martedì 6 gennaio 2009

LA FLÈVIA E ALTRE STORIE

La filastrocca (zirudèla) più famosa, più conosciuta (almeno in parte) dai bolognesi e forse anche la più bella, è quella scritta quasi certamente dal concittadino giornalista e scrittore Cesare Pezzoli, il cui titolo è “Al fatàz di Zardén Margarétta”, ma più nota come “La Flèvia”. La scrisse nel 1924, prendendo spunto da un fatto di cronaca, e per anni essa ha circolato in città, in forma semi clandestina, sia oralmente che trascritta (e storpiata) su foglietti volanti. Non è certo una lettura per educande, anzi è molto triviale, ma rispecchia perfettamente il frasario usato dal popolino e, con gli anni, ha perduto in volgarità ed acquistato in…nobiltà! Tant’è vero che, intorno al 1990, Menarini (figlio) e Guccini pubblicarono un libro che conteneva, oltre a varie notizie storiche, atti processuali, ecc., una stesura riveduta e corretta, dedotta dalle tante versioni circolanti, che probabilmente è molto vicina a quella originale ormai perduta.
Gli autori del libro hanno in seguito rinnegato il lavoro, ma io convocai un gruppo di amici nel 2004 per festeggiare l’80° anniversario dell’evento e nell’occasione distribuii una versione dialettale ancora migliorata (almeno nelle intenzioni) e corredata da una traduzione rimata in italiano. Il tutto recitato pubblicamente, dopo avere invitato ad uscire dalla sala coloro che non se la sentivano di ascoltarla!
Non voglio riportarla in questa sede, presumendo che ognuno sappia di che cosa si tratti, ma non posso fare a meno di notare come, dopo ben 83 anni, il suo linguaggio (discutibile finché si vuole) sia rimasto straordinariamente simile a quello attuale! Eppure scrittori coevi ed altri posteriori hanno usato un linguaggio antico e in buona parte ormai superato, a parte ovviamente la grafia che è certamente cambiata: specie dopo l’opera di Menarini (quello vero!), presumo che Pezzoli abbia adottato quella in uso allora. Rileggendo “La Flèvia”, sono pochi i termini obsoleti. Vediamone alcuni.
Sono decine i sinonimi usati per descrivere organi e pratiche relativi al sesso: Pezzoli ne ha usati molti e molti sono ancora vivi oggi, ma credo che “La Flèvia” abbia, in un certo senso, fatto scuola, poiché alcuni di essi, poco usati in seguito, non fanno parte dei dizionari più datati, ma vengono citati in quelli più moderni, o comunque in quelli che hanno creduto bene di riportarli, in omaggio alla famosa “zirudèla”.
Si tratta di “bistichén” per definire una bella ragazza, di “zibóri” (termine leggermente blasfemo) e “pustràn” per definire il “didietro” (specialmente femminile) e “arblàn” per una nota parte anatomica maschile. Quanto ad altri termini, qui usati con un significato ben definito, sono tuttora validi (anche se piuttosto obsoleti) in fatto di foruncoli: “v’gnìr a có”, cioè venire a suppurazione e “fèr matéria”, cioè produrre pus.
Sempre sullo stesso tema, c’è “vóiia ed lumèga”, espressione ancora abbastanza viva (ma in modo scherzoso) per indicare chi non è particolarmente ben dotato! E sempre a proposito di lumache, aggiungo io che sono ancora in voga altri due detti: “ans pól brìsa fèr nóz con del lumègh” (non si fanno grandi cose con poco a disposizione) e “và par la tó lumèga” (va’ per i fatti tuoi), difficile da spiegare, anche se lumèga era la “faccia”! Da notare l’uso dei verbi “t’rèr” e “t’gnìr”. Il primo ancora usato nei casi come “l’ai t’ré un’ucè” (gli diede un’occhiata) o anche “t’rèr fóra” (vomitare), ma per il resto si usa comunemente “tirèr”. Il secondo è modo antico di dire: “am téggn fèr” (mi debbo fare), che oggi si rende con “am ò(am sàn)da fèr”, “ai ò bisàggn ed fèr”, ecc. Altri termini come “inspirtè” (spiritato) e “infiasàn” (gonfiore) sono teoricamente ancora validi, poiché non ne esistono altri (a parte il diffuso “gunfiàur”), ma non si sentono quasi più, se non da parte dei…soliti noti!
A proposito di costoro, la “zirudèla” contiene altre parole ormai scomparse, come “cuzidrèla” o “cunzedrèla” (culla, porte-enfant), “baióca” (antica moneta che si metteva sull’ombelico dei neonati) ed anche l’espressione “mód e manìra” che Pezzoli usa per motivi di metrica, ma che molti continuano ad ostentare, quando nel dialetto di oggi è inutile ripetizione, dato che o si dice “mód” o si dice “manìra”! Infine la bella espressione “póchi tàni” (poche chiacchiere), ancora vivissima nel detto “sànza stèr a fèr tànti tàni” (non dilungarsi in parole o smancerie), dove la parola “tàni” significa “litanie” ed è una delle tante parole che il popolino ha preso dal rito della Messa; il già citato “zibóri” (ciborio) e molte altre che non figurano nella “Flèvia”, ma che si sentono ancora in giro: “santavicéta” (da “santificetur”, la santarellina, finta innocente), “chirién” (da “kiryeleison)”, chi è vestito con abiti troppo stretti), “ciarghén” e “ciàrrga” (chierichetto e chierica, la prima parola indica chi veste in modo azzimato, la seconda è l’incipiente “pelata” dei calvi) ed altro. Il dialetto è ricchissimo di termini, in gran parte ironici, che i bolognesi usano per rendere il discorso più buffo o iperbolico, perché così è il loro (il nostro) carattere. Si tratta di sinonimi, di similitudini e di esagerazioni che fanno parte dell’essere bolognesi. L’importante è che tali termini (insieme ad altre espressioni antiche) non vengano usati troppo spesso, altrimenti finiscono per diventare stucchevoli. Alcuni di questi termini sono conosciuti un po’ da tutti, altri sono vere e proprie invenzioni di singoli individui, usate da pochi o in ambienti molto ristretti. C’è tuttavia chi ne fa un uso esagerato: un esempio per tutti è il vecchio “siché dànca” (sicché, dunque) che già mio nonno non usava più, in quanto, da allora, si è sempre detto o “siché” o “dànca”! Frasi che ai più, specie ai giovani, si dovrebbero spiegare, dunque che gusto c’è a dire cose che gli altri, in buona parte, non capiscono?
Queste (ad altre) sono anticaglie che, chi vuol bene a Bologna e al suo dialetto, dovrebbe conoscere, ma dovrebbe usare raramente o mai, poiché in tal modo non solo si negherebbe la naturale evoluzione della nostra parlata, ma la si ridurrebbe al ruolo di “fenomeno da baraccone”, anziché a quello di mezzo di comunicazione.Tutto ciò lo avrebbe certamente condiviso Pezzoli, il quale non ha usato termini antichi, ma termini del suo tempo, che non è tanto lontano, poiché sono quasi tutti ancora validi oggi!
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Paolo Canè

3 commenti:

Unknown ha detto...

Ero arrivato su questo blog proprio sperando di trovare almeno un riassunto di quest'articolo.... Non so perchè l'autore dell'articolo dia per scontato che tutti quanti conoscano la storia....

Unknown ha detto...

Ero arrivato su questo blog proprio sperando di trovare almeno un riassunto di quest'articolo.... Non so perchè l'autore dell'articolo dia per scontato che tutti quanti conoscano la storia....

Unknown ha detto...

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