martedì 18 settembre 2007

DIALETTO - LINGUA - DIALETTO

Allo scopo di sgombrare il campo da possibili equivoci, vorrei precisare che il mio interessamento al dialetto non è un desiderio (utopistico peraltro) di voler ripristinare il dialetto a danno della lingua, ma un tentativo, forse altrettanto utopistico, se non di conservarlo, quanto meno di fissarne il ricordo (ho già fatto la metafora… archeologica!), ma in aggiunta alla lingua che è indispensabile e che è elemento fondamentale della nostra unità nazionale. Ho in antipatia certi atteggiamenti della Lega Nord, la quale vuole ripristinare un dialetto, ormai quasi scomparso da decenni, e istituire addirittura una segnaletica stradale bilingue: sono tutti elementi che contengono un'idea separatista, la quale non mi troverà mai d'accordo! Ciò che ho sempre sostenuto è che la cultura, per essere tale, non deve mai essere improntata alla sostituzione, ma all'aggiunta di nuove conoscenze alle vecchie e ciò vale anche per il dialetto. Il titolo di questo capitolo non significa che "in principio era" il dialetto, poi arrivò la lingua ed ora occorre ritornare al dialetto (come pare vogliano insinuare certi figli di Padania!), ma che, nella misura in cui è possibile, occorre conservarli entrambi e, in ogni caso, con tutto l'affetto che ciascuno di noi può avere per il proprio dialetto, la lingua deve mantenere un ruolo centrale!

In altre parole, come già ho detto di rifiutare l'idea di visitare il dialetto come animale raro dello zoo o di farne sfoggio, con termini ormai superati e dimenticati, per sottolineare un'appartenenza, spesso solo desiderata, rifiuto anche quest'anacronistica tendenza separatista che segnerebbe, in questo senso, un passo indietro nella storia anziché in avanti. Il dialetto noi non dobbiamo né guardarlo come bestia rara, né sfoggiarlo come "status symbol", né impugnarlo come arma: dobbiamo solo studiarlo, capirlo ed amarlo: lui non chiede di più e noi non possiamo pretendere diversamente!E' una parlata destinata inevitabilmente a sparire e perciò dobbiamo solo assistere la sua dignitosa e serena agonia, senza volerlo tirare su a forza e farlo sembrare vivo e pimpante! Menarini (ma lo disse 40 anni fa) era pure di questo parere, però non vedeva la cosa in termini particolarmente tragici, poiché intravedeva elementi nuovi che sorgevano, dopo il tramonto di quelli vecchi. Io non voglio certo contraddire un Maestro di questo calibro, ma sono più pessimista, in quanto ho vissuto questi 40 anni ed ho visto che in pochissimo tempo le cose sono cambiate molto più che in passato. Credo che per molto tempo rimarranno certi termini (storpiati e modificati) e una certa cadenza che è conseguenza di un passato dialetto, ma dialetto non è più. Resteranno caratteristiche fonetiche che sono le prime ad essere assunte e le ultime ad andarsene, come del resto è sempre accaduto nel corso della Storia, ma il dialetto se ne andrà e in tempi molto più brevi di quanto lo stesso Menarini paventasse. Ciò non per una pessimistica previsione o per vaga sensazione, ma per intimo convincimento, basato sui dati seguenti: io non so quanto possa valere la mia personale esperienza e quanto la storia della mia famiglia possa identificarsi con la storia di tutte le altre, ma io mi trovo in posizione centrale rispetto a 5 generazioni in oltre 100 anni, nel senso che ne ho due dietro (mia nonna e mio padre) ed altre due davanti (mia figlia e mia nipote). Vediamo quale ruolo ha avuto il dialetto per queste persone, in questo lasso di tempo, con la convinzione che questo esempio possa rappresentare la situazione generale, anche se nella mia famiglia è intervenuto qualche elemento forestiero (la madre di mia figlia ed il suo secondo marito), il quale non ha contribuito ovviamente alla trasmissione del dialetto, del resto credo che in ogni famiglia sia intervenuto qualche elemento "estraneo", perciò la mia famiglia potrebbe a maggior ragione rappresentare tutte le altre!Mia nonna Ada, nata nel 1882, da poverissima famiglia della periferia di Bologna, frequentò la prima elementare solo per pochi mesi e perciò sapeva a malapena leggere, scrivere e parlare l'italiano. La sua lingua vera (e quasi unica) era il dialetto, che, come ho già detto, pronunciava in modo pressoché identico a me, ma con parecchi termini che io ormai non uso più. Essa viveva nel suo ristretto mondo e non s'interessava del resto: chiunque fosse nato sotto Firenze era spregiativamente un "napoletàn" o "ón d'la Bàsa Italia", chiunque fosse nato da Bergamo in su era "un furastìr ch'al fèva blich-blach ch'ans capèva gnìnta!". Perciò direi dialetto al 95%, lasciando un 5% d'italiano per comunicare con i rari forestieri o con noi nipoti, perché sapeva di dover parlare italiano, ma… sarebbe stato meglio che non lo avesse fatto! Mio padre Giovanni, nato nel 1913 ed oggi novantenne, parla dialetto ed italiano, ma col dialetto si destreggia meglio.

Credo sia arrivato alla settima (l'attuale seconda media) poi per necessità andò a lavorare. Nella sua vita di soldato (due volte dislocato in Sicilia) e d'imprenditore, è venuto a contatto con tutte le genti d'Italia e d'Europa e, grazie ad una certa abilità ad imparare i suoni, ha sempre masticato un po' di tutto, oltre al fatto che in principio degli anni '50 seguì per breve tempo un corso d'inglese presso la Berlitz School. Nonostante tutto io stesso, quando ho voluto rapportarmi a lui in modo chiaro ed inequivocabile, ho sempre dovuto usare il dialetto ed è da lui che ho imparato la maggior parte dei termini che conosco, oltre che il "gianguel" ed altri gerghi bolognesi. Io sono nato nel 1939, ho frequentato le scuole fino al diploma dell'Istituto Tecnico, ho forse ereditato da mio padre l'orecchio per le lingue (e per la musica!), ho studiato inglese e francese a scuola e tedesco dopo la scuola. Faccio parte di una generazione il cui 50% (me compreso) è… bilingue ed il resto parla italiano e capisce, bene o male, il dialetto, ma non lo parla. Mi sono sempre interessato di lingue, anche di quelle che non so, e di dialetti, ma la mia lingua più immediata, più vera è e resta l'italiano. Mia figlia Silvia, nata nel 1963, ha studiato fino all'Università, senza però completare gli studi e, pur essendo figlia di madre tedesca ed ora coniugata con un piemontese, non parla dialetto, ma lo capisce in buona parte, anche perché, come me, parla diverse lingue e perciò ha buon orecchio. Ma tra le lingue che parla, il bolognese è quello che sa di meno: in lei persistono le ultime tracce di un idioma che peraltro non sente come suo, ma come di suo padre o di suo nonno. Certo che la lunga vita dei nonni contribuisce a portare avanti un dialetto più di quanto le nuove generazioni non lo abbiano assimilato. Mia nipote Margherita, nata nel 1990, conclude questa mia analisi di un secolo ed oltre. Frequenta ora le scuole medie, ma è destinata a proseguire ben oltre. Già studia due lingue a scuola e comincia a capire anche il tedesco, grazie alle frequentazioni di famiglia. Ascolta canzoni americane, gioca col "computer", parla tassativamente italiano e i suoi genitori si rivolgono a lei solo ed esclusivamente in italiano, come del resto facciamo noi nonni con lei. Per Margherita il bolognese…non esiste e mi chiedo: i suoi figli che nasceranno verso il 2015 cosa sapranno del mio dialetto? Per questi nuovi bolognesi ci sarà solo l'italiano e, nella migliore delle ipotesi, l'inglese, ma il dialetto lo sentiranno solo usare dagli ultimi nonni ancora viventi e lo considereranno alla stregua di una lingua straniera. Tra di essi vi sarà qualcuno che se ne interesserà e lo studierà, come oggi c'è ancora qualcuno che s'interessa di etrusco, di greco antico o di latino. Ci saranno strati sociali che lo porteranno un po' più avanti, come altri strati lo hanno eliminato già da tempo, ma sparirà e resterà solo il ricordo, oltre alla strana pronuncia di chi è nato tra Savena e Reno!
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Paolo Canè

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