lunedì 5 maggio 2008

COSA

Sono molte le sfumature del termine "cosa" in italiano, ma forse sono ancor di più in bolognese. In italiano abbiamo il generico "cosa" (un oggetto), ma abbiamo anche il "coso", per oggetto o persona del quale non ricordiamo il nome, e anche "cosare", nel linguaggio parlato popolare, per un verbo che non ricordiamo o che non vogliamo dire. E poi "cosetta", "cosina", "cosaccia" e via…"coseggiando"! In tutti i casi, però, la "cosa" e i suoi affini, maschili o femminili che siano, sono sempre scritti con la lettera "o". Non così nel nostro dialetto, nel quale convivono diverse forme; "cós da màt", (cose da matti), "ai suzéd dél fàti cós" (accadono strane cose), "una cósa impusébbil" (una cosa impossibile), "ai ò vésst Cós" (ho visto Coso), ecc. (da non confondere con l'identico "cós" = cosce, al singolare "cósa" = coscia, che però viene sempre pronunciato con la "s" aspra). Il bello è che in tutti gli altri casi, soprattutto nei diminutivi e nella forma interrogativa, la "o" diventa "u": "cuslén-na", "cuslén" (cosina, cosino), "cus'él" oppure "cùss'él" (che cos'è?), "cùssa dìt?" oppure "cùsa dìt?" oppure ancora in forma accorciata "ch'sa dìt?" (cosa dici?), "at al déggh mé cùss l'é!" (te lo dico io cos'è!), tutte varianti che vengono pronunciate, a seconda dei parlanti, sia con la "s" aspra che con quella dolce, ma sempre e soltanto con la "u". Quanto alla "h" della forma "ch'sa", è un mio arbitrio che uso per indurre il lettore a pronunciare la "c" dura, ma è un sistema che forse sarebbe tutto da discutere e rivedere, perciò ne parlerò in altra sede! A proposito di forme abbreviate, nel dialetto parlato ne abbiamo una…abbreviatissima: " 's'at in fèt?" (che te ne fai?), dove il "cùssa" o "cùsa" diventa addirittura solo "s"! Il corrispondente dell'italiano "coso", oltre che con "cós", viene reso spesso anche con "ch'tè" (col probabile significato di "tale"), da cui anche il verbo "ch'talèr", parole generiche che possono significare di tutto e che sono ancora usate dai più anziani, ma quasi per nulla dai più giovani.
Mentre è ancora ben viva un'altra variante: "quèl". "Un quèl dl'èter mànnd" (cosa dell'altro mondo), "dàm bàn quèl" (dammi qualcosa), "và a fèr quèl'èter" (vai a quel paese), forma che però ha tutta un'altra origine etimologica. Questo "quèl", che ho sempre udito solo al maschile e mai al femminile, ha un diminutivo che è "cuvlén" (qualcosina, poca cosa, quasi nulla). Parole che derivano dal basso latino "covelle" (derivato dal classico "quod velles"), usate, tra l'altro, dal Boccaccio ("non c'è covelle" = c'è poco, non c'è nulla) e che si presentano in forme analoghe anche in altri dialetti ed altre lingue neolatine. Parole che usiamo anche scherzosamente nel nostro italo-bolognese ("mó che brutto quàle", "dammene bén un covlìno"), parole che tuttavia presentano un'anomalia grafica: "cuvlén" si scrive giustamente con la "c" (vista la sua forma nell'italiano medievale), mentre "quèl" si scrive normalmente con la "q", forse perché ricalca l'originario latino "quod" o forse per la sua somiglianza con "quàll, quàlla, quì e quàlli" (quello, quella, quelli, quelle) che però sono…tutto un altro paio di maniche!
Curiose e tipicamente bolognesi sono alcune espressioni con "quèl" che vengono spesso dette anche nel comico italo-bolognese: "al pèr un quèl 'd catìv" (detto di persona brutta), "am pèr un pió fàt quèl…" (mi sembra una cosa così strana…), "strà un quèl e ch'l'èter" (tra una cosa e l'altra), ecc.
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Paolo Canè

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