martedì 16 dicembre 2008

INCURSIONE NELLA GIUNGLA DELLA GRAMMATICA

Dico a me stesso: meno male che il dialetto me lo sono imparato ad orecchio, perché, se avessi dovuto studiarlo (in una scuola che peraltro non esiste, come non esistono testi), avrei fatto una fatica boia! Non si creda che la grammatica bolognese sia facile, solo perché si tratta di un idioma popolare, parlato da gente semplice: a volte è ardua quanto quella italiana, a volte è peggio! Ho cominciato a scrivere in dialetto soltanto una ventina d’anni fa, ma prima l’ho parlato per una vita e mi sono letto parecchie opere dialettali. Quelle di Menarini me le sono quasi imparate a memoria. Tuttavia agli inizi ho scritto diversi strafalcioni (e talvolta ne scrivo ancora), ma, con l’andar del tempo, pur basandomi prevalentemente sul metodo menariniano, ho cominciato a seguire certe regole di scrittura ed a farmi qualche idea sulla grammatica, anche se poi tutto resta opinabile, poiché si tratta di “mie” regole e di una “mia” grammatica.
Detto questo, è capitato che prima abbia scritto pagine su pagine e poi sia andato qua e là a correggere per uniformare la grafia di certe espressioni che prima scrivevo in un modo e poi in un altro. Così ho fatto di recente: dopo aver scritto “Una vìsita a la Sgnàura Catarén-na” sui sonetti di Testoni, sono andato a correggere, scrivendo allo stesso modo ciò che avevo qua e là scritto in modo diverso. Farò qualche esempio, ma prima faccio un passo indietro, tanto per chiarire le idee a me stesso.
In italiano i pronomi personali sono: io, tu, egli (ella), noi, voi, essi (esse),ma esistono pure le forme: me, te, lui (lei), noialtri, voialtri e loro che vengono usati talvolta in sostituzione e talvolta per altri motivi, come il caso di “me” e “te” che sono forme esclusivamente complementari. In bolognese non esiste nessuna delle parole scritte in grassetto, ma esistono esclusivamente quelle in corsivo e cioè: mé, té, ló (lì), nuèter, vuèter, làur. Quest’ultima vale sia per il maschile che per il femminile. In verità si sente dire, ahimé, anche “nó” e “vó”: la prima parola non è bolognese (è forse montanaro), la seconda esiste, ma è l’italiano “voi”, terza persona singolare.
Fin qui tutto facile, ma ora comincia il difficile. In italiano, dopo il pronome, viene la forma verbale (io vado, tu mangi, essi dormono), mentre in dialetto (nel nostro, ma anche in altri dialetti, specialmente settentrionali, ed in latino), il solo pronome non basta: è necessario un secondo pronome! Dunque succede come se in italiano si dovesse dire: me io vado, te tu vai, lui egli va (lei ella va), noialtri noi andiamo, voialtri voi andate, loro essi (esse) vanno! Però questo secondo pronome è come se fosse atrofizzato, infatti è spesso una “a” (tranne che in due casi), perciò: mé a vàgh, té t’vè, ló al và (lì la và), nuèter a andàn, vuèter a andè, làur i vàn. Le stesse voci, nella forma negativa, in italiano prendono il “non” ciò che in bolognese si dice “an”: io non vado, ecc. diventano: mé an vàgh, té t’an vè, ló an và (lì l’an và), nuèter an andàn, vuèter an andè, làur in vàn. Non solo, ma quasi sempre è necessaria (come in francese) la seconda negazione “brìsa” oppure, a seconda dei casi, “mégga” o “mèa”.
Le particelle pronominali “mi,ti,si,ci vi” sono, rispettivamente: am, (t’) at, als, (las), as, av, is. Da notare che la terza persona “si” in italiano è “unisex”, mentre in dialetto il maschile (als) è diverso dal femminile (las). Perciò, usando come esempio il verbo “fare”:mé am fàgh, té t’at fè, ló als fa (lì las fà), nuèter as fàn, vuèter av fè, làur is fàn.

Le stesse particelle, in forma negativa, tipo: io non mi, tu non ti, egli (ella) non si, noi non ci, voi non vi, essi (esse) non si, diventano rispettivamente “mé an um (raro “an me”), té t’ant, ló ans (lì l’ans), nuèter ans, vuèter anv, làur ins”.
Il problema che mi sono posto, nell’andare a rivedere tutto ciò che avevo scritto, è stato “come” scrivere tali particelle: ans oppure an s’? anv oppure an v’? is oppure i s’? als oppure al s’? las oppure la s’? e così via. Leggendo ciò che altri hanno scritto prima di me, ho trovato di tutto: ans, an s, an s’, las la s, la s’, anv, an v, an v’, ecc.
Allora sono arrivato ad una decisione, dividendo questi casi in due modalità:
1) tutto unito (ans, als, las, is, ecc.) se la lettera che segue è una consonante
2) staccato con l’apostrofo (an s’, al s’, la s’, i s’, ecc.) se è una vocale.
Alcuni esempi presi dalla “Sgnàura Catarén-na”:
-als vólta, als fé, als ciàma, als dà, als fécca, als vól, als tìra, ecc.
-al s’é, al s’imbarièga, al s’éra, ecc.
-las pól, las l’éra, las, vól, las métt, las v’dèva, las ciàma, ecc.
-la s’è, la s’inamàura, la s’ì éra, ecc.
-is salùten, is pólen, is vàdden, is dàghen, is gìren, is ciàmen, ecc.
-i s’én, i s’arcmandèven, i s’éren, ecc.
-ans fèva, ans pól, ans cràdd, ecc.
-an s’èva, an s’éra, an s’aiósta, ecc.e così via anche per tutti gli altri casi.
Da notare che a volte, specie quando s’incontrano troppe consonanti, viene naturale pronunciare una breve vocale eufonica: è il caso di “las v’dèva” (lei si vedeva), che diventa “la se v’dèva” e pertanto passa alla seconda modalità staccata (la se). Un’altra particolarità riguarda, ad esempio, “as piès” e “als piès” (ci piace):
- as piès, significa “a noi piace” (as piès al cìnema, as piès el taiadèl, ecc.)
- als piès, significa “a noi piace quella determinata cosa” indicata appunto con la “l” (a nuèter al cìnema als piès)
Nel caso citato “as piès el taiadèl”, sarebbe più corretta la forma plurale (is piès’n el taiadèl), forma che pure esiste, ma a Bologna non facciamo molta differenza, tanto è vero che questo errore ce lo portiamo anche quando parliamo in italiano!
Come pure ci portiamo lo scambio tra “gli” e “le” (in italiano: maschile e femminile), dato che in dialetto abbiamo solo la forma “ai”, perciò spesso diciamo “le” ad un uomo e “gli” a una donna e così fanno anche i milanesi:“questo vestito a lui le piace”, “questa sottana a lei gli sta bene”, poiché in dialetto è invariato, ai piès a ló, ai stà bàn a lì. Il “gli” esiste, nei casi pronominali, tuttavia è sempre invariato e perciò sbagliato (in italiano) quando si parla di una donna: sempre parlando dell’abito, si dirà a lui “a gli piès” e a lei “a gli stà bàn”!
Altri errori riguardano “i gnocchi” (i gnùch), “i pneumatici” (i pneumàtich) e “gli suoceri” (i suòceri): i primi due errori sono fatti dalla maggioranza degli italiani ma il terzo è tipico di noi settentrionali. Ed è strano, perché “al suòcero” dovrebbe indurre a dire “il suocero” e non “lo suocero” (non voglio nemmeno parlare dei brutti “sózer” e “sózra” che, tra l’altro, non ho mai udito dire). Ma già,”il” e “lo” in dialetto non esistono (abbiamo solo “al” o al massimo “l’”) anche perché noi non abbiamo difficoltà a pronunciare le consonanti …a grappoli!


Curioso è “is” che significa sia “si” che “ci”, come anche “ans” che significa sia “non si” che “non ci”, dando così origine a non pochi strafalcioni quando parliamo italiano, a conferma della nota storiella del bimbo che dice:” Mamma, si picchiano” e la madre risponde: “Ma lascia che si picchino” e lui:” Ma no: si picchiano a noi!”.
Stabilita dunque la regoletta del “tutto insieme o staccato con apostrofo” vediamo alcuni esempi, usando il verbo “sarvìr” (servire) che peraltro prevede la “a” solo all’ infinito, poi sempre la “e” :

Io servo mé a séruv
Io non servo mé an séruv brìsa
Io mi servo mé am séruv
Io non mi servo mé an um séruv brìsa
Io me ne servo mé am n’inséruv*
Io non me ne servo mé am n’inséruv brìsa*
Forme impersonali:
si serve as séruv
non si serve ans séruv brìsa

* La particella negativa “né” e il partitivo “ne” si scrivono allo stesso modo anche in dialetto, soltanto che il partitivo viene spesso apostrofato. Infatti: “né biànch e né nàigher”, però “ am n’impórta gnìnta”, “am n’acórz” e, nei casi, come quello dell’ esempio, dove il verbo seguente comincia con una consonante, lo stesso verbo prende il prefisso eufonico –in: con séruv, am n’inséruv, con fères, am n’infàgh, ecc.
Questo è quello che faccio io, ma ho trovato diversi altri sistemi “am nin”, “amn in”, ecc. che però non condivido.

***

Per finire, mi vorrei brevemente soffermare sul fenomeno fonetico della metatesi, cioè lo spostamento di alcune lettere all’interno di una parola, come succede per l’italiano “spengere” che diventa “spegnere”. Rispetto alla voce italiana, in bolognese il fenomeno accade in certe parole, che generalmente iniziano per “r” (anche se non tutte), tuttavia abbiamo anche “tamaràz” = materasso. Alcuni esempi sono:

Raccomandata = arcmandè
Ridurre = ardùser
Raffreddare = arfardèr e arsurèr
Rivoltare = arvultèr
Ricevuta = arzvùda
Rovesciare = arvarsèr
Ricordare = arcurdèr
Rovinare = arvinèr
Rimescolare = armisdèr
Risuolare = arsulèr

…e molti altri, compreso l’antico “reggitore-reggitrice” che fa “arzdàur-arzdàura” e il basso latino “recentare” (risciacquare) che fa “arsintèr”.In pratica si tratta di parole che in italiano iniziano per –ra, -re, -ri, -ro, -ru, le quali però in dialetto iniziano tutte e invariabilmente per –ar, cioè qualsiasi vocale che sia oggetto di metatesi, diventa sempre “a”!
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Paolo Canè

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