lunedì 14 aprile 2008

LA CARÈ

È la carreggiata, parola questa ancora molto usata per indicare ciò che sarebbe più giusto chiamare "corsia" sulle moderne strade asfaltate. I carri infatti non ci sono più e la "carreggiata" non era una parte della sede stradale, ma il solco, anzi, i due solchi lasciati sulle strade in terra battuta, fangose col brutto tempo, dai carri che passavano.
In dialetto infatti ha mantenuto l'antico significato, poiché il bolognese moderno preferisce chiamare "corsì", sia la corsia stradale che quella d'ospedale, mentre la "carè" (o "carzè" che è forse termine più antico) è inequivocabilmente quella antica, quella che in lingua si chiama più propriamente "carrareccia". Nessuno si sognerebbe mai di chiamare "carè" né la corsia stradale, né tantomeno quella degli ospedali!
Per inciso, "carè" significa anche "carati", l'unità di valore o titolo dell'oro, mentre stranamente il cognome Carati, abbastanza noto in città, si dice "Carèti"! Ma torniamo alla nostra "carè" con una storiella che non c'entra nulla col dialetto, ma c'entra con l'immagine della nostra vecchia città e della campagna intorno. Si tratta di un mio ricordo scolastico, precisamente della terza media ed è una favola, un racconto di Victor Hugo, magistralmente tradotto in italiano da Giovanni Pascoli. Il titolo è "Una favola…umana" e racconta di un povero rospo, calpestato da un uomo, al quale una donna aveva infilato l'ombrello in un occhio mentre alcuni ragazzi lo stavano molestando con l'intenzione, alla fine, di schiacciarlo con un masso. Il rospo si rifugiò in una delle due profonde carreggiate fangose della strada e i ragazzi, vedendo che stava arrivando un carro, preferirono che fosse questo a schiacciarlo. L'animale che trainava il carro era altrettanto disgraziato del rospo: un magro somaro, lacero, affaticato e bastonato che arrancava in salita, ma, alla vista del rospo, con uno sforzo incredibile, spostò le ruote dalla carreggiata e lo scansò. Storia commovente, tipica dello stile di Hugo, tipica della mentalità romantica ottocentesca, ma che racchiude una morale sempre attuale e un severo giudizio sulla crudeltà umana.
Mio padre, quando cammina col passo particolarmente incerto ed ondeggiante, comprensibile per la sua tarda età, esclama: "Óu, incù a fàgh dàu carè" (Oggi faccio due carreggiate), immagine perfetta che porta alla mente un carro che tanto sbanda a destra e sinistra da imprimere nel fango due solchi per ruota, anziché uno soltanto! In dialetto, come anche in lingua, sopravvivono i modi di dire "uscire o stare in carreggiata" in senso figurato e "Stà bàn in carè!" è un monito ancora molto vivo.
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Paolo Canè

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