, pur essendo contemporaneo di Dante, nemmeno conosceva né lui, né gli altri grandi del tempo. Sarebbe sciocco pensare che, dopo Dante, tutti gli italici improvvisamente si siano messi a parlare italiano! Ci sono voluti secoli, non solo, ma presumo che anche la nuova lingua sia stata appresa, poco e male, ad orecchio e perciò veniva parlata, ma non scritta da quella gente che in maggioranza era e restava analfabeta!

Le scuole aperte a tutti sarebbero arrivate molto più tardi. Così piemontesi e veneti, romani e napoletani, siciliani e sardi avrebbero continuato per secoli a parlare i loro diversissimi dialetti, anche se diversi lo erano soprattutto per ragioni fonetiche e meno per morfologia e sintassi.Anche i toscani continuarono a parlare quel dialetto (oggi chiamato, chissà perché, "vernacolo"!), il quale non doveva essere molto diverso da quello di oggi e dal quale, anno dopo anno, la nuova lingua italiana prendeva sempre più le distanze, fino a passare da una presunta identificazione, ad una semplice somiglianza. E' sbagliatissimo pensare ciò che troppi ancora oggi dicono con convinzione e cioè che il toscano sia la vera lingua italiana. Ancora più sbagliato è credere, come spesso si sente dire, che l'italiano più puro si parli a Siena! I toscani, ieri come oggi, parlano il dialetto toscano e…sarebbe bene che qualcuno li convincesse di ciò, visto che essi sono i soli italiani a non fare nessuno sforzo per parlare in lingua (come invece fanno gli altri 50 e passa milioni), poiché parlano lo stesso e identico idioma con tutti: in famiglia, sul lavoro, con gli altri italiani e perfino con gli stranieri! E il grande Manzoni (che in altra sede ho chiamato irrispettosamente "il lavandaio"!), secondo il mio modestissimo parere, anziché prendere a modello il toscano, poteva scegliere tra i grandi che lo avevano preceduto (Leopardi, Foscolo, ecc.) e, perché no, poteva prendere lo spunto dallo stesso italiano che si parlava in Lombardia, come si presume che parlassero Renzo e Lucia, quando non parlavano dialetto! In ogni caso anche "Don Alessandro" ha dato il suo importante contributo al consolidamento della nostra lingua: quella che oggi viene parlata in televisione (anche se non sempre!) e dagli attori di teatro, ma non certo quella parlata in riva all'Arno! Oggi l’italiano è una realtà sempre in movimento, come ogni cosa del resto, ma è una lingua ben definita le cui regole sono abbastanza precise, anche se non esatte come quelle del latino classico.

Una lingua che accoglie continuamente neologismi e parole d’origine straniera (come forse è sempre stato), ma le cui regole grammaticali e anche fonetiche, sempre che subiscano cambiamenti, li subiscono in tempi molto più lunghi. L’annosa diatriba tra linguisti (conservatori e progressisti, proprio come in politica!) continua e non avrà mai fine: per quel che può contare, il mio parere è che non è né possibile, né giusto imbalsamare la nostra lingua, ma nemmeno dobbiamo avere troppa fretta di cambiarla e di renderla simile…all’inglese! Occorre fare le cose con calma e con giudizio: ciò che ho letto di recente sulla ventilata introduzione della "k" nelle parole "che" e "chi" (gli orribili "ke" e "ki") solo perché i giovani "cellularedipendenti" così scrivono per praticità nei loro "messaggini", mi sembra un'enorme corbelleria! Tuttavia, visto le tante stupidaggini ed oscenità di successo, non mi stupirei che un giorno la Crusca accettasse questa proposta, la quale peraltro sarebbe un ritorno e non una completa novità ("sao ko kelle terre…"). Un’altra cosa che non ho mai capito è perché gli attori di teatro, gli annunciatori ed i messaggi pubblicitari dicano "zio" e "zucchero" usando la "z" aspra (cioè quella di "spazio") e non quella dolce (quella di "zappa") e mi risulta che in nessuna regione d'Italia, nemmeno in Toscana, si dica così! Misteri!

Questo è l'italiano: la lingua che ci ha permesso di capirci tra noi, di cementare la nostra Unità Nazionale ed il cui apprendimento ha fatto passi da gigante dal 1860 in poi, per via della massiccia scolarizzazione prima e dello sviluppo di tutti i mezzi di comunicazione del XX secolo poi: 150 anni che hanno significato per la lingua italiana molto di più degli oltre 6 secoli precedenti! Una lingua che in larghe fasce di popolazione ha preso il posto dei dialetti: sono sempre di più gli italiani che NON parlano e non capiscono più il dialetto, soprattutto perché non ne hanno più bisogno. La mia generazione ha subìto l'ostracismo al dialetto: i nostri genitori erano convinti che non si dovesse parlare dialetto, perché riduttivo, perché volgare e ce lo impedivano, a volte anche con la forza. Erano convinti che il dialetto fosse corruzione dell’italiano e non sapevano, per loro ignoranza, che l’italiano si era venuto a formare molto più tardi del dialetto. E' per ciò che una buona metà di noi non parla e non capisce (o capisce poco) il dialetto: l’altra metà, me compreso, ha dovuto impararlo se mai voleva comunicare coi nonni! I nostri figli non lo parlano mai e pochi lo capiscono. I nostri nipoti non lo parlano e non lo capiscono affatto! Nel giro di mezzo secolo il dialetto, almeno a Bologna e in tutto il Nord ad eccezione del Veneto, si è praticamente estinto. Negli ultimi 30 anni si sono avute molte pubblicazioni intese a rivalutare il dialetto come cultura da non disperdere; si rappresentano commedie dialettali, dove però gli attori, anche i meno giovani, lo parlano abbastanza male! Sono quasi tutti dilettanti, è vero, ma tale dilettantismo sarebbe anche accettabile, quanto a recitazione, ma come bolognesi il dialetto dovrebbero saperlo parlare!Si dice di voler salvare il dialetto, si scrivono trattati, si rappresentano commedie, ma si "dice" solo e non si "fa" nulla per salvarlo!

In questo modo il dialetto viene visto come un animale esotico in gabbia che si va a vedere per curiosità e non per altro. La gente sorride sorpresa a certe espressioni colorite (ciò che per essi è novità, per i parlanti è normalità) e tale sorpresa è indice di non conoscenza, infatti la gente legge, ascolta, sorride, ma NON usa! Il dialetto è considerato, dai miei coetanei e al massimo dai nostri figli, alla stregua di un fenomeno da baraccone (dai nostri nipoti nemmeno quello!) e non come una "cosa" da usare, come lo è per me, per mio padre e per tutti quegli anziani, finché vivranno, per i quali il dialetto è ancora la prima lingua, quella più vera, spontanea e connaturata, mentre è l'italiano, in un certo senso, ad essere ancora estraneo! In un mondo nel quale ormai tutti parlano italiano, nel quale la nuova Europa si sta chiedendo quale lingua adottare, nel quale l'inglese sta sempre più rubando linfa alle altre lingue, è difficile che i dialetti possano sopravvivere, se non come…reperti archeologici,antiche case che vengono restaurate e conservate, ma nelle quali nessuno si sognerebbe più di abitare! E saranno i nostri dialetti settentrionali (gallo-italici) a sparire per primi, poiché più diversi dalla lingua, poi toccherà anche agli altri. D'altronde è naturale che le lingue spariscano: chi parla più osco, etrusco o sannita? Teniamoci dunque il nostro caro bolognese. Amiamolo e curiamolo, come un vecchio parente o un caro vecchio cane che avrà ancora poco da vivere, ma che almeno passi serenamente gli ultimi anni.Anche per i dialetti vale la classica domanda che si fanno gli investigatori: cui prodest? “a chi serve” un dialetto, quando tutti parlano la lingua e tutti sono impegnati ad imparare l'inglese, il francese o il tedesco? E' giusto così, anche se dobbiamo purtroppo registrare che i nostri giovani non sanno il dialetto, ma stanno anche disimparando l’italiano! Ascoltano canzoni americane e non le capiscono, perché non sanno neppure l’inglese, benché lo studino a scuola!
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Paolo Canè