giovedì 14 maggio 2009

CURIOSITA’ CON LA “S”

Ho già avuto modo di osservare che almeno un terzo delle parole bolognesi cominciano per “s”, quella lettera così particolare, la cui pronuncia (insieme a quella della “z”) ci caratterizza così nettamente tra gli altri dialetti italiani. Tanto per restare in questo ambito, vediamo alcune curiosità:
sariól, sarebbe il siero del latte, ma credo che, volendo, la parola sarebbe utilizzabile per indicare qualsiasi altro tipo di siero, compreso quello della verità. Non so perché la parola in bolognese si presenti con una grafia così diversa dall’italiano “siero” ed anche dal latino “serum”, ma so che questa parola veniva usata, tra le tante, dai nostri vecchi per indicare il denaro: ai vól dal sariól (occorre denaro).
sagramèr, non esiste, per quanto ne so, una parola simile né in italiano, né in latino, ma esiste in bolognese (e forse anche in altri dialetti) dove fa parte del vocabolario dei muratori, col significato di “pareggiare una superficie” di muro o di pavimento. I muratori hanno (ma dovrei dire “avevano”, visto che ormai di muratori bolognesi non ne esistono quasi più!) diversi altri termini (molti dei quali con la “s”!), come:
sfratunèr, operazione eseguita con“al sfratàn”(frattazzo o spianatoio, o sparviere che serve per tenere la malta, simile al giornello) che consiste in una tavoletta con una impugnatura usata pure per levigare. Parola che viene usata anche in senso metaforico:”dèr una sfratunè” è espressione che ho sentito usare anche col significato di “consegnare un certo quantitativo di qualsiasi cosa con poca grazia” oppure “fare un certo discorso, senza badare a chi potrebbe restarne offeso”. Dei muratori anche:
stablìr e stablidùra, che non ha nulla a che vedere con l’italiano “stabilire”, poiché la prima parola significa “intonacare” e la seconda “intonaco”,… anche se poi, scherzosamente, noi diciamo “stabilire” per “intonacare”! Sono curiose queste parole che, così diverse dall’italo-toscano, fanno parte del gergo di muratori, contadini, meccanici, ecc. Del resto è tutto comprensibile, poiché tutti questi mestieri esistono dappertutto da sempre, praticati da persone che non sono certo intellettuali e perciò è naturale che ogni dialetto abbia le sue varianti.
S’zlè, da non confondere con zlè, perché sono due parole diverse, infatti zlè (che peraltro sarebbe meglio scrivere z’lè!) significa letteralmente “gelato”. Da non confondere solo in quanto a pronuncia, perché c’è soltanto una piccola, impercettibile differenza che forse noi stessi non capiremmo, se non facessimo attenzione al senso del discorso. Zlè non è solo il gelato che si mangia, ma si riferisce anche ad ogni cosa ghiacciata o molto fredda: le mani o i piedi, il ghiaccio invernale, l’acqua, i surgelati, ecc. La “s” iniziale di s’zlè è una delle tante “s” privative che, poste davanti ad una parola o un verbo, significano il suo contrario. In questo caso s’z’lè (difficile da dire per noi, figuriamoci per un forestiero!) significa “scongelato”.Il bello è che nel nostro buffo italo-bolognese, moltissimi dicono “sgelato”, ma noi ci capiamo o stesso!squàs (che molti maldestri scrivono con due “s”) non ha nulla a che vedere con la parola italiana “squasso” (violenta agitazione), poiché significa “acquazzone estivo”. Una parola che ho già inserito tra quelle che stanno andando in disuso ed è peccato, perché, come l’italiano “scroscio”, è una bella parola onomatopeica che dà l’idea del rumore dell’acqua e che ci riempie la bocca con la nostra bellissima “s”!
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Paolo Canè

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