lunedì 19 maggio 2008

MOCHÉ MOCHÉ, AN IÉ DÓBBI!

È l’espressione usata da chi nega una qualsiasi cosa nel modo più assoluto. A prima vista non si direbbe strana, poiché il moché (che potrei anche dividere in mó ché) ricalca l’italiano “macchè” e an ié dóbbi (che potrei anche scrivere an i é dóbbi) ha il significato dell’italiano “non c’è dubbio”. Eppure qualche differenza c’è!
Spesso il moché viene detto due, tre volte (moché, moché, moché) allo scopo di rendere ancora più forte la negazione e ricordo che mia nonna soleva abbreviare in ché, dicendolo almeno un paio di volte ché, ché, col significato di “no, no”, ma sono anni che non sento più questa espressione. È diventato raro anche mocchemài, altra negazione decisa che ha la caratteristica di venire pronunciata con due “c”, ciò che ne sottolinea l’enfasi.
Quanto alla locuzione an ié dóbbi, che spesso viene rafforzata come an ié mài dóbbi, essa presenta una sostanziale differenza con le varie forme italiane analoghe: “non c’è dubbio, non v’ha dubbio, senza dubbio, non c’è dubbio alcuno, ecc”. Infatti tutte queste forme italiane possono avere un valore sia positivo che negativo, mentre in bolognese ha solamente valore negativo. Quando si chiede a qualcuno: “I vèt té?” (tu ci vai?) e la risposta è semplicemente “An ié dóbbi”, significa che l’interlocutore non ci andrà affatto, mentre in italiano quelle sole parole non bastano, poiché potrebbero significare “no”, ma anche “si”. Se un bolognese vuole dire chiaramente che ci andrà, risponderà: “Ai vàgh sicùr!”. Potrebbe anche rispondere “Mó mé sé!” se andrà, oppure “Mó mé nà” se non andrà e qui si nota l’uso di questo strano, bolognesissimo . È diverso dalle forme omofone centro-meridionali dove “mo’” significa “ora, adesso”. Il nostro è sovente un “ma” che però non è particella dubitativa, come in italiano, ma esortazione rafforzativa. Mó sé, mó nà, mó dài, ecc. sono tutte forme rafforzative per un sì, per un no o per un’esortazione del tipo “orsù” (dài mò!),
É buffa, ancorché usatissima, l’espressione mó và bàn là, vén qué, un ossimoro sul quale i bolognesi stessi scherzano, poiché nello stesso momento in cui si esorta qualcuno ad andare “là”, lo si invita a venire “qui”! In realtà si tratta del suddetto “ma” esortativo, unito ad un secondo esortativo bàn (bene), parole che conferiscono alla frase un tono amichevole e bonario. Anche in italiano esistono forme del tipo “dimmi bene” dove si invita l’interlocutore non a dire in modo “corretto”, ma dove questo “bene” è un’esortazione simile al nostro bàn. Noi però diciamo anche il noto dì bàn só (famosa la frase: dì bàn só, fantèsma!) che spesso italianizziamo in “dimmi ben su”, forma che per un forestiero ha poco senso. Infatti sia bàn che sono due rafforzativi esortativi, il secondo dei quali potrebbe essere il fratellino bolognese del toscano “orsù”. Quando s’interpella qualcuno per un rimprovero o con intenzioni bellicose e non lo si vuole chiamare apposta per nome, lo si chiama così: dì só té (e in italo-bolognese: “dì su te”), la cui traduzione “nobile” potrebbe essere: “Dimmi tu, orsù!”, ma non avrebbe lo stesso valore semantico. Anzi, sarebbe un modo lezioso e cortese, mentre il nostro dì só té è il preludio di una…burrasca in arrivo!
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Paolo Canè

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