giovedì 23 aprile 2009

EUFEMISMI DEL DIALETTO

In verità il dialetto di eufemismi ne prevede pochi, perché normalmente è schietto e le cose non le manda a dire, ma in qualche caso esistono. Bestemmiare è la cosa più volgare e stupida che una persona possa fare: volgare, perché immediatamente denuncia il basso livello di educazione di chi lo fa; stupida, perché, dato che nessuno bestemmia su ciò in cui crede, è ancora più stupido farlo su ciò a cui non si crede! Eppure molti ancora lo fanno, anche se occorre dire che non si sente più bestemmiare così tanto come una volta, fortunatamente.
Un comandamento (il terzo, credo!) dice “Non nominare il nome di Dio invano”: è un comandamento inesistente tra i musulmani, che hanno sempre il nome di Allah sulle labbra, ben vivo tra gli ebrei, che lo rispettano tassativamente, ma molto facoltativo tra noi che, se non facciamo come i musulmani, poco ci manca! Proprio per non dover infrangere tale comandamento, in passato, sono stati escogitati diversi eufemismi, i quali sono entrati nell’uso comune. Abbiamo pertanto “bòia d’un dìs” (boia d’un dieci), “porco zio” (che se la prende col povero zio!), “boia ed dicoli” (parola dall’etimologia oscura) e anche il buffo “par d…là da qui ed zà ch’an i é inción!” (una frase che non ha nessun senso). Anche nell’italo-toscano (e chissà in quanti altri dialetti) esistono eufemismi analoghi: mi vengono in mente l’ormai obsoleto “perdindirindina”, il sempre più raro “perdinci”, il... classicheggiante “per Diana” e l’ancora vivissimo, anche in bolognese, “Dio bono”, esclamazione questa che ha perso molto della sua trivialità originale ed è diventata quasi una parola lecita, proprio come il nostro caro “sócc’mel”. È probabile che anche “bòia d’un dìèvel” (come il corrispondente italiano ”porco diavolo”), prima ancora d’essere indirizzato a Belzebù, sia nato come eufemismo. E credo analogamente anche la frase “povero diavolo” (“póver dièvel” e anche “diavlàz”), tanto che a Napoli dicono “povero Dio”.
Ma anche altre divinità non sfuggono alla “regola”: abbiamo “bòia d’la mastèla”, in qualche modo parente del simpatico toscano “maremma maiala”, dell’usato “per la malora”, e anche il diffuso, anche se un po’ nebuloso, “Madóna d’un Dio” che si usa soprattutto in caso di grande stupore.
In lingua non viene risparmiato nemmeno il terzo componente della Famiglia, con le esclamazioni eufemistiche del tipo “cribbio” o “Cristoforo Colombo”, ciò che in bolognese, per quanto ne so, non si verifica.
Quanto alle parolacce, tutte in qualche modo inerenti a pratiche sessuali, la lingua ne è ricca: “cavolo”, ”caspita”, “fischi!” e anche i vari dialetti non scherzano. Il dialetto bolognese, a parte qualche “sorbole” o “sóccia” o “sóccia l’óv”, per mitigare il nostro noto “scibboleth” e qualche “mó che dàu scàtel“ (simile all’italiano “rompiscatole”), per non dire di quando si manda qualcuno “a fèr del puntùr” (a fare delle iniezioni!) o quando si tira in ballo il rosmarino con…l’usmarén, come ho detto, si preferisce dire le cose in modo chiaro, sia per meglio sfogare gli accessi di rabbia o di stupore o di altro, sia per fare in modo che l’interlocutore non fraintenda e capisca bene!
Ho elencato le espressioni che mi sono venute in mente in questo momento, ma sia in lingua che, soprattutto, in dialetto, sono di più, perciò tornerò sull’argomento.
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Paolo Canè

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