martedì 30 dicembre 2008

LA SGNÀURA CATARÉN-NA AI RAGGI “X”

In un volumetto a parte ho raccolto circa 150 dei circa 400 sonetti che Alfredo Testoni ha composto per la sua “Sgnera Cattareina”, curandone una specie di “traduzione” dal dialetto scritto di 100 anni fa a quello mio di oggi. Non so se abbia fatto o meno un lavoro utile, ma, nel caso, sarà certamente meno inutile della traduzione in bolognese della Divina Commedia e del Vangelo secondo Matteo, poiché qualcuno sarà forse interessato a leggere e capire meglio l’opera di Testoni, ma nessun dantista si sognerebbe mai di leggere quella Divina Commedia tradotta da un noto gioielliere bolognese e nessun cattolico vorrà leggere il Vangelo tradotto dal Conte Pepoli a metà del XIX secolo, senza trovarlo blasfemo. Almeno così la penso io.
L’idea mi è venuta seguendo la mia convinzione, secondo la quale non esiste un dialetto che sia valido per sempre, ma ogni generazione parla (e scrive) il proprio.
Il dialetto parlato cambia, seppure lentamente, soprattutto nei vocaboli: esistono vocaboli che erano usati, ad esempio, dai nostri nonni, che vennero poi usati sempre meno dai nostri genitori e che noi ormai non usiamo più. E anche ai tempi dei nostri nonni, già non esistevano più certi vocaboli usati dai loro genitori e dai loro nonni!
Ma, se leggiamo le opere della letteratura italiana, vediamo che qualcosa di simile è accaduto (e sta accadendo) anche nella lingua, perciò non c’è nulla di cui meravigliarsi, tutt’al più può meravigliare che, se nella lingua nessuno si sogna di andare a ripescare vocaboli obsoleti (poffarbacco, ahi, lasso ecc.) nel dialetto c’è che si diverte a farlo! In ogni caso, il dialetto di Testoni (ad onta dell’imprecisa grafia), quanto a fonetica, è cambiato ben poco rispetto a quello di oggi, mentre è cambiato molto di più quanto a vocaboli.
Per quel che riguarda il dialetto scritto, che, come è noto, non ha le regole precise che ha invece l’italiano, ogni autore si è sempre arrangiato alla meglio, ma ha sempre tenuto conto di ciò che avevano fatto gli autori precedenti. La grafia è cambiata molto lentamente negli ultimi secoli, ma nel Novecento si è verificato un profondo cambiamento, grazie agli studi di Alberto Menarini, il quale ne ha messo a punto una che è la più semplice e insieme la più perfetta, poiché, avvalendosi delle regole dell’italiano, tende a riprodurre i suoni del dialetto esattamente come noi li pronunciamo, senza ricorrere ad accenti strani, invenzioni fantasiose o a false convenzioni, secondo le quali il dialetto si dovrebbe scrivere in un modo e… pronunciare in un altro! Il problema è che per alcuni Menarini non è mai esistito!
Fatte queste necessarie premesse, passiamo ora all’argomento di questo capitolo.
Dai circa 150 sonetti “tradotti” ho estrapolato altrettante parole o locuzioni della versione originale, allo scopo di esaminarle qui di seguito, benché per la maggior parte di esse abbia già scritto a lato un commento chiarificatore. Molti di questi termini sono già stati da me ricordati nelle “Voci caratteristiche bolognesi” (1993), ma qui tratterò solamente di quelli usati da Testoni (e Stecchetti)in questi 150 sonetti.
Consonanti doppie: sono moltissime in italiano e molte meno nel nostro dialetto che, come tutti quelli settentrionali, ne è molto avaro. Tuttavia Testoni ne usa molte, forse per influenza della lingua o forse perché a quei tempi si credeva che il dialetto fosse una…corruzione dell’italiano o del toscano! Perciò le parole come “sguillèr, ottomóbil, quattrén” ecc. io le scrivo tassativamente “sguilèr, otomóbil e quatrén” poiché è esattamente così che vengono (e che venivano) pronunciate qui a Bologna!
Gruppo –sc: anche se la nostra “s” è molto pesante, il suono –sc non esiste, perciò le parole “scéna, scémmia, scióper” ecc. io le scrivo “séna, sémmia, sióper” ecc.
Gruppo –cq: altro suono che non esiste, perciò scrivo “àqua e aquedótt” (scritte e pronunciate come in latino!), al posto degli improbabili “àcqua e acquedótt”.
Vocali “à” e “ò”: molti bolognesi, ancora oggi, dicono “bòn” per buono, “sòn” per la voce del verbo essere “sono” (e anche per “suono”), “tròn” per “tuono” e così è per mille altre parole, ma molti altri bolognesi, specialmente di città” dicono “bàn”, “sàn” e “tràn”. Ebbene, non essendoci una regola fissa ed essendo io uno di questi ultimi, così scriverò sempre, poiché è esattamente così che io pronuncio!
Accenti e apostrofi: argomenti di cui ho già parlato altrove fino alla noia! Qui mi limiterò a dire che, rispetto a Menarini, io ne faccio maggior uso, all’unico scopo di rendere più facile la lettura a prima vista.
Passo ora ad esaminare i vocaboli e le locuzioni, dividendole prima in gruppi.
Mutazioni rilevanti: le mutazioni vere e proprie in un secolo sono state rarissime, anzi ho trovato solo queste due: “chèsa” (casa), che però conviveva con l’attuale “cà”, e la prima persona del passato remoto di alcuni verbi, come “andó” e “purtó”, che pure convivevano con gli attuali “andé” e “purté”. Sono convinto che queste forme, già antiquate allora, Testoni le abbia sporadicamente usate per motivi di rima.
Vocaboli ed espressioni scomparsi o in via di sparizione: vediamone alcuni.
- “ a téns andèr” oppure “a t’gné andèr” (tenni andare) col significato di ”ho dovuto andare”, ciò che oggi si rende con “ai ò d’vó”, “am é tuchè”, ecc.
- “al vóls” (egli volle) che ho sentito pronunciare anche “al vùs”, come anche al “tóls”- “al tùs”(egli prese), oggi sostituiti universalmente con “v’lé” e “tulé”.
- “armàur” (rumore) oggi in disuso, sostituito dai vari “gatèra”,”casén” e altre parole, tra le quali il brutto “rumàur”, per influenza dell’italiano.
- “arvindrìs” (rivenditrice) sostituita da varie parole, ma anche se qualcuno la volesse usare, difficilmente sarebbe capito dall’interlocutore!
- “avintàur” (cliente) e qui è ancora peggio, poiché tutti capirebbero“avventore”! Oggi è “cliànt” o “cliànta”.
- “cmèr” (ostetrica), che oggi sarebbe inteso unicamente come “comare”, era il modo antico per definire la “levatrìz” (ostetrica).
- “ una ragàza cùmm và” (come si deve), oggi diciamo “una ragàza in gàmba”, “una brèva ragàza”, ecc.
- “di subiù!” è un’esclamazione usata da Testoni e da Stecchetti. Il “subiól” è un fischietto e forse non c’entra nulla, comunque è espressione ormai disusata.
- “duzén-na” (pensione) che si diceva anche in italiano “essere a dozzina”, ma oggi si usa esclusivamente “a pensiàn”.
- “fèr la sémmia” (scimmiottare, imitare): ho sempre sentito dire “simiutèr”.
- “furànt-infurintè” (innamorato, appassionato) espressione che è stata sostituita da tante altre più o meno ironiche.
- “gagliót” (galeotto, birichino), nonostante le galere siano rimaste, quest’epiteto è caduto in disuso.
- “gnént-ignént” (niente) oggi tutti dicono unicamente “gnìnta”, ma credo che, se non espressione antica, fosse una variazioni ai fini della rima.
- “léspa” (svelta) parola usata da Stecchetti che però non risulta in nessun dizionario. Io ho “tradotto “ con “vésspa” (vispa) che è forse la stessa cosa.
- “m’nén-na” (gattina) oggi non si dice più e pochi sanno cosa significhi.
- “mólt” (molto) rarissimo per il più usato “dimóndi”, che però io ho fatto in tempo ad udire da qualche anziano. Curioso sarebbe sapere da dove arriva davvero questo strano “dimóndi”, anche se qualche supposizione è stata fatta!
- “par ràbia ed fàm” (per forza) locuzione che io non ho mai udito.
- “pinén/pinén-na” (bambino-a) termini usati da qualche anziano, ma non più da quelli della mia generazione.
- “póst ché…” (dato che…) oggi si usa “dato ché” o “sicómm ché”.
- purassè o purasè (assai, abbastanza) un avverbio che doveva esistere anche in italiano, ma che tuttavia lo Zingarelli non cita. Assolutamente in disuso.
- salè (zitella) come salèr (forse: vegliare) sono termini ormai incomprensibili.
Il significato di oggi è unicamente “salare” come in italiano.
- scufiarén-na, termine antico per l’attuale “mudéssta” (modista-cappellaia).
- sgabanè, termine arcaico che significa (forse) “sgobbata”, “gran lavorata” oppure…il contrario: “fèr gabanèla”, riposarsi, gozzovigliare. Incerto.
- spiulè (piallata, donna non prosperosa)altro termine che oggi suona misterioso!
- spurchézzi, idem come sopra, riferito alle false amiche della Gaetana, forse col significato di “sporcaccione”, “pettegole”, ”infide”.
- s’pziarì, termine abbandonato da quasi tutti a favore del moderno “farmazì”.
- striflèr (schiacciare di folla) è un bel termine, ormai purtroppo in disuso, che rende perfettamente il disagio di venire schiacciati e quasi travolti dalla folla.
- tacuvén (portamonete) termine da cui deriva il più recente “catuén”, pure esso ormai poco usato. È la stessa etimologia dell’italiano “taccuino”.
- tirasó (persona che prende in giro) come tirèr só (prendere in giro), lo diceva mia nonna, ma già mio padre non lo usa più.
- Fiù de càn come anche ràza de càn (figlio o razza di cani) sono offese non così tipiche del dialetto bolognese, quanto dei dialetti veneti. Interessante è l’uso di “de” al posto di “ed”, probabilmente per motivi eufonici, una caratteristica che sopravvive nell’altra, peraltro vivissima, offesa “tèsta de càz”!

Parole italiane inserite nel dialetto, ve ne sono diverse e qui ne troviamo tre.:
- “giretto” per significare, forse, una “donnina leggera”, ma è da verificare
- “papetta” (usata da Stecchetti) che dovrebbe significare “risorsa“, da verificare
- “per la quale” (come si deve) che è la sola espressione ancora sporadicamente in uso. “Non sono mica tanto per la quale” si dice speso in tono minaccioso.

Termini in avanzata obsolescenza, che però vengono ancora usati spesso in senso ironico e scherzoso. Chi li usa in modo “serio” rischia di essere stucchevole, perciò è molto meglio usare termini più recenti e consoni alla nostra generazione!
- braghìra (ficcanaso, pettegola) oggi “fecanès”
- carampèna (di salute malferma) oggi “càr ràtt”
- ciupàtta (molti, parecchi) oggi “dimóndi”
- an cràdder gnànch al pancót (non credere in nulla)
- faquaióni (sornione) oggi “saràf”
- farabulàn (contafrottole) oggi “busèder”, “balésta”, “giazaról” ecc.
- imbarluchèr (raggirare) oggi “imbruièr”
- incucalé (inscemito) oggi “insmé”
- mustàz (viso) oggi “fàza”, “ghéggna”.
- niculót (bellimbusto) oggi “cartulén-na”, “fàt sugèt”, ecc.
- quàll ch’pèga l’óli (chi paga l’olio) oggi “ padràn”, “padrunàz”, “padlàn” ecc.
- san Luig’ spigazè (persona macilenta come il santino di Luigi Gonzaga).
- scarpazèr (ciabattare) oggi “zavatlèr”.
- simitón (complimenti) oggi “cumplimént”
- sprucaién (bella ragazza, bambina) oggi “bèla ragazóla”…se non di peggio!
- srisén (sorriso), assolutamente stucchevole, oggi “surisén”.
- stièvo! (basta!) oggi “bóna lé”. Probabilmente la parola significava “ciao”, nel senso di “adìo fìgh!”, del resto anche “ciao” deriva da “schiavo (vostro)”.
- tusàtt (tosetto, ragazzino) assolutamente fuori moda. Meglio “cìnno”.
- zanfanèl (ironicamente: cervello) idem come sopra. Oggi “zarvèl”, “zócca”.

L’ultima categoria è quella dei termini ancora usati, ma strani agli orecchi dei giovani bolognesi, poiché lontani dalla lingua italiana a cui sono abituati. Qua e là metto tra parentesi il termine in italo-bolognese, quel nostro particolare gergo usato per necessità dai meno acculturati e per gioco dagli altri.
- (a)catèr (trovare) ormai per tutti “truvèr” (al Sud “accattare” = comprare).
- a se sguàza (si gode)
- a spàs (disoccupato) oggi “disocupè”
- (cumprè) a ùs (acquistato usato) oggi “usè”
- agàccia-agucén (ago-spillo) dall’antico italiano “agocchia”, ma lo spillo è ormai per tutti “spilén”
- am n’ò par mèl (me ne ho a male)
- amìga (amica), ma è anche il termine che designa “l’amante”
- arabé (in collera) anche se letteralmente è “arrabbiato”
- arpiatèr che, insieme ad ardupièr, significa “nascondere” (alcuni usano anche il bruttissimo “nascànder”). Etimologicamente “rendersi piatto, abbassarsi”
- bacèl-bacì (bacello-bacelli) è una cosa fatta male
- banchè (bancata) è un sacco di botte e deriva dal fatto che le punizioni di una volta si comminavano con il reo steso su un banco
- biràn (birone) è il tappo o coperchio della botte ed anche dei W.C. primitivi.
- blàch (straccio, cencio) che è parola di origine longobarda (blahha)
- bravèr (sgridare) con il significato che aveva l’antico italiano “bravare”
- (fèr un) brótt vàdder, uno spettacolo spiacevole (un brutto vedere)
- bufìsia (comicità, buffoneria):il suffisso –ìsia è simile all’italiano –eria oppure
–ezza, così come per stufìsia (stanchezza), gricìsia (avarizia), ecc.
- buiarì (boiata), ma riferito a misfatti o volgarità. Per “boiata” esiste anche “buièta” riferito o ad un brutto spettacolo o all’esclamazione “Che peccato!”.
- bùs d’la ciavadùra è l’unico modo per definire la “toppa” della serratura.
- buvinèl (buvinello) che è l’imbuto e, di recente, anche “persona fortunata”
- che stràza ed…(che razza di) soprattutto in senso di meraviglia.
- c’pichèr (staccare) da “dispiccare”, poi “dspichèr” e infine “c’pichèr”
- culàt sono le natiche, ma esiste anche il volgare ”stiàp” (chiappe)!
- Cumpàgn(a) è termine un po’ antiquato, ma molto petroniano di dire “come”
- da fèrsen? (da farsene?) significa “cosa te ne fai, cosa me ne faccio di questo?”
- da par mé e da par té, significa (io o tu) “da solo” (lo faccio da per mè!)
- (ón) da quatrén è una persona ricca
- dabàn significa “davvero” (bàn mó dabàn?)
- d’arpiàt (vedi arpiatèr) significa “di nascosto”
- dèr (a) mànt, vuol dire “dare retta”
- dì só o dì bàn só (di ben su) vale un “ascolta!” oppure “ehi, tu!”
- diavléri (diavolerio) è “confusione”, “rumore”, “gazzarra”, “pers. indiavolata”
- dùr (duro) significa “completamente” nei casi di “imbariègh”, “màt”, ecc.
- ed scapè (di scappata) cioè “in tutta fretta” (una volta anche ed fràzza)
- ed tótti el fàta, di ogni specie, di tutti i colori.
- èrca ed siànza (arca di scienza) ironico per persona colta (o che si crede tale)
- fèr dal féss, fare confusione, fare tante chiacchiere
- fóra vì, di fuori. Ón ed fóra vì è un “forestiero”
- fótta (collera), ma anche “schiribizzo”: s’am vén la fótta…
- gàta, molta confusione, molto rumore, presumibilmente parente di gatèra.
- g’nèr (desinare) è il pranzo: desinare, dsnèr e poi g’nèr
- gróggn (grugno) muso, boccaccia detto anche di chi tiene il “broncio”
- in drétt (in dritto) oggi in buona misura sostituito da “ed frànt”, “in fàza”
- in me cócchen (non mi cuccano) non mi fregano, non ci casco
- intaièrsen (intagliarsi) rendersi conto, mangiare la foglia
- lulé (lui lì) “egli”, ma in senso poco gentile
- macàgg’ (maccheggio) cioè “marchingegno”, ma anche “sotterfugio”
- maridè significa maritata, sposata, ma…si dice anche di un uomo!
- móii ed sudàur (madido) e móii spàult (molto bagnato)
- nézz (nizzo) è il “livido”
- nóv nuvànt o nóva nuvànta, significa “nuovo o nuova di zecca”
- óc’ pulén (occhio pollino) è una specie di callo ai piedi
- otomóbil (automobile) ma ormai tutti usano “màchina”
- parpàia (parpaglia) è la farfalla (farfàla), ma più ancora la falena
- p’gnatén, parola usato da Stecchetti in “fèr i p’gnatén par i ambrùs” un’usanza (a me ignota) che oggi è scomparsa.
- pulìd significa “bene” (fèr pulìd= fare bene), una volta scritto anche “pulìt”.
- pulismàn (pulismano) tradizionalmente “vigile”. Oggi c’è il brutto “véggil”.
- quèl, significa “qualcosa”, dal basso latino “covelle”, da cui “cuvlén”.
- rèna (rana) vuol dire “miseria” forse per… il color verde!
- sandràn (sandrone) persona goffa e corpulenta (dalla maschera modenese?)
- sbatrì ‘d màn è il batti mani, l’applauso
- sbózz (sbuzzo) è il “talento” nel fare qualcosa, l‘estro
- sburzighlén è “pizzicore”, “brivido”
- scambiàtt (scambietto) “movimento veloce”, ma anche “trucco”
- sèghma (sagoma) è detto di persona buffa
- sfìlza e sfilarè è una lunga fila di persone, di cose o di parole
- sgablànt (sgabellante) è il testimone di nozze, connesso con lo sgabello.
- sgavagnères (sgavagnarsi) arrangiarsi, sbrogliare la matassa
- sguilèr (sguillare) “scivolare”
- sinfunì come manfrén-na, da una composizione classica e da un ballo popolare indicano la “tiritera”, la solita musica (noiosa)
- smataflàn (smataflone) è il “ceffone”
- smórt, “pallido”, ma esiste anche in italiano (smorto) con lo stesso significato
- sòia bàn mé! (so ben io!) vale “cosa vuoi che ne sappia?”
- (mègher) st’lè come anche (gràs) técc’ sono due aggettivi (uno triste e l’altro allegro!) per definire persone eccessivamente magre o grasse.
- strichèr (striccare) è voce canonica per “stringere”, ma c’è chi dice strénzer.
- strulghèr (strolgare) “ideare”, “inventarsi” da strólga = strega, astrologa
- stupèr (stopare) significa “occludere”, “turare”
- svèri (svario) significa “differenza”, ma è usato anche difarànza.
- sverzùra, dal rinverdire delle piante, indica “eccitazione”, “ansiosa attesa”
- tamóggn (tamuggno) significa “forte, duro, sostanzioso, difficile, ecc.”
- tarzanèl è il “terzo vino” cioè quello più leggero e meno pregiato
- t’gnìr d’acàt, significa “conservare”, “non perdere”
- tirèr ( i sóld), in questo caso “tirare” significa “incassare”
- tubèna (tubana) baccano, forse riferito al tubare dei piccioni.
- ucarót (ocarotto) persona poco sveglia (vedere qui sotto le finali in –ót)
- vanzèr è ormai il solo verbo per “rimanere” una volta tramontato “armagnèr”
- zuchè (zucata) è la “fregatura” anche matrimoniale: l’à ciapè una fàta zuchè!
- zuntèr (giuntare) è “aggiungere” anche se si sente il “mostro” azónzer!infine le varie finali in “ót”, tipicamente bolognesi, che indicano una breve azione per diverse cose: stricót (stretta), prilót (girata), pistót (pestone), tirót (tiratina), sgranfgnót (graffio), p’zigót (pizzico), tramlót (fremito), ma anche altri come saguaiót (risciacquatina), buiiót (bollita), ecc. tutte parole che vengono spesso dette anche in italo-bolognese (stricotto, pestotto, ecc.) e che hanno il relativo diminutivo (p’zigutén, buiiutén, sgranfgnutén, ecc.).
-
Paolo Canè

L’AMÌGH (n. 231)

Un rapresentànt al turné a cà à l'impruvìs e al truvé só muiér a lèt con un èter. Invézi d'incazères al taché a zighèr:
"Dàpp a tant'àn ed matrimóni, dàpp che ai ò lavurè par té, dàpp ch'ai ò sàmper esaudé i tù desidéri, guèrda lé con ché brótt vèc' t'i andè a lèt!"

La dóna l'aprufité ed ch'al mumànt ed deblàzza par pasèr à l'atàch:
"O insàmma, finéssla! Cràddet che col tó stipàndi nuètr'à p'rénn sustgnìr la vétta ch'a fàn? Chi à paghé el ràt dal mùtuo?"
"Té col tó lavurìr, t'am è détt…"
"Mó ché, luqué ai à paghè! E chi ha paghé la lavatrìz e la mi màchina?"
"Sàmper té col tó lavurìr…."
"Nà, l'é sàmper stè luqué!" e la sgnéva l'umarén che l'éra vanzè fàirum int al lèt tótt nùd.

Alàura al maré al le guèrda e al dìs a só muiér: "Di' só, Marìsa, crùvel bàn ch'an ciàpa fràdd!"

VIÀZ À NUIÒRK (n. 230)

Un maicàtt al dezìd ed fèr un viàz in America e al dìs con un só amìgh:
"Però ai ò un probléma: an so b'sa c'càrrer l'inglàis!"
"Bàn mó ch'sa dìt? Mi fradèl ai é stè l'àn pasè e l'à détt che in America i àn una làngua cumpàgn al bulgnàis, bàsta però c'càrrer adèsi".

Tótt cuntànt par la nutézzia, al maicàtt al partéss e l'arìva à l'areopórt ed Nuiòrk. Al ciàma un tàxi e al dìs:
"M-è à v-ré-vv and-èr à Br-òd-vài". E al taxésta: "S-ób-bit, ch'- al vé-ggn-a pùr-só" e vì ch'i vàn.

Par strè i tàchen a c'càrrer d'un mócc' ed qui, d'un albérgh, d'un ristorànt, d'ì negózi, infén che al maicàtt al dìs:
"Sél? Mé a v-én da-l'Am-zu-lè-ra!" e al taxésta: "Cum-bi-na-ziàn, mé à s-àn ed Sàn-Là-zer".
Alaùra al sèlta só dezìs al maicàtt: "Bàn mó alàura, s'à sàn tótt dù ed Bulàggna, smitàggn-la bàn ed c'càrrer l'inglàis!

AL SALVATÀG’ (n. 229)

"Él ló ch'l'à salvè al mi fangén?"
"Sé".
"Él própi ló ch'as è cazè int al fiómm e al l'à purtè só?"
"Sé, a sàn mé".
"Alàura, pósia savàir dùvv'l'é andè a finìr al só caplén?"

AL CURAGIÀUS (n. 228)

Ai é ón ch'al và int un bar e al dìs: "Barésta, un cafà e sànza paghèr, parché mé an ò póra d'inción!".
Al padràn ch'al sént incósa, l'éra un umàz d'un méter e nuvànta: ai vén atàis e al dìs: "Ànca mé an ò póra d'inción!"
E ló: "Barésta, un cafà ànch par ch'al sgnàuri qué!".

RIME IN PILLOLE (pagina 49)

E anche quest’altro che è un "Discorso tra due vecchietti del Ricovero", preso da “il Marchese Colombi” 10/02/1895:

“Cùmm vèla stamatén-na? “Cùmm Dio vól!”
“A sì lé con al gróggn, tótt zétt zétt!”
“Io penso ch’a sàn qué strà di puvrétt
e piango cómm s’a fóss un ragazól.

Piuttosto che finire i dì nel duol
io, che fui uom di lettere, ch’l’à scrétt
dei drammi, dei romanzi, di sunétt,
al n’éra méii ch’a féss al strazaról?”

“L’é inóttil che vó av fèvi di rimpróver:
avèvi da pensèr in zoventó
che i letterè, purtróp, vàn al ricóver.

Lasè ch’a bràntla mé, chèro al mì òmen,
ch’ai ò fàt una fótta pìz che vó
par finìr qué!” “Che cosa?” “Al galantòmen!”


L’indovinello del treppiede (graticola?), del pollo e…del gatto:

A tóls trì pì,
ai mité só dù pì,
arivé quàter pì,
al purté vì dù pì
e a vanzé con trì pì!

Canto popolare di Monteveglio:

Il cavalier Milano voleva tór muiér,
voleva tór l’inglàisa, figlia d’un cavalier.
La sera la domanda e al dè al la v’lé spusèr:
appena lei fu sposa, vì al la vóls purtèr.
Fecero trenta miglia, nessun dei due fiatò,
ne fecero altre trenta, l’inglesa sospirò.
“Cosa sospiri, inglesa, cosa sospiri ohibò?”
“Sospiro padre e madre, mai più li rivedrò!”
“Rimira quel palazzo, sappilo ben mirar,
a trentasei ragazze la tèsta ai ò taiè!
“Imprestami la tua spada” “Che cosa ne vuoi far?”
“Voglio tagliar la frasca da dèr al mì cavàl
Appena avuto spada, nel cuor gliela piantò
e prese il suo cavallo e a casa ritornò.
-
Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 48)

Una filastrocca di Gregorio Casali:

Bulàggna bèla ai pì d’l’Apenén
piantè e fàta a fàurma d’una bèrca,
bèla ed fàbrich, famàusa ed zitadén
ch’par vàddarla l’indiàn fén al mèr vèrca;
e chi a pì, chi a cavàl ‘s métt in camén
ed maravàiia ognón él zéii inèrca,
al và só al mànt, l’adócia al piàn e al dìs:
“St’ bèl pàais l’é un terèster Paradìs!”


Quando si parlava di cambiare nome alla statua di San Petronio, il Santo si lamentava così col vicino Gigante (temendo di diventare un certo Sacchetti, allora assessore) :

A mé, purtróp, tótt zàirch’n ed fèr dal mèl
e v’lìv savàir cùmm andarò a finìr?
Ch’im cavaràn la méttria e ànch al pivièl,
im mitaràn int la fàza dàu basàtt
e, pr’unurèr chi fé tànt lavurìr,
i v’ràn ch’a d’vànta l’asesàur Sacàtt!


(A. Testoni, “Bologna che scompare” 1850-1880)

Questo sonetto, a firma “l’umarén dal pàvver” non c’entrerebbe nulla con questa raccolta che NON è di poesie, ma è tanto bello (e tanto giusto!) che lo riporto:

Sgnàur Giólli, mó al n’à póra ed stèr acsé
con sàul la cumpagnì d’un gàt suriàn,
ch’an i pól dèr sicùr sodisfaziàn
cómm ‘na sarvóta ch’téggna un póch pulé

e ai fàga un piàt ed m’nèstra pr’al mezdé?
‘Na ragazóta ch’s pósa tór a màn,
ch’sèva lavèr t’vaiù e sugamàn,
dèr quàich puntén dùvv’i é quèl ed scusé?

E pò as sà: una malatì o ànch un bisàggn
ch’al pósa capitèr, ed dé o ed nót,
l’é sóbbit lé d’aiùt e ‘d bàn sustàggn!

Ch’am dàga mànt a mé e pò la nót
(che l’ómen, tótt i sàn, ch’n’é brìsa ed làggn!)
avàir avsén un cùl…l’é un tér’n al lót
-
Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 47)

…quando a Bologna c’erano ancora gli ulivi:

Ón, dù e trì,
al balàn an và pió vì,
al và vì ‘stà premavàira
quànd i tìren só la tàila.
Tàila da l’óli
d’andèr in purgatóri,
tàila da zìl
d’andèr in paradìs.


Questo è il finale della favola della matrigna:

Mi madràggna, ràggna, ràggna
l’am mandé a fèr d’la làggna
làggna, làggna a cuié
la caldèra la buié,
mi surlén-na blén-na, blén-na
l’am purté una panirén-na,
mì papà luvàn, luvàn
am magné tótt int un b’càn.


Questa viene da Pianaccio:

Din dàn dindèla
A s’é maridè Brighèla
E l’à tólt una vecchietta
Era tutta rampinosa
E doman farem la sposa.

(dal “Lunèri bulgnàis”, 1990)

Le ragazze bolognesi innamorate d’un tempo, interrogavano così la margherita:

Al m’invól e s’an m’in vól,
al m’àma e s’al m’à int al cór,
póch, purassè, acsé acsé, am minciàn-na.


…e la speranza o la delusione stavano nella frase dell’ultimo petalo!

Ancora una ninna-nanna:

Din, dàn, dón
di pinén ai n’avàn ón:
s’ai n’avéssen dù o trì
o Dio Sgnàur che sinfunì!

(da "I calendari d'Italia", 1996)
-
Paolo Canè

martedì 23 dicembre 2008

LA GAZÀUSA (n. 227)

"Sèt cùs'am é suzèst? L'ètra sìra ai ò b'vó una gazàusa e ai ò mandè zà ànch la balén-na!"
"Dit dabàn? It stè mèl?"
"Mocché, sàul che dàpp ai ò fàt una scuràzza e ai ò mazè al gàt!".

AL MUTÌV (n. 226)

"Pirén, cus'éni tótt chi sgranfgnùt t'è int la pànza?"
"A n'é gnìnta, màma".
"Cómm a n'é gnìnta, cuss’èt fàt?"
"At déggh ch'a n'é gnìnta…"
"Dài sméttla, a vóii savàir cùs t'è fàt".
"O insàmma, al gàt él al mì sé o nà?"
"Zért ch'l'é al tó".
"Alàura mé ai càz int al cùl fén ch'am pèr!".

LA BALÀNZA MÀGICA (n. 225)

A la staziàn ed Bulàggna ai é una balànza con un cartèl "INDOVINO, PESO, NOME E DESTINAZIONE - £.1000". Un fraràis, ch'an i cràdd brìsa, al métt i sóld e la balànza la dìs:
"Té t'at ciàm Zagatti, t'pàis utànta chìllo e t'è da partìr col tréno dal dàu e mèz par Frèra".

Al vànza ed stócch, mó al cunténnua à'n cràddri brìsa: al và int al césso, as métt un pèr d'ucèl, un capèl e as chèva la giàca e pò al tàurna. Al métt i sóld e la balànza:
"Té t'at ciàm Zagatti, ecc. ecc."

Brìsa ancàura cunvént, al và fóra e as càmpra un mócc' ed róba da dóna: bùrsa, parócca, trócch, ecétera, la và int al césso e, dàpp a mezàura ed preparatìv, al tàurna in vàtta a la balànza, al métt i sóld e li la fà:
"T'at ciàm sàmper Zagatti, t'i samper utànta chìllo e, a fórza ed fèr l'èsen, t'è pérs al tréno par Frèra!".

AL CANUNÌR (n. 224)

Int al Sizànt, una nèv con tótt l'equipàg' ed frarìs, l'éra impgnè int una gràn batàglia navèl cànt'r i Tùrch. A un zért pónt l'arìva ed càursa al chèp canunìr e al dìs:

"Capitàni, capitàni, an avàn pió cùlp!".
E ló: "Mandèi di càncher!".

AL LIMUNÉR (n. 223)

Ai é un sugèt ch'al vànnd di limón col só bancàtt, própi davànti à una bànca. Ai pàsa un só amìgh e ai d'mànda:

"Bàn, ch'sa fèt? Vàndet di limón?"
"Ói, t'an al vàdd?"
"Mó s'ciàpel di sóld a fèr ch'al lavurìr lé?"
"A mé dégg! Guèrda mò: quàsst l'é l'incàs d'incù!" e ai gli màsstra una sbisachè ed sóld.
"Sócc'mel" al dìs l’amìgh "Al vóii fèr ànca mé, cùmm'òia da fèr?"
"T'è d'andèr al marchè à l'ingrós, t'càmper di limón e ti vànnd al dàppi".
"Ai vàgh sóbbit. Di' só, um darésset in prèst i sóld?"
"Vàddet, mé a ti darévv d'vluntìra, parché ai ò, mó purtróp ai ò fàt un cuntràt con la bànca: lì la s'é impgnè an vànnder brìsa i limón e mé an imprestèr brìsa i sóld!"

LA FÒIA TONDA di Adriano Simoncini

In questi giorni nei quali tutti pubblicano (di recente mi ci sono messo anch’io!), sono entrato in possesso di questo libro sulla montagna: usi, costumi, dialetto, proverbi, personaggi,ecc. Un libro ben fatto, benché limitato alla montagna delle valli di Savena, Setta e Sambro (che è anche il titolo di un periodico), a differenza dei due più completi volumi pubblicati, sempre di recente, da Tiziano Costa che trattano di tutta la nostra montagna. Si direbbe un’inflazione di pubblicazioni sui nostri dialetti, sulla nostra storia e, se ci fossero più lettori che scrittori, sarebbero anche interessanti per chi si prendesse la briga di leggerli!
Ma tant’è. La "fòia tonda" sarebbe quella del castagno d’altura, sinonimo di povertà e, a questo proposito, nutro qualche dubbio sull’esattezza della grafia, che è l’eterno problema di tutti i dialetti. Non conosco il dialetto montanaro (e suppongo che non ce ne sia uno solo!), ma, vedendo alcune incongruenze grafiche, credo che Simoncini abbia curato più il contenuto che la grafia. Il contenuto è una lunga serie di proverbi, molti dei quali fanno parte anche del nostro dialetto, alcune poesie di Terziglio Santi, vari modi di dire, fatti, personaggi, situazioni ed abitudini, soprattutto di un tempo.
E, tra questo materiale, ho trovato alcune curiosità che voglio ricordare.
Da sempre ho sentito dire l’é mò lé mò lé, esclamazione usata come dire “è proprio lì il busillis o il problema”, ma nel libro viene spiegato quello che potrebbe essere il vero significato: l’é mò lé al mulén (è lì il mulino), poiché pare che un tempo si dovessero fare lunghe code d’attesa ai mulini e quello era un problema. Mulini che hanno avuto importanza fondamentale nell’economia antica, tanto da dare vita a diversi proverbi anche in italiano: “Chi va al mulino s’infarina”, “Acqua passata non macina più”, “Chi prima arriva macina”, “Portare acqua al proprio mulino” e così via.
E, a proposito di mulini, ho trovato anche la spiegazione del detto “L’é pió pàis che la mèsna ed sàtta” detto alle persone pesanti da sopportare: pare che delle due macine dei mulini, quella di sotto fosse la più voluminosa e perciò la più pesante! Tuttavia a Bologna si dice anche “L’é lóngh cómme la mèsna ed sàtta” a chi è un tiratardi e lento nel fare le cose, ma credo che sia una variazione sul tema e che non c’entri nulla con i mulini, a meno che…la macina inferiore non girasse più lentamente dell’altra ed io, non essendo mugnaio, non lo posso sapere!
Altri detti che si ricollegano alla mia infanzia di “cittadino”, ma sempre molto vicino alla campagna, sono il richiamo alle galline per fare rientrare la sera nel pollaio (a lèt, a lèt, a lèt) e l’imitazione del verso della civetta (tutumìù, tutumìu, tutumìù), cioè “tutto mio” riferito a che è ingordo e vorrebbe tutto per sé, specialmente il denaro.
Il libro contiene anche la spiegazione di un altro modo di dire: “l’à magnè el tàtt a só mèder” che, a quanto pare, si riferiva a quei bambini che pretendevano il latte materno anche oltre l’età consentita. Qui a Bologna si dice “an ò mégga magnè el tàtt ed mi mèder” quando ci si vuole difendere da una punizione esagerata, come per dire “va bene, ho sbagliato, ma non sono mica una carogna”. Piccole differenze di significato, ma è anche naturale che ci siano, tuttavia i detti sono tutti abbastanza simili.

Interessante è anche il termine “balzano” nel senso di “bizzarro” (un’idea balzana), il quale trarrebbe origine proprio dalle balze dei cavalli, seguendo un misterioso detto che indicherebbe la bontà di questi animali a seconda del numero delle loro balze.
Curiosi sono anche alcuni modi di dire, come “an sà gnànch quànt marón l’à una pìgra” (non sa nemmeno quanti testicoli abbia una pecora), che è indice della massima ignoranza. Oppure “ai éra d’la miséria dapartótt, fóra che a lèt” per dire in modo birichino che mancava tutto, tranne che le prestazioni sessuali!
Poi ho trovato un proverbio un po’ volgarotto, se vogliamo, ma molto simpatico e, se ben ricordo, non compreso negli oltre 1400 che Alberto Menarini elencò nei suoi famosi “Proverbi bolognesi (1971)”. Esso recita così: “ch’i sànt ch’i màgnen i fàn di miràquel ch’i pózzen” (i santi che mangiano fanno miracoli maleodoranti). L’antica saggezza contadina diffida di chi fa del bene con sottinteso un preciso tornaconto, ma anche di chi promette miracoli e poi è capace di fare soltanto ciò che può!
Queste sono le cose che mi hanno colpito particolarmente, ma in questo libro, in tutti i libri c’è sempre molto di più. Quest’ultima considerazione, insieme a quella precedente sul grande numero di scrittori in confronto al numero ristretto dei lettori, mi fanno venire in mente alcuni aforismi:

“Non c’è libro tanto cattivo che in qualche sua parte non possa giovare” (Plinio il Vecchio)

“Una volta avevamo un pubblico: adesso il pubblico si è messo a scrivere” (J.Rénard)

“I libri che si vendono di più, sono quelli che si leggono di meno” (f.lli Goncourt)

“Hai letto quel libro? Non l’ho letto e non mi piace!” (Anonimo)
-
E credo che così possa bastare, tuttavia mi piace ricordare in questa sede un aforisma di A. Arbasino che dice: “Le tre età di un o scrittore: a 30 anni è la giovane promessa, a 50 è il solito stronzo e a 65 è il grande Maestro”!
-
Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 46)

Una filastrocca non raffinatissima e con qualche vocabolo… misterioso:

Pirinén da la bràtta ràssa,
t’an sè gnànch quànt l’at càssta,
l’am càssta trì denèr,
vàl atàch al bùs dal stièr,
al bùs dal stièr l’é ràtt,
vàl atàch al pàzz,
al pàzz l’é pén d’àqua,
vàl atàch a la giàza,*
la giàza l’é pén-na ‘d spén,
vàl atàch a l’asnén,
l’asnén al trà di chèlz,
vàl atàch al marschèlch,
al marschèlch vàula vàula,
vàl atàch a l’arzdàura,
l’arzdàura tàia tàia,
vàl atàch a la patàia,
la patàia l’é mèl sgurànta,*
vàl atàch a la pulànta,
la pulànta l’é mèl salè,
vàl atàch a l’amalè,
l’amalè al stà par murìr,
mérda in bàcca a chi m’l’à fàta dìr!


* giàza = miseria sgurànta= pulita?

***

Questa viene da Monteveglio:

Al mi papà l’é andè a la Fìra
E al m’a purtè un campanén.
E con ch’al campanén ch’al fà den-den
E con ch’al chitaràn ch’al fà fran-fran
E con ch’al trumbàn ch’al fà bran-bran
E con ch’al clarén ch’al fà bren-bren
E con ch’al viulàn ch’al fà zan-zan
E con ch’al viulén ch’al fà zen-zen
E con ch’al subiól ch’al fà piól-piól
E con ch’al trumbàtt ch’al fà te-te,
figlia, bella figlia vuoi venire con me?
figlia, bella figlia vuoi venire con me?
-
Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 45)

Probabilmente una cantilena per i compleanni (quando si usava tirare gli orecchi) :

-Pimpunèta, Pimpitóca,
dùvv’él andè ch’al pundghén ch’l’éra là dànter ?
-Al l’à magnè al gàt
-In dùvv’él andè al gàt?
-Int al fàuren
-In duvv’él andè al fàuren?
-Él chèver i l’àn sbuzè
-Indùvv’éni andè él chèver?
-Int al bósch?
-In dùvv’él andè al bósch?
-La manèra al l’à taiè
-In dùvv’éla andè la manèra?
-Al fùgh a l’à brusè
-In dùvv’él andè al fùgh?
-L’àqua al l’à smurzè
-In dùvv’éla andè l’àqua?
-A l’à b’vó al bà
-Indùvv’él andè al bà?
-A sumnèr al pànigh
-In dùvv’él andè al pànigh?
-Al pàser al l’à magnè
-In dùvv’él andè al pàser?
-Strà’l nóvvel e’l s’ràggn
mai pió a se v’dràn.
-Mé a sàn Bèrba Falzàn,
a pós dìr la mì rasàn,
mé a sàn Bèrba Zarfóii,
a pós fèr quàll ch’a vóii,
mé a sàn Bèrba Zarvèl,
a pós tirèr égli uràcc’ fén ch’am pèr!



Nella favola del lupo, la madre dice alla figlia per tranquillizzarla (invano!):

Tès, tès fióla mì
ch’l’é la vàca di Martì
ch’la dà la tàtta ai sù vidì
-
Paolo Canè

martedì 16 dicembre 2008

AL PANARÉZZ (n. 222)

Un sgnàuri l'urdné da magnèr int un ristorànt. Quànd al camarìr ai purté la m'nèstra al v'dé ch'al tgnèva al didàn a móii int al bród. An déss gnìnta parché l'éra educhè, mó quànd al v'dé che ànch int el pulpàtt l'avèva un'ètra vólta al didàn a móii, al salté só tótt incazé e al déss:

"Gi só, v'èni brìsa insgnè che an bisàggna brìsa t'gnìr el dìda int la róba da magnèr?"
"Im l'àn insgnè sè: a fàgh al camarìr da ventzénqv àn! L'é ch'ai ò un panarézz ch'am fà un mèl d'la madóna e al dutàur am à détt ed t'gnìrel sàmper al chèld".
"A sè? Alàura sèl cùs'i déggh mé? ch'as al métta int al cùl!"
E al camarìr: "Soncamé: l'é própi quàll ch'a fàgh strà una purtè e ch'l'ètra!".

L’ELETRIZÉSTA (n. 221)

"Alàura ìt pò stè da ch'l'eletrizésta ch'at ò détt mé?"
"Ai sàn stè sè, mó a cràdd ch'al sèppa ón bàn da gnìnta!"
"Parché dìt acsé?"
"Mó parché ai ò d'mandè che tìp ed lampadén l'éra méii métter só e ló l'à taché a dìr "ampèr qué, ampèr là" e mé ai ò capé ch'an al savèva gnànca ló!"

L’OPERÈRI (n. 220)

Un operèri, al ciapèva al tranvài tótt i dé pr'andèr a lavurèr. Una sìra ai éra un gràn féss ed zànt e, pr'una frenè, l'andé adós à una bèla sgnàura, mó sicómm che ch'la sìra i l'avèven paghè con un rudlén ed munàid che ló l'avèva in bisàca, la sgnàura, int al sénter ch'al quèl, las vulté e l'ai cazé un smataflàn.
"Bàn, sgnàura, éla d'vintè màta?"
"Màta mé? Nà, l'é ló ch'l'é un spurcaciàn!" la sdéss lì.

Alàura l'oparèri al capé incósa e al spieghé a la sgnàura la fazànda del munàid.
"Ch'al scùsa bàn, sèl, mó con tótt chi marucéhn ch'ai é in gìro, ló al capéss…". E i tachénn a c'càrrer e i d'vinténn amìgh.

Tótti el sìr i s'incuntrèven, i ciacarèven e ai nasé una sempatì. Una bèla sìra, un'ètra gràn frenè e l'operèri l'andé un'ètra vólta adós à la sgnàura ch'la gé, con un surisén maliziàus:
"Ai fàgh i mì cumplimént: ai ò sintó ch'i àn carsó la pèga!"

À LA STAZIÀN (n. 219)

Ón l'arìva in staziàn ed vulè e al d'mànda a un'èter: "Él parté al tréno?" e l'arspósta: "Al tréno l'é par tè, l'é par mé, l'é par tótt!"

CASTNÈS, FOSAMÈRZA E I CANALÉTT

Sono tre note località sulla Via San Vitale, alle porte di Bologna, direzione Budrio.
Castnès (Castenaso) deriva, com’è noto, da “Castrum Nasicae”, poiché fu proprio Publio Cornelio Scipione Nasica che costruì la via tra Bologna e Ravenna.
Fosamèrza (che è indicata in italiano come Fossamarza), nota soprattutto per la presenza di un albergo di …una certa fama, potrebbe aver preso il nome dal fatto che nei pressi c’era (o c’è ancora) una “fossa marcia”, cioè un fosso d’acqua stagnante, oppure (vista la “romanità” dei luoghi e la traduzione in italiano con la “z”), potrebbe significare “fossa marzia” cioè fosso di Marzio: qualcosa di simile all’acquedotto di Roma chiamato “Acqua Marcia”, non perché mandi cattivo odore, ma perché il manufatto fu fatto costruire, nel II sec. a.C. dal pretore Quinto Marcio Re.
La probabile presenza di fossati è suggerita anche dal toponimo Canalétt (I Canaletti), località non lontana dove i bolognesi andavano a mangiare i ranocchi.
-
Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 44)

Un gioco per i bambini (forse per far loro imparare i giorni della settimana):

Lonedé al déss a
Martedé ch’l’andéss da
Mérquel, parché al mandéss
Giovedé a sénter se
Vèner l’avèva sintó dìr da
Sàbet che
D’màndga l’éra fèsta.
(dal “Calendario di Bologna di una volta”, 2003)

***

Filastrocche popolari (di provincia e di città):

Vón, vón, vón tamarazèr,
l’à vindó i su cavalétt:
al n’à pió vóiia ed lavurèr
Vón, vón, vón tamarazèr.

***

Ucarén-na d’la chèvra bìsa,
tìra tó mèder par la camìsa;
fàla balèr, fàla saltèr,
quàst’é la cà dal muntanèr.

***

Burdigàn al và in muntàgna
par cumprèr una castàgna,
quànd la guèrda l’é un maràn,
vìva vìva Burdigàn.

Burdigàn l’andé a la vàl,
al casché zà da cavàl,
‘l s’insuié tótt al sacàn
vìva vìva Burdigàn.

Burdigàn al và a Firànza
a cumprèr una cardànza,
quànd la guèrda l’é un casàn,
vìva vìva Burdigàn.

Burdigàn al và a Palàz
con al lìber sàtta al bràz
par prodùs’r él sàu rasàn.vìva vìva Burdigàn
-
Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 43)

Quando, in occasione della Guerra d’Africa, si cominciò a parlare delle varie “Amba” (Amba Alagi, Amba Aradan, ecc.), che erano alture troncoconiche dell’altopiano etiopico, i bolognesi non si lasciarono sfuggire la nuova occasione per giocare con le parole e coniarono il modo di dire “Amba…la un óc’ = mi balla un occhio” che non aveva altro significato, se non quello giocoso, appunto. La squadra di pallacanestro del “Gira” (e forse anche altre squadre locali) aveva come urlo di battaglia:

”…e par la bèla bàla,
un óc’ am bàla…
un óc’, un óc’, un óc’!”

***

Alla fine di ogni favola raccontata in dialetto, così come in italiano si diceva:

“stretta la foglia, larga la via
dite la vostra che ho detto la mia”

da noi si diceva:

“…e i fénn un gràn nóz e strangóz
ch’an i vanzé gnànch un ós:
ai vanzé sàul un p’zulén ed parsótt,
mó ch’al làuv ed… (il nome del bambino) al le magné tótt!”
(dai miei ricordi d’infanzia)

***

Ecco acune citazioni della provincia, tradotte in bolognese. Da San Benedetto Val di Sambro, per la costruzione di un campanile di 50 metri, …forse pendente:

Al campanéll l’é grànd e bèl
e l’é fàt tótt ed scalpèl.
Quì ed Muntagó i dìsen del stóri:
che al campanéll al pànnd vérs Muntóri.
Mó i muradùr ch’i l’àn piumbè
i dìsen ch’al và bàn cùmm l’é.
E, s’a p’sàn finìr’l ed paghèr,
al campanéll al s’à da drizèr…”

Da Molinella una spregiudicata quartina:

“Vìva la fàza d’na bèla dóna,
quànd l’à pérs l’agàccia da cùser,
las liva só, la scróla la stanèla,
las gràta al cùl e pò la guarda in tèra…”

E infine da Budrio, dove il popolo inneggiava al brigante Prospero Baschieri di Cazzano, che aveva liberato il paese dagli obblighi della leva e dalle tasse sul macinato imposte dai napoleonici. Il bello è che inneggiavano a lui, mentre … era esposto, decapitato, sul palco dei supplizi:

“Vìva Pruspròn Baschìra
ch’ als lébbra da la mèsna e da la lìva”
(Filippo e Fabio Raffaelli, Passeggiate bolognesi, 2004)
-
Paolo Canè

INCURSIONE NELLA GIUNGLA DELLA GRAMMATICA

Dico a me stesso: meno male che il dialetto me lo sono imparato ad orecchio, perché, se avessi dovuto studiarlo (in una scuola che peraltro non esiste, come non esistono testi), avrei fatto una fatica boia! Non si creda che la grammatica bolognese sia facile, solo perché si tratta di un idioma popolare, parlato da gente semplice: a volte è ardua quanto quella italiana, a volte è peggio! Ho cominciato a scrivere in dialetto soltanto una ventina d’anni fa, ma prima l’ho parlato per una vita e mi sono letto parecchie opere dialettali. Quelle di Menarini me le sono quasi imparate a memoria. Tuttavia agli inizi ho scritto diversi strafalcioni (e talvolta ne scrivo ancora), ma, con l’andar del tempo, pur basandomi prevalentemente sul metodo menariniano, ho cominciato a seguire certe regole di scrittura ed a farmi qualche idea sulla grammatica, anche se poi tutto resta opinabile, poiché si tratta di “mie” regole e di una “mia” grammatica.
Detto questo, è capitato che prima abbia scritto pagine su pagine e poi sia andato qua e là a correggere per uniformare la grafia di certe espressioni che prima scrivevo in un modo e poi in un altro. Così ho fatto di recente: dopo aver scritto “Una vìsita a la Sgnàura Catarén-na” sui sonetti di Testoni, sono andato a correggere, scrivendo allo stesso modo ciò che avevo qua e là scritto in modo diverso. Farò qualche esempio, ma prima faccio un passo indietro, tanto per chiarire le idee a me stesso.
In italiano i pronomi personali sono: io, tu, egli (ella), noi, voi, essi (esse),ma esistono pure le forme: me, te, lui (lei), noialtri, voialtri e loro che vengono usati talvolta in sostituzione e talvolta per altri motivi, come il caso di “me” e “te” che sono forme esclusivamente complementari. In bolognese non esiste nessuna delle parole scritte in grassetto, ma esistono esclusivamente quelle in corsivo e cioè: mé, té, ló (lì), nuèter, vuèter, làur. Quest’ultima vale sia per il maschile che per il femminile. In verità si sente dire, ahimé, anche “nó” e “vó”: la prima parola non è bolognese (è forse montanaro), la seconda esiste, ma è l’italiano “voi”, terza persona singolare.
Fin qui tutto facile, ma ora comincia il difficile. In italiano, dopo il pronome, viene la forma verbale (io vado, tu mangi, essi dormono), mentre in dialetto (nel nostro, ma anche in altri dialetti, specialmente settentrionali, ed in latino), il solo pronome non basta: è necessario un secondo pronome! Dunque succede come se in italiano si dovesse dire: me io vado, te tu vai, lui egli va (lei ella va), noialtri noi andiamo, voialtri voi andate, loro essi (esse) vanno! Però questo secondo pronome è come se fosse atrofizzato, infatti è spesso una “a” (tranne che in due casi), perciò: mé a vàgh, té t’vè, ló al và (lì la và), nuèter a andàn, vuèter a andè, làur i vàn. Le stesse voci, nella forma negativa, in italiano prendono il “non” ciò che in bolognese si dice “an”: io non vado, ecc. diventano: mé an vàgh, té t’an vè, ló an và (lì l’an và), nuèter an andàn, vuèter an andè, làur in vàn. Non solo, ma quasi sempre è necessaria (come in francese) la seconda negazione “brìsa” oppure, a seconda dei casi, “mégga” o “mèa”.
Le particelle pronominali “mi,ti,si,ci vi” sono, rispettivamente: am, (t’) at, als, (las), as, av, is. Da notare che la terza persona “si” in italiano è “unisex”, mentre in dialetto il maschile (als) è diverso dal femminile (las). Perciò, usando come esempio il verbo “fare”:mé am fàgh, té t’at fè, ló als fa (lì las fà), nuèter as fàn, vuèter av fè, làur is fàn.

Le stesse particelle, in forma negativa, tipo: io non mi, tu non ti, egli (ella) non si, noi non ci, voi non vi, essi (esse) non si, diventano rispettivamente “mé an um (raro “an me”), té t’ant, ló ans (lì l’ans), nuèter ans, vuèter anv, làur ins”.
Il problema che mi sono posto, nell’andare a rivedere tutto ciò che avevo scritto, è stato “come” scrivere tali particelle: ans oppure an s’? anv oppure an v’? is oppure i s’? als oppure al s’? las oppure la s’? e così via. Leggendo ciò che altri hanno scritto prima di me, ho trovato di tutto: ans, an s, an s’, las la s, la s’, anv, an v, an v’, ecc.
Allora sono arrivato ad una decisione, dividendo questi casi in due modalità:
1) tutto unito (ans, als, las, is, ecc.) se la lettera che segue è una consonante
2) staccato con l’apostrofo (an s’, al s’, la s’, i s’, ecc.) se è una vocale.
Alcuni esempi presi dalla “Sgnàura Catarén-na”:
-als vólta, als fé, als ciàma, als dà, als fécca, als vól, als tìra, ecc.
-al s’é, al s’imbarièga, al s’éra, ecc.
-las pól, las l’éra, las, vól, las métt, las v’dèva, las ciàma, ecc.
-la s’è, la s’inamàura, la s’ì éra, ecc.
-is salùten, is pólen, is vàdden, is dàghen, is gìren, is ciàmen, ecc.
-i s’én, i s’arcmandèven, i s’éren, ecc.
-ans fèva, ans pól, ans cràdd, ecc.
-an s’èva, an s’éra, an s’aiósta, ecc.e così via anche per tutti gli altri casi.
Da notare che a volte, specie quando s’incontrano troppe consonanti, viene naturale pronunciare una breve vocale eufonica: è il caso di “las v’dèva” (lei si vedeva), che diventa “la se v’dèva” e pertanto passa alla seconda modalità staccata (la se). Un’altra particolarità riguarda, ad esempio, “as piès” e “als piès” (ci piace):
- as piès, significa “a noi piace” (as piès al cìnema, as piès el taiadèl, ecc.)
- als piès, significa “a noi piace quella determinata cosa” indicata appunto con la “l” (a nuèter al cìnema als piès)
Nel caso citato “as piès el taiadèl”, sarebbe più corretta la forma plurale (is piès’n el taiadèl), forma che pure esiste, ma a Bologna non facciamo molta differenza, tanto è vero che questo errore ce lo portiamo anche quando parliamo in italiano!
Come pure ci portiamo lo scambio tra “gli” e “le” (in italiano: maschile e femminile), dato che in dialetto abbiamo solo la forma “ai”, perciò spesso diciamo “le” ad un uomo e “gli” a una donna e così fanno anche i milanesi:“questo vestito a lui le piace”, “questa sottana a lei gli sta bene”, poiché in dialetto è invariato, ai piès a ló, ai stà bàn a lì. Il “gli” esiste, nei casi pronominali, tuttavia è sempre invariato e perciò sbagliato (in italiano) quando si parla di una donna: sempre parlando dell’abito, si dirà a lui “a gli piès” e a lei “a gli stà bàn”!
Altri errori riguardano “i gnocchi” (i gnùch), “i pneumatici” (i pneumàtich) e “gli suoceri” (i suòceri): i primi due errori sono fatti dalla maggioranza degli italiani ma il terzo è tipico di noi settentrionali. Ed è strano, perché “al suòcero” dovrebbe indurre a dire “il suocero” e non “lo suocero” (non voglio nemmeno parlare dei brutti “sózer” e “sózra” che, tra l’altro, non ho mai udito dire). Ma già,”il” e “lo” in dialetto non esistono (abbiamo solo “al” o al massimo “l’”) anche perché noi non abbiamo difficoltà a pronunciare le consonanti …a grappoli!


Curioso è “is” che significa sia “si” che “ci”, come anche “ans” che significa sia “non si” che “non ci”, dando così origine a non pochi strafalcioni quando parliamo italiano, a conferma della nota storiella del bimbo che dice:” Mamma, si picchiano” e la madre risponde: “Ma lascia che si picchino” e lui:” Ma no: si picchiano a noi!”.
Stabilita dunque la regoletta del “tutto insieme o staccato con apostrofo” vediamo alcuni esempi, usando il verbo “sarvìr” (servire) che peraltro prevede la “a” solo all’ infinito, poi sempre la “e” :

Io servo mé a séruv
Io non servo mé an séruv brìsa
Io mi servo mé am séruv
Io non mi servo mé an um séruv brìsa
Io me ne servo mé am n’inséruv*
Io non me ne servo mé am n’inséruv brìsa*
Forme impersonali:
si serve as séruv
non si serve ans séruv brìsa

* La particella negativa “né” e il partitivo “ne” si scrivono allo stesso modo anche in dialetto, soltanto che il partitivo viene spesso apostrofato. Infatti: “né biànch e né nàigher”, però “ am n’impórta gnìnta”, “am n’acórz” e, nei casi, come quello dell’ esempio, dove il verbo seguente comincia con una consonante, lo stesso verbo prende il prefisso eufonico –in: con séruv, am n’inséruv, con fères, am n’infàgh, ecc.
Questo è quello che faccio io, ma ho trovato diversi altri sistemi “am nin”, “amn in”, ecc. che però non condivido.

***

Per finire, mi vorrei brevemente soffermare sul fenomeno fonetico della metatesi, cioè lo spostamento di alcune lettere all’interno di una parola, come succede per l’italiano “spengere” che diventa “spegnere”. Rispetto alla voce italiana, in bolognese il fenomeno accade in certe parole, che generalmente iniziano per “r” (anche se non tutte), tuttavia abbiamo anche “tamaràz” = materasso. Alcuni esempi sono:

Raccomandata = arcmandè
Ridurre = ardùser
Raffreddare = arfardèr e arsurèr
Rivoltare = arvultèr
Ricevuta = arzvùda
Rovesciare = arvarsèr
Ricordare = arcurdèr
Rovinare = arvinèr
Rimescolare = armisdèr
Risuolare = arsulèr

…e molti altri, compreso l’antico “reggitore-reggitrice” che fa “arzdàur-arzdàura” e il basso latino “recentare” (risciacquare) che fa “arsintèr”.In pratica si tratta di parole che in italiano iniziano per –ra, -re, -ri, -ro, -ru, le quali però in dialetto iniziano tutte e invariabilmente per –ar, cioè qualsiasi vocale che sia oggetto di metatesi, diventa sempre “a”!
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Paolo Canè

martedì 9 dicembre 2008

CAFÀ E BIGLIÈRD (n. 218)

Un cuntadnót an éra mài stè a Bulàggna e un só amìgh a gli gé: "Quànd t'i vè, próva a bàvver al cafà, ch'l'é bunéssum".
Un dé finalmànt l'arivé in zitè e al v'dé un bar con scrétt fóra "CAFFE' E BILIARDO", l'andé dànter dezìs e al déss: "Un cafè e bigliardo!".
Alàura al barésta à gli gé: "Ch'al bèda ch'aié un equivoco".
E ló: "Và bàn, ch'à gli métta pùr dànter ànch quàll!".

BÀCCH E SUSPTÀUS (n. 217)

Maré e muiér i fèven sàmper del gràn litighè, parché ló l'avèva pió córen in tèsta che una panìra ed lumègh! Un bèl dé, int una litighè furiàusa, ló à la ciapé e à la scaraventé fóra da la fnèstra d'l'ùltum piàn! Al guardé zà, mó an la v'dèva brìsa e al burbuté: "Vùt vàdder che, a fórza ed ciapèr di usì, l'à imparè a vulèr ànca lì?".

AL FASÉSTA (n. 216)

Int un paàis d'la muntàgna, ai éra ón che tótt il ciamèven "al fasésta", parché ànch dàpp la guèra, ló l'éra vànzè sàmpr'ed ch'l'idèa. Un dé l'andé dal dutàur che a gli déss che l'avèva un tumàur e che l'avèva ànch trì mis ed vétta! Al dé dàpp, al fasésta l'andé int la cèllula di cumunésta e al gé ch'al v'lèva iscrìvers al parté. Al "compàgno" an cardé brìsa al sàu uràcc' e al mandé a cimèr tótt i sù càpi e i d'mandénn:
"Cumm'éla, té t'ì sàmper stè un fasésta, che t'at vù iscrìver al nóster parté?"
"Parché al dutàur al m'à détt ch'ai ò sàul trì mìs ed vétta e strà trì mìs mé a preferéss ch'al móra ón di vùster!".

L’ESPLORADÀUR (n. 214)

Un umarèl al và int un bàr, al tìra fóra ed bisàca un umarén ch'al sarà stè èlt al màsum trànta zentémeter e l'àurdna: "Un cafà normèl e ón brìsa dimóndi grànd".
Al barésta, curiàus, à gli dìs:

"Ch'al scùsa sèl, mé ai fàgh i dù cafà, mó ló al m'à da dìr cumm'éla che ch'al sgnàuri lé l'é acsé cinén".
"Vàddel, al mì amìgh Gìsto l'éra un gràn esploradàur e un bèl dé l'arivé int un vilàg' ch'as ciàma…ch'as ciàma… di' só, Gìsto, cùmm's ciàmel ch'al vilàg' dùvv t'è mandè al stregàn a fèr del pugnàtt?".

IL MISTERO DELLA “C” (MA ANCHE DELLA “G”)!

In un precedente capitolo, parlando della "c" apostrofata iniziale (c'càrrer, C'món-na) avevo pensato di mettere una "h" per rendere la "c" dura e così differenziarla da quella dolce. Poi avevo pensato di scriverle allo stesso modo (obiettando tuttavia che due grafie uguali non possono avere due diverse pronunce) e lasciare al lettore il compito di capire quando si trattava di "c" dolce o dura. Ma avevo anche aggiunto di non esserne del tutto convinto. E ancora non ne sono convinto affatto!
Dato però che debbo arrangiarmi, come tutti hanno fatto finora, ho deciso che, per quel che mi riguarda, la "c", davanti ad un'altra consonante, se apostrofata sarà sempre dolce: c'càrrer, c'piasàir, c'nómm, ecc., mentre quella non apostrofata sarà sempre dura: Cmón-na, cminzipièr, cmandèr, ecc. Forse il lettore avrà qualche iniziale esitazione, ma almeno avremo due diverse grafie per due diverse pronunce,...senza andare ad inventare soluzioni strane! La "c" dolce: ho già detto spesso che questa moderna soluzione si applica per quelle parole che una volta iniziavano per "ds" (dscàrrer, dspiasàir, come l'italiano "discorrere" e "dispiacere") dove, in un primo tempo, è caduta la "i" e, in seguito, il gruppo "ds" si è trasformato, nel dialetto parlato, in "c", che, davanti ad un'altra consonante, prende l'apostrofo.
Semmai dovremmo farci una domanda: perché le parole derivate da dscàrrer e dspiasàir prendono la "c", mentre quelle derivate da dsnèr e dsgósst prendono la "g" (g'nèr e g'gósst)? Non ho una risposta, ma, come al solito, posso solo fare una supposizione: le parole prima latine e poi italiane "discorrere" e "dispiacere" prevedono la "s" aspra di "seno", mentre "desinare" e "disgusto" hanno quella dolce di "casa". Sembrerebbe dunque che ad "s" aspra corrisponda la "c" e a quella dolce la "g" e…potrebbe anche essere giusto! Analogamente anche le parole che hanno a che vedere con "testa": c'tàn (testone), c'timóni (testimonio) e c'tamànt (testamento).
La "c" dura: se, da un lato, sono contento di aver risolto il mio piccolo problema, dall'altro credo che si debba fare qualche eccezione (altrimenti che regola sarebbe?).
Perciò la "h" resta nei casi di "che" e "quello": ch'al vén e un perfetto esempio, poiché significa sia "che (egli) viene" che "quel vino", mentre calvén senz'acca è… Calvino! Scherzo, ovviamente! Gli esempi sono mille: quàlla ch'la và (che), ch'al bèl sugèt (quel), ecc. In italiano nel primo caso abbiamo la "c" e nel secondo la "q" (in dialetto la "q" iniziale, per "quella", non si usa più, infatti una volta si scriveva q'la), ma nella grafia dialettale penso che la "h" faciliti convenientemente la lettura. Senza considerare che l'antico ch'al (quel) veniva scritto cal, come fosse… un callo!
Ci sono inoltre i casi di "come" e "cosa", parole nelle quali, venendo a cadere la "o" sarà bene aggiungere oltre all'apostrofo, anche la "h" (ch'mé e ch'sa), altrimenti si avrebbe c'mé e c'sa o, peggio, cme e csa, che sarebbero molto ardui da leggere.
Esistono infine altri casi nei quali l'aggiunta della "h", oltre che essere giusta, rende più facile la lettura a prima vista e sono, ad esempio: ch'tè (coso) dove la grafia c'tè o, peggio, ctè potrebbero indurre a quella "c" dolce che non è; póch (poco), che non sarebbe corretto scrivere póc, poiché la "c" è dura, perciò anche il suo diminutivo puch'tén mi piace scriverlo col la "h" e l'apostrofo! E ancora sèghma (tipo buffo), sburzighlén (capriccio, formicolio) e tanti altri casi ancora.
-
Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 42)

Un sonetto a firma dello stampatore Sassi che, agli occhi disincantati di un postero, appare non meno esagerato dei suddetti acrostici:

Sognai: fu al vero il sogno mio conforme.
Notte era fosca: un turbo atro divelle
Reggie e Delubri: ampio deserto in quelle
Piaggie vedea, polve, e ruina informe.

Tremò il suol; Donna apparve: avea le forme
Leggiadre, atroce il cor, e l’alma imbelle
Cieche appo lei con ululo ribelle
Correan, cadean Genti attoscate a torme.

Ma una STELLA dal mar sorgeva; in breve
Qual SOL rifulse; ai raggi suoi la Druda
Svanì, scheletro fatta, ed ombra lieve.

Silenzio nel natìo speco l’accolse;
Aura spirò di pace, e la già nuda
Terra sorrise, e i germi antichi svolse.

E infine l’inizio di un inno a lui dedicato dal filarmonico Tommaso Marchesi, come se Napoleone non fosse stato uno dai più grandi ladri della storia:

“Vieni, o prode, fra i canti festivi
Di quel popol ch’hai tolto d’affanni:
Son rinati d’Augusto i begli anni,
E la terra s’abbella per te…ecc.”

***

Passata la “sbornia napoleonica” e in attesa che scoppiassero nell’ordine quella garibaldino-risorgimentale, quella fascista e quella comunista, Bologna si dedico a varie Esposizioni: prima quella del 1888, poi quella del 1904, ideata dal socio del TCI Edgardo Guerzoni, in occasione della quale Olindo Guerrini scrisse:

“O sacra terra nostra,
Madre benigna e cara,
La tua beltà ci mostra,
La vita tua ci impara;
Guida il tuo amor ci sia”

versi dedicati all’Italia, il cui profilo era stato dipinto in un grande quadro del pittore milanese Costantino Magni, all’interno del padiglione del T.C.I.
(A.Vianelli, A Bologna fra cronaca e storia, 1979)
-
Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 41)

Nella Bologna del ‘700 era di moda, tra gli aristocratici, scrivere versi satirici. L’abate genovese Frugoni scrisse una lunga canzonetta, in cui stigmatizzava così sia la marchesa Camilla, moglie del senatore Filippo Bentivoglio:

“…pur vi porto la Camilla
che dagli occhi suoi sfavilla,
benché vecchia, imbellettata,
vuol d’amanti una brigata…”

che la mogie del senatore Paolo Patrizio Zambeccari, soprannominato “Fracasso”:

“…porto a voi la Zambeccari,
quale sempre pensa a vari;
ma il marito con Fracasso
la fa star con l’occhio basso…”

Ma ci fu chi ribattè per le rime: ecco la strofa finale di un misterioso autore:

“…porto alfine quel Frugone,
puttaniero e gran briccone,
che fu frate poi abate
per aver la libertate
di mostrarsi più insolente
in dir male d’ogni gente,
come appar dalla canzone
che qui sopra vi si pone…”

***

Bologna è la città dei grandi amori politici, si sa. A cavallo tra ‘700 e ‘800 scoppiò la febbre napoleonica e, in occasione della visita dell’imperatore in città (20 giugno 1805), furono composte odi a non finire. Ecco due acrostici, firmati “l’umilissimo, ossequiosissimo e fedelissimo suddito A.D.”:

Napoleone - Non uomo, no, ma Nume in mortal Manto
Augusto - Apportator di fortunati eventi
Principe - Passò già l’Alpe, e ai fausti giorni spenti
Onoreficentissimo - O mai renduta Italia terge il pianto.
Lume - Là di Marengo per le vie ridenti
Eccelso - Eccheggia l’aria di sue glorie il vanto,
Onniveggente - Onorati a Lui s’ergon Monumenti
Nostro - Non mai per altri meritati tanto.
Emerito - E mentre alla Regal Ferrea Corona
Primo - Posando ferma sull’Augusta Fronte
Re - Risalto nuovo, e nuova Tempra Ei dona
Italiano - In Terra, in Ciel LA FAMA i rari spande
Massimo - Merti di tanto EROE = gridando = è il fonte
Ottimo - Or d’ogni ben NAPOLEONE IL GRANDE
-
Paolo Canè

martedì 2 dicembre 2008

AL FRANZÀIS (n. 213)

Un bulgnàis al gìra par la strè con un só amìgh franzàis. Stù qué al vàdd una mérda ed càn par tèra e al dìs:

"Parbleu!". E al bulgnàis: "La pèr a tè, a mé l'am pèr zaltén-na!"

AL GÀT E AL PASARÉN (n. 212)

Al pèder l'é a séder in pultràn-na ch'al lèz. L'arìva al cìnno, tótt agitè:

"Bàbbo, bàbbo, cùmm'éla che al gàt l'é turnè in cà con un usèl in bàcca?".
E al pèder, sànza livèr só i ùc' dal giurnèl: "As vàdd ch'l'à mànch fìgh che tó mèder!"

L’ELEFÀNT CURIÀUS (n. 211)

Un elefànt, in st'mànter ch'al magnèva, l'incàntra un nàigher tótt nud. A gli guèrda e a gli d'mànda: "Di' só, mó té cùmm fèt a bàvver?".

LA TÓMBOLA (n. 210)

Dù amìgh is tróven par la strè:

"Sèt? Ai ò truvè un ristorànt dùvv as màgna ch'l'é un fenómen e as pèga al giósst!".
"Dìt dabàn?".
"At al zùr e pò sèt, dàpp magnè i organézzen una spézie ed tómbola e quàll ch'al vénz al và só int la stànzia a guzèr!".
"Mó va là, té èt mai vént?".
"Mé nà, mó mi muiér l'à bèle vént trài vólt!".

LA LÈNA (n. 209)

Un umarèl al và int un negózi par cumprèr un paltò:
"Quànt càsstel quàll lé bertén?"
"Al càssta dusànt mélla frànch, mó nuètr'avàn ànch quàsst qué culàur camèl, ch'l'é ed gràn móda, ch'l'é dimóndi pió bèl e al càssta sàul tarsànzinquanta mélla frànch!".
"Sócc'mel, am pèr un pó chèr!".
"Al scarzarà: al paltò bertén l'é ed lèna normèl, mó quàll culàur camèl l'é ed "pura lana vergine!".
"Bàn l'é listàss: mé a vóii ch'al bertén, ànch se la pìgra l'é una putèna!".

NOI ANALFABETI BOLOGNESI!

Dopo la pubblicazione del libro "V'gnì mò qué, Bulgnìs", che ho scritto con la preziosa collaborazione di Tiziano Costa, mi sono pervenute diverse osservazioni da amici e conoscenti e tutte simili. "Il dialetto è molto difficile da leggere", "Ma come fai tu a scriverlo?", "Io non so leggere il dialetto", "Io lo parlo male", ecc. Tutte osservazioni plausibili, ma…superflue, poiché, in fatto di dialetto, tutti noi siamo analfabeti! Immaginate che cosa saremmo noi se la lingua italiana non ci fosse mai stata insegnata e se l'avessimo dovuta imparare ad orecchio: saremmo analfabeti! E questo siamo, almeno in fatto di dialetto. Certo che tutti noi parliamo il dialetto a seconda di vari fattori: se lo usiamo più o meno frequentemente, se siamo gente di buona cultura o meno, se lo conosciamo bene o soltanto superficialmente. Chi ha avuto modo di parlarlo per tutta la vita, tutti i giorni è più agevolato di chi lo ha usato solo sporadicamente, infatti molti "autori" e "attori" (si fa per dire) d'oggi, per come scrivono o per come recitano, lasciano trasparire la loro poca dimestichezza in materia e danno l'impressione a chi ascolta che essi traducano in dialetto ogni frase che in loro viene prima mentalmente formulata in italiano. Chi conosce bene l'italiano ed ha una discreta cultura generale, avrà più difficoltà a calarsi nel dialetto, ma certo avrà più facilità a formulare frasi sensate e ad usare parole buffe e spiritose, poiché, non dimentichiamolo, l'ironia è preziosa caratteristica dei bolognesi.
Infine, chi lo conosce bene eviterà di incorrere in certi "errori" e soprattutto in certi "italianismi" che sarebbero superflui se conoscessero i termini dialettali. Costoro fanno pensare a quei giornalisti e uomini politici ignoranti (e sono tanti), i quali, forse in difficoltà a ricordare termini che la lingua ha ben vivi, usano parole inglesi, contribuendo così a quel guazzabuglio che sta diventando la lingua di Dante: "okey" invece di sì, "devolution" invece di devoluzione e spiacevolezze del genere.
Come faccio a scrivere il dialetto? Mi arrangio, come finora si sono sempre arrangiati tutti, ma senza "invenzioni" strampalate e non necessarie. Certo che il dialetto, come ogni altra cosa, bisogna studiarlo e amarlo: non ci si inventa cultori da un giorno all'altro. È un idioma non scritto che non ha regole scritte, perciò la scrittura è in sé una forzatura, d'altronde quale altro sistema di divulgazione ci sarebbe? È un idioma orale che ha delle regole orali, ma esse sono abbastanza approssimative e perciò anche il dialetto che sentiamo parlare è, qua e là, approssimativo. Ho già detto come mio padre, io stesso e parecchi bolognesi di città e di tradizione, tendano ad usare la "o" tanto aperta (in certi casi) da sembrare, anzi da essere una "a". Noi per "buono" preferiamo dire e scrivere bàn e non bòn, per "padre", diciamo pèder e non pèdar e così mille altre parole analoghe. Una discreta confusione viene fatta da molti tra l'articolo singolare maschile e quello plurale femminile: "il" si dice al, mentre "le" si dice él oppure égli, a seconda che la parola seguente inizi per vocale. Quindi al pèder, él barzlàtt, égli óv (il padre, le barzellette, le uova) sarebbe la regola orale approssimativa, poiché si sente dire spesso al barzlàtt e agl'óv. Esempi analoghi ne potrei fare (e ne ho fatti e ne farò!) migliaia, ma l'ambiguità del dialetto resterà, poiché nessuna regola, anche se giusta, potrà mai essere ufficialmente dichiarata tale…
Forse perché anche noi "veraci" talvolta diciamo bòn, pèdar, al barzlàtt, ecc.!

Un breve, ma significativo esempio di ambiguità fonetica (e grafica) ci viene da una famosa barzelletta italo-bolognese-americana in voga negli anni '50: al "marine" O'Connor muore il padre e il capitano ordina di avvisarlo, con la durezza e la disciplina tipiche del corpo dei "marines". Il sergente mette in fila i soldati e ordina a coloro che hanno ancora il padre di fare un passo avanti. Naturalmente il nostro eroe fa un passo avanti e il sergente ringhia (chissà perché in bolognese!): "O'Connor, fà pur sàmper l'èsen!". Ora, a parte il fatto che da allora "fèr l'O'Connor" è diventato sinonimo di "fèr l'èsen", debbo dire che noi ragazzi dicevamo "O'Connor, fà pur sàmpar l'èsan!", usando cioè la "a" nelle due parole che invece vorrebbero la "e".
Tale variante può essere dovuta a vari motivi:
a) per la nostra ignoranza in fatto di dialetto (non dimentichiamo che a noi era proibito parlarlo e che eravamo tutti scolarizzati)
b) per l'influenza dell'italiano che porta forse a pronunciare "a"
c) per corruzione dovuta ad altri dialetti della provincia, che so, di San Pietro in Casale o Argelato o Vergato o altro
d) infine, per il semplice fatto che molti bolognesi pronunciano in un modo e molti altri in un altro, a conferma che non c'è una regola.
Fatto sta che ancora oggi la situazione è invariata e, anche se molti di noi "veraci" pronunciano e scrivono "fà pur sàmper l'èsen", tolleriamo (e a volte pronunciamo) anche l'altra forma, poiché ormai entrambe debbono convivere. Diciamo perciò che entrambe sono corrette, ma…una è più corretta dell'altra!
E questo ci obbliga a ritornare sul tormentone dell'evoluzione delle lingue.
Un'evoluzione che c'è sempre stata e ci sarà sempre, come sempre stati e sempre ci saranno coloro che vorrebbero frenarla e coloro che sono impazienti di accelerarla.
Anche la posizione del dialetto (di tutti i dialetti) nei confronti della lingua è ambigua, poiché, da un lato appare che esso sia più "conservatore" e dall'altro appare …il contrario!
Più conservatore, perché moltissimi termini antichi, spesso d'origine latina, i dialetti continuano a conservarli, anche quando la lingua li ha già sostituiti e dimenticati.
Più innovatore, perché, accogliendo ogni tipo di tributo e di variazione da parte di ogni parlante, presenta nuovi termini e differenti pronunce che convivono tutti allegramente, senza che nessuno possa affermare ciò che è giusto o sbagliato.
La lingua infatti, pur evolvendo (arricchendosi ed impoverendosi, a seconda dei casi), è come "imprigionata" dalla sua grammatica e dai suoi dizionari: se la grammatica dice che il discorso deve essere fatto in un modo, che la pronuncia deve essere quella, e se il dizionario dice che una certa parola non esiste, tutto ciò che non rientra in queste regole è inequivocabilmente sbagliato. Sbagliato oggi, domani vedremo!
Il dialetto, giovane e vecchio sbarazzino, fa ciò che gli pare: esso non ha prigioni e perciò si può sbizzarrire in mille varianti. Certo che regole ne esistono, ma, come ho già detto prima, si tratta di regole approssimative che, siano esse di pronuncia o di grafia, sarebbe bene seguire, ma che si possono anche eludere, poiché, lo ripeto, si potrà dire ciò che è prematuro o inopportuno o esagerato o di cattivo gusto o campagnolo od obsoleto, ecc., ma non ciò che è giusto o sbagliato.
-
Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 40)

La mì ‘mbràusa l’é ‘na venerànda
La mì ‘mbràusa l’é ‘na venerànda
La mì ‘mbràusa l’é ‘na venerànda
La frólla al mulinèl con una gàmba.

La mì ‘mbràusa l’am n’à fàta ónna
La mì ‘mbràusa l’am n’à fàta ónna
La mì ‘mbràusa l’am n’à fàta ónna
d‘in vàtta i cópp la m’à mustrè la lón-na

(da “Al lìber ed quàll ch’pèga l’óli” a cura Vari Autori, 1983)

La festa studentesca più importante era quella di San Martino, quando si aprivano i corsi scolastici. Gli studenti si davano al “bel tempo” e cantavano inni, come quello composto nel 1482 da Antonio Urceo, detto Codro, docente di lettere latine, che così cominciava:

Io, io, io
Gaudeamus io, io,
Dulces Homeriaci,
Noster vates hic Homerus
Dithirambi dux sincerus
Pergraecatur hodie…
(A. Vianelli, L’antica Università di Bologna, 1978)

Quand’ero bambino, mia nonna, per farmi stare buono, diceva una filastrocca della quale ricordo solo poche parole e probabilmente si riferivano al “discorso” d’un pappagallo che lei aveva sentito chissà quando e chissà dove:

Loréto reàl
Ch’al vén dal Portogàl
“Chi passa?”
È il re che va alla caccia,
tarà ta ta, tarà ta ta, ecc.


Ricordo che, quando mi prendevano sulle ginocchia, allargandole poi di colpo quasi per farmi cadere, mi raccontavano una breve favola che diceva pressappoco così:

Ai éra una vólta
Pirén da la spórta,
la spórta la s’é ràtta…
e Pirén l’é caschè par ‘d sàtta.
(dai miei ricordi d’infanzia)
-
Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 39)

Ecco alcuni esempi di “romanelle” e di “fiorini” medicinesi, cose adattabili anche a Bologna, vista la poca distanza tra il capoluogo e Medicina. Le parti in dialetto le ho “tradotte” nel bolognese attuale:

Vorrei saper da te, Maestro bello,
quànti bràza ai’é d’in zìl in tèra*
e quànti lébber la pàisa una stadìra*
e ànch quànt fiùr ai é int’na premavàira.*

*tre parole diverse in bolognese, ma che fanno rima in medicinese.

In mezzo al giardin c’è posto un spin prugnolo,
sera e mattina canta l’usignolo,
al cànta al màis d’Agàst e quàll d’Aprile:
un cór inamurè non può dormire.

Dio del ciel, piuvéss di macarón
e che la tèra la fóss infurmaiè

e che le mosche fossero capponi,
Dio del ciel, piuvéss di macarón!

***

Fiurén di menta,
l’amore da lontano mi tormenta,
ma quello da vicino, iiii!
Mi fa contenta.


Fiorìn di z’rìsa,
vùt ch’a ti tocchi o ch’a ti bèsa
o ch’a t’abràza, iiii!
Sànza camìsa.


Fior d’àqua cèra,
la bèla zànt la và a murìr in guèra
e gl’imbuschè i stàn qué a fèr d’la gatèra.
Fior d’àqua cèra.

E infine la famosa ballata, detta “La Veneziana” come si canta a Medicina. In questo e in altri componimenti, abbondano doppi sensi di carattere erotico ed anche molti riferimenti ad usanze agricole, retaggio di riti pagani, come quello di salire sul tetto e mostrare il sedere (come abbiamo già visto) e il sesso al sole nascente, all’inizio della primavera o ai fuochi di Marzo, gesti propiziatori per una ricca stagione agricola:

La mì ‘mbràusa l’é ‘na cuntadén-na
La mì ‘mbràusa l’é ‘na cuntadén-na
La mì ‘mbràusa l’é ‘na cuntadén-naLa fà al furmài e la plócca la ramén-na.
-
Paolo Canè

lunedì 1 dicembre 2008

NATALE 2008 - CAPODANNO 2009

È soltanto il 1° dicembre ed io ho già fatto il Presepe e ho già cominciato a guardare film e ad ascoltare canzoni di Natale!
Come dissi l’anno scorso, le feste ci piombano addosso ogni anno così all’improvviso, che non abbiamo il tempo di gustarcele.
Quest’anno me le gusterò per un mese, anche perché l’atmosfera natalizia è la cosa più bella che l’Uomo abbia inventato!
E poi c’è anche la fretta: la fretta di finire questo maledetto anno bisestile che mi ha portato via mio padre e tanti, troppi amici cari!
Auguro a tutti voi un lieto Natale e un buon anno nuovo, che, per me, non sarà certo peggio del vecchio …e poi la speranza non costa nulla!

Un abbraccio da Paolo Canè a tutti gli amici.