giovedì 27 settembre 2007

MOGLI E PECORE...

Così come si dice per i buoi, si sarebbe forse detto anche per le pecore, soltanto che per esse si fosse trovata una rima! Credo infatti che del proprio “paese” debbano essere solo le mogli (ed io lo sostengo!), mentre gli animali possono anche venire da un qualsiasi altro luogo! Anche le pecore hanno avuto molta importanza per l’Uomo, non per il lavoro, ma per via della lana, del latte, della carne e delle pelli e, come i buoi, sono moltissimi i riferimenti nelle parole e nei proverbi che le riguardano.
“Pecora” è il plurale latino di “pecus”, radice madre di molte parole italiane: pecunia (denaro), pecorino (formaggio), pecoreccio (volgare), pecorone (persona da poco che segue il branco), peculato (furto di denaro pubblico), peculiare (particolare), ecc. ecc.
Da “oves”, con lo stesso significato, deriva il nome degli ovini, oltre che l’ovazione (anticamente il sacrificio di pecore, oggi è un applauso unanime). Dal gregge deriva la parola “egregio” (“ex grege”, cioè fuori dal gregge) illustre e, anticamente, si faceva anche uso della “carta pecora”, materiale per scrivere da essa derivato. Questi ed altri i riferimenti “ovini” nella nostra lingua.
Il dialetto bolognese non è così dotto: la maggior parte delle parole suddette infatti non esistono. Esiste “pìgra” e per “ovino” si dice “ed pìgra”, mentre per “gregge” si usa semplicemente il plurale “el pìguer”! Esiste naturalmente “l’agnèl” e anche “al brécch” che sarebbe l’ariete, ma non mi viene in mente nessun altro termine. Anzi, dirò che questo animale apparentemente non riscuote molte simpatie a Bologna, non come il bue o almeno non a parole. Nei fatti credo che i bolognesi abbiano sempre apprezzato la lana, il latte, il formaggio e perfino la carne, poiché proprio alle porte di Bologna, sulla direttrice della Via Emilia che porta verso Castel San Pietro, comincia la zona del “castrato”, carne di pecora dal particolare sapore che a me non piace, ma di cui molti bolognesi sono golosi. A parte ciò, i proverbi che mi vengono in mente non sono certo a favore degli ovini. “Dóna mègra, pìgra e óca, ànch st’in tróv, pórt’n a cà póca” a dimostrazione che ai nostri vecchi non piacevano né le donne magre, né la carne di pecora, né quella d’oca, poiché invitavano, anche se gratuita, a portarne a casa poca! “Col mèl d’l’agnèl, ai cràss la pànza e ai càla l’usèl” e, anche in questo caso, l’agnello è ricordato per sottolineare un evento abbastanza triste, a meno che tutti questi riferimenti ovini non siano determinati dalla rima!
Curiosa è l’espressione “Se t’riès, a màgn un brécch col córen!”. Si potrebbe pensare che l’esclamazione “Mangio un bricco” si riferisca al bricco, magari del vino, sul genere dell’anglosassone “Mi mangio il cappello”. ma quell’aggiunta “col córen” denuncia che l’eventuale “bricco-stoviglia” è stato, quanto meno, incrociato col “bricco-animale” che, anche in italiano,significa montone-caprone (ma anche asinello dal latino “burricum”, parola che ha lasciato traccia in Sardegna e in Spagna). “Brécch” è l’unica parola bolognese per il maschio della pecora (o della capra), poiché non esistono parole per “ariete” e “montone”. Esiste “caprone”, almeno nella frase “A vàgh a tusèr al cavràn” quando ci si va a far tagliare i capelli. È probabile infine che, nell’antico dialetto esistesse anche una parola per “becco”, col medesimo significato, almeno a giudicare dal “b’chèr” (macellaio) e dal riferimento alle corna dei mariti, cosa, peraltro, che è comune a tutta Italia!
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Paolo Canè

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