lunedì 19 maggio 2008

FINALMENTE BOLOGNA!

È ancora presto per dirlo e dovrei tacere per scaramanzia, ma è stata tanto grande la gioia di ieri che non riesco più a trattenermi! Se avessimo dovuto ricorrere a dei “ballottini” per fare vincere (e anche bene) il Bologna e contemporaneamente fare perdere sia il Lecce (in casa) che l’Albinoleffe, le cose non sarebbero riuscite meglio di così! Chi l’avrebbe detto che, dopo la partitaccia di sabato scorso, saremmo passati (calcisticamente) dall’inferno al paradiso in sette giorni, e, a giudicare anche dalla gioia da bambino che ha mostrato ieri Cazzola, nessuno se l’aspettava.
È ancora presto, poiché bisogna andare prima a Mantova e poi vedercela in casa col Pisa (due partite che ora dobbiamo vincere, a costo di… ricorrere alle armi!), ma possiamo dire che probabilmente il più è fatto in questo campionato sofferto e bellissimo, il quale ci ha regalato emozioni incredibili, nel bene e nel male.
È ancora presto, ma voglio dirlo ugualmente, come se fossimo già promossi in serie A, poiché è troppo tempo che alcune cose mi stanno sullo stomaco, perciò, anche se malauguratamente le cose dovessero andare (ancora una volta) male, i sassolini dalle scarpe bisogna toglierseli, ogni tanto!
Se saremo promossi io dedicherei l’impresa al Bologna stesso, al suo pubblico e al suo Presidente, ma anche alla (brutta) faccia di quei due “gufi” televisivi (Fascetti e D’Amico) i quali per tutto l’anno hanno parlato male del Bologna o comunque ne hanno parlato solo quando perdeva! Del resto il Bologna non ha, non ha mai avuto santi in paradiso: solo nei primi 30 anni di vita riuscì a vincere 6 scudetti e 2 Coppe Europa (allora “faceva tremare il mondo”), poi la notte: 70 anni di buio, di serie B e C, rischiarato soltanto dalla perla del settimo scudetto, 40 anni fa. Ma anche allora (io c’ero) non fu facile: ci accusarono di tutto, di droga e d’altro, ciò che non è mai stato fatto né prima, né dopo nei confronti di una squadra di calcio. Ma ciò non fece che raddoppiare la gioia della sconfitta inferta alla supponente Inter a Roma, (godo ancora al pensiero!). Del resto i bolognesi, certi dell’innocenza dei loro pupilli, già allora ci scherzarono su con la loro tradizionale ironia e coniarono nuovi nomi per giocatori e squadra (lo dico per i giovani d’oggi, che forse non lo sanno): Negrisolis; Droganis, Pastigliato; Punturus, Simpamjanich, Siringfogli; Bombani, Pillorelli, Oppinielsen, Morfinhaller, Fialutti. All: Bombardini, Presid: Dalla Droga…e poi diventammo campioni d’Italia, alla faccia di chi ci voleva male!
Questa bellissima città, nella quale tutti stanno benissimo è, almeno calcisticamente (e di recente pare anche cestisticamente!) odiata da tutti quelli che contano: chissà perché? Che sia una questione di denaro? Che sia una questione di agganci politici? Che sia un’antipatia verso chi è (e che è sempre stato) primo della classe in molti campi? Vattelappesca, tuttavia non meravigliamoci per corruzione e disordini in fatto di sport. Noi non abbiamo inventato niente e sotto il cielo non c’è nulla di nuovo; basti pensare che nella Bisanzio di Giustiniano, nel 532 d.C., in seguito a disordini scoppiati all’ippodromo per una corsa di carri, intervenne l’esercito e ci furono 30 mila morti. Al confronto, le attuali risse da stadio e i “casini” di Moggi non sono niente, anche se ovviamente restano cose da combattere e debellare!


Cazzola e tutto lo staff debbono lavorare sodo per cancellare questo vergognoso comportamento riservato al Bologna e, badate bene, il mio non è vittimismo a buon mercato: ci sono i fatti che lo dimostrano. La squadra è stata ingiustamente sbattuta anni fa in serie B, ciò che non sarebbe mai accaduto a “certe altre” squadre.
Gazzoni è certamente una brava persona, ma assunse alcuni atteggiamenti, anche giusti, i quali però non hanno fatto che peggiorare la situazione: mi riferisco a ciò che disse sulle tasse non pagate, specialmente dalla Roma, nel periodo in cui la società capitolina doveva essere acquistata dai Russi, i quali ritirarono l’offerta. Ma, attenzione, credo che abbiano ritirato l’offerta per le esose richieste finanziarie della Roma, non per le parole di Gazzoni, tuttavia, in quell’occasione, incredibilmente, Giorgio Tosatti (pace all’anima sua) ebbe il coraggio di dire che “la Roma avrebbe dovuto chiedere i danni al Bologna!”. Una roba da matti: fare gli offesi perché si accusa di non pagare le tasse quelli… che non le pagano!
Comunque sia, consiglio i dirigenti rossoblù, d’ora in avanti, di badare in casa loro e di adoprarsi per ridare al Bologna quell’immagine che ha avuto fino al 1940! Per attirare sul Bologna quelle simpatie che sono riservate a quasi tutte le squadre e squadrette delle serie A e B,senza tuttavia pretendere i favori riservati alle 4/5 grandi!
Il Bologna merita la serie A sia per il suo impianto sportivo, sia per la gente (molto competente e tranquilla) che manda allo Stadio, sia, soprattutto, per il fatto che è la ottava città d’Italia per numero di abitanti! Le altre sette che la precedono, hanno due squadre (Milano, Roma, Torino e Genova) o anche una sola (Napoli, Palermo e Firenze), ma tutte in serie A!
Non dimentichiamo neppure che la nostra Bologna, tanto amata (da noi) e tanto ignorata, se non osteggiata (dagli altri), è dunque tra le prime otto città d’Italia e che l’Italia è tra i primi otto Paesi più industrializzati e perciò più importanti del mondo!Perciò, quando parliamo della sua squadra, non stiamo parlando di niente!
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Paolo Canè

DAL BARBIR 6 (n. 141)

Un barbìr l'éra sàmper in pulèmica con un só cliànt viazadàur:

"Bàn, ló l'é stè a Parìg' e an é brìsa andè in vàtta à la Tàrr Eifèl?"
E po': "Bàn, l'é stè a Milàn e an à brìsa visitè al Duòmo?"
E ancàura: "Bàn, l'é stè a Viènna sànza visitèr al Pràter?"

Infén che un dé al cliànt, ormai stóff, a gli dìs:

"L'èter dé a sàn stè a Ràmma e a sàn stè arzvó dal Pèpa in fàurma privè!"
"A sé?" al dìs al barbìr curiàus "e alàura?"
"E alàura am sàn inznucè davànti a ló e ló al m'à méss una màn in tèsta e am à d'mandè: "Di' só, chi él ch'al cagnàz ch'at tàusa?".

PÌLADE (n. 140)

Int al cafà, Gisto l'incàntra Frédo ch'al spudèva e a gli d'mànda:

"Cus'èt fàt? Èt magnè quèl 'd catìv?"
"Mocché: a zughèva a biglièrd con Pìlade e ai ò méss una bòcia ch'l'éra impusébil d'andèri a cùl, alàura ai ò détt "Se t'riès in ch'al càulp qué, at plócch al cùl". O Dio, mé a sàn stè fórsi esagerè, però (e al cuntinuèva a spudèr)… però che zugadàur ch'l'é Pìlade!".

AT DÉGGH ED SÉ!

E’ una strana espressione che viene detta con un pizzico di rabbia, quando si vuole affermare qualcosa di certo, ma che da altri viene negato oppure quando ci si vuole lamentare energicamente per un certo accadimento. "Al m'à dè ló l'apuntamànt e pò al n'é brìsa v'gnó! At déggh ed sé!" (lui stesso mi ha dato appuntamento e poi non si è presentato! Ma, dico io!). Nella pronuncia la "s" diventa "c" e suona così: "at déggh ed cè!" e il bello di questo modo di dire, seppure in via di sparizione, è che la gente di scarsa cultura se lo porta anche in italiano: "Ti dico di sì!", esclamazione a cui noi non facciamo caso, ma che suona piuttosto inconsueta agli orecchi di un forestiero!
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Paolo Canè

CURIOSITÈ (n. 139)

Al maré al tàurna a cà e al dìs con só muiér:

"Al sèt? I m'àn détt che dàntr'a ch'al palàz qué ai é ón sàul ch'an é brìsa bàcch!"
"A sé? E chi él?".

AL MÈL ‘D PÀNZA (n. 138)

Una sgnàura la và dal dutàur:

"Sgnàur dutàur, ai ò sàmper un gràn mèl qué in fànd à la pànza".
"Ch'l'ans preócupa, l'é tott'ària: ch'la fàga dàu scuràzz e al pàsa incósa!"

La sgnàura l'ans fé pió vàdder e dàpp pió d'un àn al dutàur à l'incàntra par la strè con du ragazulén e a gli d'mànda:

"Chi du bì ragazulén lé éni su fiù?"
"Nà, egli én dàu scuràzz f'té à la marinaràtta!".

OTTURAZIONI

Come l'italiano ha diversi termini per definire una qualsiasi otturazione (chiudere, otturare, occludere, tappare, intasare, serrare e perfino zaffare), anche il bolognese prevede una certa varietà, ma si tratta di parole quasi del tutto diverse! Infatti di simile c'è solo asrèr o srèr (serrare) che è il solo verbo col significato di "chiudere" o "spegnere": srèr l'óss, srèr la bàcca, srèr al rubinàtt, srèr (smurzèr) la lùs ecc. anche se, per facilitare la lettura a prima vista, sarebbe meglio scrivere s'rèr. Direi che questo verbo, largamente in uso, sia quasi il solo che viene usato per ogni chiusura.Se invece passiamo all'idraulica (ma non solo all'idraulica) ci sono altri due curiosi modi per indicare tubi o condotti chiusi, in questo caso "otturati" o "intasati" e cioè stupèr e (a)munìr. Al tùb (al bùs) l'é stupè, al césso l'é amuné oppure muné.
Verbi che vengono talvolta simpaticamente tradotti in italo-bolognese "stopare" e "munire", ma che non hanno nulla a che vedere con i verbi italiani simili "stoppare" (che significa fermare, impedire) e munire (che significa attrezzare, dotare). "Non vedi che quel buco lì è stopato?", "Accidenti, il cesso è munito", sono espressioni che si sentono spesso dire scherzosamente (la seconda mica tanto scherzosamente!) e che farebbero ridere un forestiero o comunque lo lascerebbero perplesso, ma noi ci capiamo benissimo, proprio come per i più volte citati "rusco", "tiro", "ciapino", "spianare (un vestito)", ecc.: tutte parole nostre che tuttavia vengono sovente assimilate anche da forestieri che abitano a Bologna!
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Paolo Canè

MOCHÉ MOCHÉ, AN IÉ DÓBBI!

È l’espressione usata da chi nega una qualsiasi cosa nel modo più assoluto. A prima vista non si direbbe strana, poiché il moché (che potrei anche dividere in mó ché) ricalca l’italiano “macchè” e an ié dóbbi (che potrei anche scrivere an i é dóbbi) ha il significato dell’italiano “non c’è dubbio”. Eppure qualche differenza c’è!
Spesso il moché viene detto due, tre volte (moché, moché, moché) allo scopo di rendere ancora più forte la negazione e ricordo che mia nonna soleva abbreviare in ché, dicendolo almeno un paio di volte ché, ché, col significato di “no, no”, ma sono anni che non sento più questa espressione. È diventato raro anche mocchemài, altra negazione decisa che ha la caratteristica di venire pronunciata con due “c”, ciò che ne sottolinea l’enfasi.
Quanto alla locuzione an ié dóbbi, che spesso viene rafforzata come an ié mài dóbbi, essa presenta una sostanziale differenza con le varie forme italiane analoghe: “non c’è dubbio, non v’ha dubbio, senza dubbio, non c’è dubbio alcuno, ecc”. Infatti tutte queste forme italiane possono avere un valore sia positivo che negativo, mentre in bolognese ha solamente valore negativo. Quando si chiede a qualcuno: “I vèt té?” (tu ci vai?) e la risposta è semplicemente “An ié dóbbi”, significa che l’interlocutore non ci andrà affatto, mentre in italiano quelle sole parole non bastano, poiché potrebbero significare “no”, ma anche “si”. Se un bolognese vuole dire chiaramente che ci andrà, risponderà: “Ai vàgh sicùr!”. Potrebbe anche rispondere “Mó mé sé!” se andrà, oppure “Mó mé nà” se non andrà e qui si nota l’uso di questo strano, bolognesissimo . È diverso dalle forme omofone centro-meridionali dove “mo’” significa “ora, adesso”. Il nostro è sovente un “ma” che però non è particella dubitativa, come in italiano, ma esortazione rafforzativa. Mó sé, mó nà, mó dài, ecc. sono tutte forme rafforzative per un sì, per un no o per un’esortazione del tipo “orsù” (dài mò!),
É buffa, ancorché usatissima, l’espressione mó và bàn là, vén qué, un ossimoro sul quale i bolognesi stessi scherzano, poiché nello stesso momento in cui si esorta qualcuno ad andare “là”, lo si invita a venire “qui”! In realtà si tratta del suddetto “ma” esortativo, unito ad un secondo esortativo bàn (bene), parole che conferiscono alla frase un tono amichevole e bonario. Anche in italiano esistono forme del tipo “dimmi bene” dove si invita l’interlocutore non a dire in modo “corretto”, ma dove questo “bene” è un’esortazione simile al nostro bàn. Noi però diciamo anche il noto dì bàn só (famosa la frase: dì bàn só, fantèsma!) che spesso italianizziamo in “dimmi ben su”, forma che per un forestiero ha poco senso. Infatti sia bàn che sono due rafforzativi esortativi, il secondo dei quali potrebbe essere il fratellino bolognese del toscano “orsù”. Quando s’interpella qualcuno per un rimprovero o con intenzioni bellicose e non lo si vuole chiamare apposta per nome, lo si chiama così: dì só té (e in italo-bolognese: “dì su te”), la cui traduzione “nobile” potrebbe essere: “Dimmi tu, orsù!”, ma non avrebbe lo stesso valore semantico. Anzi, sarebbe un modo lezioso e cortese, mentre il nostro dì só té è il preludio di una…burrasca in arrivo!
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Paolo Canè

martedì 13 maggio 2008

LA D’MÀNDA (n. 137)

Un umarèl al fàirma una sgnàura e a gli dìs:

"Ch'la dégga só, sgnàura, lì l'èla la gnóca?"
"Mó vólel ch'i sèppen d'mànd da fèr quàssti?"
"Imsàmma, l'èla o nà?"
"Mó zért ch'a l'ò!"
"Alàura ch'la dégga bàn a só maré ed druvèr la só, invézi ed druvèr sàmper quàlla ed mi muiér!".

TAXI 2 (n. 136)

Un cuntadnót l'arìva a la staziàn ed Bulàggna e al ciàpa un tàxi. Al só paàis, tànt par tórel pr'al cùl, i avèven détt: "Stà bàn aténti parché a Bulàggna i tàxi i vàulen!" e ló l'avèva una gràn póra ed vulèr. Al salté in vàtta e al taxésta a gli d'mandé:

"Dùvv andàggna?"
"In via Marcóni".
"A che altàzza?"

Al cuntadnót ai mustré al póggn sàtta al gróggn e a gli gé: "Sènt, bèllo: s't'at lìv só da tèra ànch d'un méter at amàz!"

TAXI 1 (n. 135)

Un cuntadnót l'arìva a la staziàn ed Bulàggna e al ciàpa un tàxi. L'éra la prémma vólta e, dato che al tàxi l'éra un "Mercédes", al d'mandé al taxésta cus'l'éra ch'al bagài tànd in vàtta al cófen. Al taxésta ch'al capé l'antìfona, ai déss:
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"L'é al mirén d'la mi mitragliatrìz pàr fèr fóra i pedóni. Vàddel quàll là?" e al tira adós a un pedóne mó a l'ùltum mumànt al le schìva. Però, guardànd dal s'pcén, al vàdd che l'é là par tèra e al dìs: "E dìr che an l'ò mégga ciapè!" E al cuntadnót: "Sé, ló al l'à scaiè con la mitragliatrìz, mó mé a l'ò ciapè col spurtèl!"

PAROLE D’UNA VOLTA

Le scrivo man mano che mi vengono in mente, tanto per non dimenticarle. Qui si tratta di espressioni che usava mia nonna (classe 1882), ma che mio padre (classe 1913) non usa più o quasi più.
Crùver al nómm (coprire il nome) sembra una frase senza senso e invece si riferisce alla tradizione di dare al neonato il nome del nonno o di un altro parente. Una pratica da anni in disuso, che però è ancora abbastanza viva al Sud. Als ciàma Andrìcco, parché i àn cuért al nómm ed só nón (si chiama Enrico perché gli hanno imposto il nome del nonno). E se magari chiedevano: al só 'd lì? (il nonno materno?) nà, al só 'd ló (no, quello paterno)!
Bandéssel! (benedicilo!). Era la parola augurale che si diceva, specialmente ad un bambino, quando starnutiva. Oggi si dice… italianamente salute! (quando si dice!). Ma è curioso il motivo: nel Medioevo si credevano tante cose strane e una di quelle riguardava appunto lo starnuto. Si pensava che con esso l’individuo dovesse espellere dal corpo gli spiriti cattivi e perciò la gente diceva "Dio ti benedica!". Forma che è rimasta nel nostro dialetto fino a ieri (e teoricamente esiste ancora), a dimostrazione ulteriore di quanto i dialetti che pure sono tramandati a voce, siano molto più conservatori della lingua scritta!
L'à détt ch'al vén talé int égli ót (ha detto che verrà verso le otto): ecco, questa è un'espressione che ricordo di aver sentito dire parecchie volte da mia nonna, ma che oggi non sento più. Non so neppure come si scriva questo talé, né esattamente cosa significhi. Posso soltanto pensare che possa significare “tra lì”, cioè “circa” (ma ci credo poco!) e potrebbe essere parola esclusivamente dialettale, come anche la solita parola italiana antica che resiste in dialetto, ma che la lingua ha ormai dimenticato.
Dio 'l fàza ch'al stiupéss! (voglia Iddio che crepi!), questa frase, detta con una espressione di odio nel viso, era il massimo della maledizione. Di qui si possono notare alcune cose: la contrazione di al resa con 'l (come già abbiamo visto prima per 'd invece di ed) e il congiuntivo del verbo “fare” che mia nonna pronunciava fàga, come tutti, ma che, solo in quest'espressione, era fàza, probabilmente la forma del bolognese più antico, rimasta nelle frasi fatte e oggi usata solo per dire "faccia, viso". Del resto anche al Sud frasi come "mannaggia" o "mannaia" significano "male ne abbia", con quel congiuntivo che però i meridionali, nel parlare, dimenticano spesso, mentre noi, che lo abbiamo ben vivo nei nostri dialetti, lo sbagliamo più raramente.
Par 'dlà da qui 'd zà ch'an i'é inción! (per di là da quelli di qua che non c'è nessuno!) era una buffa espressione di rabbia, ma con tono scherzoso. Sicuramente una mascheratura di un'esclamazione vietata dai Comandamenti, del tipo par D… con immediata "frenata" e deviazione su altra frase! Così come sórbla (sorbole) per chi ha già… in canna il noto scibboleth bolognese. Così come in italiano, a seconda delle zone, esistono le esclamazioni "cribbio" (per Cri…), "fischi" (per fi…), "cavolo" (per ca…) e in bolognese i vari bòia ed dìcoli, zìo prìt, bòia d'la mastèla, và a fèr del puntùr e piacevolezze analoghe che nascondono ben di peggio. Anche l’ormai estinto "poffarbacco" significava "può far Bacco" (cioè Dio).
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Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 8)

Quel burlone inveterato di Olindo Guerrini (alias Lorenzo Stecchetti, alias Argia Sbolenfi) volendo canzonare un suo dipendente, Alberto Bacchi della Lega, appassionato ornitologo, che si era assentato lasciando aperto sul tavolo un libro al capitolo Passer Italiae, si affrettò a scrivere:

Deh, l’ornitologo
Come un corbello
Scambia la passera
Per un uccello.

I nostri vecchi hanno convissuto per secoli con le pulci, le quali sono rimaste, per fortuna, solo nel nostro linguaggio figurato (la pulce nell’orecchio, ecc). Solo il fuoco le distruggeva, perciò si diceva:

S’la s’amàza, la sguàza;
s’la se squézza, la s’adrézza;
s’la s’anìga, la zìga,
s’la si tàca fùgh, l’à finé tótt i su zùgh!


E l’orco delle favole entrava in casa e diceva:

Uzz, uzz, uzz,
o che puzza di cristianùzz!
O ch’ai n’é o ch’ai n’é stè.
O ch’ai n’é di arpiatè.


A fronte di tanto esempio di “facoltà investigative” ecco un esempio di alta medicina: quando un bambino si faceva male, la mamma strofinava la ferita con la saliva e…

Medgén-na, medgén-na,
mérda ed galén-na,
mérda ed capàn,
guaréss dabàn.


Una cantilena declamata dai bambini nel gioco della “cavallina” (cavalchén-na):

E la buona insalatina, e l’è fresca e tenerina,
e l’è buona da mangiare e la voglio comperare;
comperare mezzo etto, ce lo ficco e ce lo metto, ecc.

…mentre nelle giornate di pioggia:

Al pióv, al pióv, la gàta la fa l’óv,
al m’nén al zìga, la gàta las marìda,
al prìt al fà i turtì e la gàta l’ai pórta vì.
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Paolo Canè

lunedì 5 maggio 2008

SÈT E MÈZ (n. 134)

Ón ch'al n'in p'sèva pió, al curé al césso mó al le truvé ocupè. Al sinté una vàus ed dànter ch'là gèva: "Chèrta" e ló l'insfilzé d'la chèrta sàtta l’óss. Dàpp un pó: "Chèrta" e ló l'insfilz d'l'ètra chèrta e al pinsé: "Ormài l'arà finé: an in pós pió!". E ch'l'èter: "Cherta" e ló ètra chèrta, infén che ch'l'èter al gé: "A rèst!". E ló als caghé adós!

AL PIÓ BÈL QUÈL DAL MÀND (n. 133)

Un pèder al d'mandé a só fiól:

"Piràtt, cus'él al pió bèl quèl dal mànd?"
"Caghèr!" l'arspundé al fiól.
"Carà'd'un imbezéll! T'an è própi capé gnìnta int la vétta!".

Un dé pèder e fiól i c'curèven insàmm, quànd al pèder al gé:

"Piràtt, 'spèta un mumànt ch'ai ò d'andèr al césso"
"Nà, Bàbbo, a vóii prémma finìr al mi c'càurs" e al le tratgné par la giàca.
"Piràtt, làsum andèr ch'am scàpa!"
"Aspèta ànch un póch ch'ai ò quèsi finé".

Fenalmànt al le làsa andèr e ló al córr int al césso. D'ed fóra al fiól a gli dìs:

"Bàbbo, cus'él al pió bèl quèl dal mànd?"
"Caghèr!" la fó l’arspósta!

I LÈDER ED FRUTA (n. 132)

Trì amìgh tótti el nót i vàn a frùta da un cuntadén, mó una nót al cuntadén ai fé la pòsta e ai ciapé tótt trì. Con la dupiàtta in màn a gli gé:

"Adès av fàgh mé un bèl schérz: tótt quàll ch'avì rubè av l'avì da métter só pr'al cùl!"

Al taché al prémm, ch'l'avèva rubè del z'rìs e l'ai andé abastànza bàn. Al secànd, ch'l'avèva rubè del mugnègh, al taché a rédder e al cuntadén a gli d'mandé:

"Cus'èt da rédder? Pàr té al sarà pió difézil"
"An rédd brìsa par mé: a rédd par lulà ch'l'à rubé di m'lón!"

LA DEZISIÀN (n. 131)

Al maré con la muiér: "Ai ò dezìs che al prémm ed nuèter dù ch'al mór, mé a vàgh a stèr in campàgna!".

AL SUSPÈT (n. 130)

Un furastìr l'arìva tótt sudè int al bar d'un pàais: "Un cògnac". Al le mànda zà d'un fiè: "Un’èter". Al le bàvv e al d'mànda al barésta:

"Avìv di gàt grànd e nìgher in ch'al pàais qué?"
"Zért"
"Éni grànd ch'mé un'òmen?"
"Nà, i én dimóndi pió cén, parché?"
"Parché alàura a cràdd d'avàir méss sàtta dù prìt!".

COSA

Sono molte le sfumature del termine "cosa" in italiano, ma forse sono ancor di più in bolognese. In italiano abbiamo il generico "cosa" (un oggetto), ma abbiamo anche il "coso", per oggetto o persona del quale non ricordiamo il nome, e anche "cosare", nel linguaggio parlato popolare, per un verbo che non ricordiamo o che non vogliamo dire. E poi "cosetta", "cosina", "cosaccia" e via…"coseggiando"! In tutti i casi, però, la "cosa" e i suoi affini, maschili o femminili che siano, sono sempre scritti con la lettera "o". Non così nel nostro dialetto, nel quale convivono diverse forme; "cós da màt", (cose da matti), "ai suzéd dél fàti cós" (accadono strane cose), "una cósa impusébbil" (una cosa impossibile), "ai ò vésst Cós" (ho visto Coso), ecc. (da non confondere con l'identico "cós" = cosce, al singolare "cósa" = coscia, che però viene sempre pronunciato con la "s" aspra). Il bello è che in tutti gli altri casi, soprattutto nei diminutivi e nella forma interrogativa, la "o" diventa "u": "cuslén-na", "cuslén" (cosina, cosino), "cus'él" oppure "cùss'él" (che cos'è?), "cùssa dìt?" oppure "cùsa dìt?" oppure ancora in forma accorciata "ch'sa dìt?" (cosa dici?), "at al déggh mé cùss l'é!" (te lo dico io cos'è!), tutte varianti che vengono pronunciate, a seconda dei parlanti, sia con la "s" aspra che con quella dolce, ma sempre e soltanto con la "u". Quanto alla "h" della forma "ch'sa", è un mio arbitrio che uso per indurre il lettore a pronunciare la "c" dura, ma è un sistema che forse sarebbe tutto da discutere e rivedere, perciò ne parlerò in altra sede! A proposito di forme abbreviate, nel dialetto parlato ne abbiamo una…abbreviatissima: " 's'at in fèt?" (che te ne fai?), dove il "cùssa" o "cùsa" diventa addirittura solo "s"! Il corrispondente dell'italiano "coso", oltre che con "cós", viene reso spesso anche con "ch'tè" (col probabile significato di "tale"), da cui anche il verbo "ch'talèr", parole generiche che possono significare di tutto e che sono ancora usate dai più anziani, ma quasi per nulla dai più giovani.
Mentre è ancora ben viva un'altra variante: "quèl". "Un quèl dl'èter mànnd" (cosa dell'altro mondo), "dàm bàn quèl" (dammi qualcosa), "và a fèr quèl'èter" (vai a quel paese), forma che però ha tutta un'altra origine etimologica. Questo "quèl", che ho sempre udito solo al maschile e mai al femminile, ha un diminutivo che è "cuvlén" (qualcosina, poca cosa, quasi nulla). Parole che derivano dal basso latino "covelle" (derivato dal classico "quod velles"), usate, tra l'altro, dal Boccaccio ("non c'è covelle" = c'è poco, non c'è nulla) e che si presentano in forme analoghe anche in altri dialetti ed altre lingue neolatine. Parole che usiamo anche scherzosamente nel nostro italo-bolognese ("mó che brutto quàle", "dammene bén un covlìno"), parole che tuttavia presentano un'anomalia grafica: "cuvlén" si scrive giustamente con la "c" (vista la sua forma nell'italiano medievale), mentre "quèl" si scrive normalmente con la "q", forse perché ricalca l'originario latino "quod" o forse per la sua somiglianza con "quàll, quàlla, quì e quàlli" (quello, quella, quelli, quelle) che però sono…tutto un altro paio di maniche!
Curiose e tipicamente bolognesi sono alcune espressioni con "quèl" che vengono spesso dette anche nel comico italo-bolognese: "al pèr un quèl 'd catìv" (detto di persona brutta), "am pèr un pió fàt quèl…" (mi sembra una cosa così strana…), "strà un quèl e ch'l'èter" (tra una cosa e l'altra), ecc.
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Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 7)

Altre poesiole satiriche, di stampo politico, circolavano a quei tempi. Eccone due:

Voialtri preti e frati
che gete* mal di Pio,
vi scannerem, per Dio,
gridando libertà.
*: forma popolare di “dicete” o traduzione del bolognese “dite” (gì).

Napoleon fa l'oste,
Vitóri al camarìr
e la regén-na d’Italia
la lavarà i bichìr!


Un'altra vecchia cantilena che si recitava ai piccini:

Cilubén pasèva al fiómm
e só mèder ai fèva lómm
mó la lómm la s’é smurzè
Cilubén al s’é andghè.

(A. Menarini, Tizio, Caio e San Petronio,1968)

Óca badàssa potrebbe derivare da un’antica cantilena infantile, ma è spesso usato per definire un tronfio donnone:

Gallo castello
Gallina costantina
Óca badàssa
Anàdra cuntàssa

Gatto graffioso
Bue cornoso.

Come scrisse Benedetto Marcello nel suo "Teatro alla moda" (1720), che consigliava alla "virtuosa" di frenare gli ardori del proprio protettore verso le altre attricette:


A nev' cuntinta d'una ch'a j avì tutt'l'impegn',
ch'a vlì far al Muscon e al Sparaguai con tutti?


dove evidentemente "sparaguai" significava "donnaiolo, cicisbeo", così uno stralcio da un sonetto scritto da un ferrarese, in occasione del Corso Mascherato di Via Santo Stefano del 1710, e riferito a certa signora Gamberini:


Fa tanto la braghiera,
ha in sterzo quel Zavaglio
ch'è un suo sparaguaglio discassato.

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Paolo Canè