venerdì 15 giugno 2007

Proverbio n. 19

Al mèl d’la cagarèla an vèl t’gnìr strécch al cùl.
Alle necessità non c’è facile rimedio.

Bologna FC, Virtus o Fortitudo... (...purché sia Bologna!)

Per un vecchio tifoso del Gira (fin da quando andavo, ancor bambino, in Sala Borsa) non c’è una grande differenza tra Virtus e Fortitudo e perciò non posso condividere quell’astio stracittadino che c’è tra le due tifoserie e che, peraltro, c’è in ogni luogo, in ogni sport tra due squadre della stessa città.Allora, come oggi, Bologna (Virtus e Gira) e Milano (Borletti) si contendevano il titolo italiano e credo che questa sia la cosa importante. Per me sia Virtus che Fortitudo rappresentano Bologna (anche se in fondo al cuore une leggera preferenza c’è, come c’era allora!) ed è importante che, se non entrambe, almeno una delle due faccia un buon campionato e vada in finale: l’anno scorso una e quest’anno l’altra. Poi, che lo scudetto si vinca o meno, non deve essere una questione di esagerato tripudio o di…tentato suicidio: l’anno scorso non si vinse, quest’anno difficilmente si vincerà, contro la “corazzata” Siena, ma almeno ci abbiamo provato e la mia, la nostra Bologna si è dimostrata ai vertici italiani di questo sport!Tuttavia non sono così felice, come Martini, di vantarmi del titolo di “Basket City” e ciò per due motivi:

1) perché abbiamo una bellissima lingua e un dialetto ancora più bello, perciò non vedo perché dobbiamo andare a tirare fuori l’inglese!
2) perché i successi della pallacanestro non bastano a consolarmi per la miseria nella quale si dibatte il Bologna F.C.!

Si, lo so: i nostri giovani sono appassionati alla pallacanestro, in città abbiamo squadre di pallavolo, pallamano, baseball, football americano, rugby e quant’altro, ma è il calcio che piace a me! Questo benedetto calcio, travagliato da scandali e da violenze, che ha fatto allontanare molti (giovani e meno giovani) dallo Stadio, ma che è ancora così radicato nei cuori di molti tifosi.E’ giusto, per l’amor di Dio, che i giovani si dedichino anche ad altri sport, ma vorrei vedere anche qualche risultato. Vorrei vedere qualcuno che riesca in quel bellissimo sport che è l’atletica leggera. Vorrei che le comete del tipo Alberto Tomba non fossero così rare, né completamente spontanee, senza nessuna organizzazione preparatoria alle spalle. Vorrei che tra i milioni d’italiani che frequentano i campi da tennis, ne uscisse ogni tanto qualcuno che potesse gareggiare ai vertici mondiali, come succede a piccole Nazioni come Svizzera o Cechia. Invece abbiamo dei grandi “fenomeni” a 16 anni i quali a 20 hanno già smesso la racchetta!Ma è sempre il calcio che mi manca: questo bellissimo sport di squadra, nel quale il Bologna ha ricoperto ruoli d’eccellenza in passato. Vorrei poter gioire ancora, come feci nel 1964 per l’ultimo scudetto, ma anche solo per una squadra competitiva.Ogni sport è bello, ma nel calcio siamo qualcuno nel mondo, infatti ogni vent’anni circa ci capita di vincere un titolo mondiale!Nel basket, nella pallavolo, nel baseball, nel rugby, ecc….nemmeno una volta ogni 100 anni!
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Paolo Canè

giovedì 14 giugno 2007

INVIDIA (n. 12)

Int un césso póbblich ai éra ón che l'éra stéttich cómme una préda e ch'al zarchèva ed caghèr, mó an i riusèva brìsa. Da un èter césso lé atàis al sinté fèr: "Pluff!" e al déss:
"Beèt té!" E l'arspósta la fó:
"Un azidànt ch'at véggna: am é caschè l'arlóii!"

LA MOTOZICLATTA (n. 11)

Un ragazèl al s'éra cumprè una motoziclàtta nóva e al carghé int al sidélli de drì un só amìgh par fèri vaddér la velozitè e la frenè fenomenèl.
"La vàddet ch'la chèrta là par tèra? Guèrda mò!"
Al partéss ed gràn vulè e al fa una gràn frenè, própi a dù zentémeter da la chèrta.
"Al vàddet adès ch'l'àlber?" - "No, no, và piàn ch'ai ò póra!" ai dìs l'amìgh.
"Mó ché póra, stà da vàdder!"
Una gran vulè e una gran frenè a dàu dìda da l'àlber.
"La vàddet adès ch'la cà là in fànd?" - "Par l'amàur d'Idìo, brìsa ch'am vén mèl!"
"Tén’t atàch!"
Un'ètra gràn vulè al als fàirma a dìs zentémeter da la cà!
"Alàura cus'in dìt?"
"A déggh che t'è da turnèr là da la chèrta!"

UN BROTT CAGNAZ (n. 9)

Un umarèl l'andèva in gìro con un càn, brótt ch'al fèva schìv, quànd l'incuntré un sgnàuri ch'l'avèva al guinzài un mastén e a gli gé:
"Ch'al téggna bàn luntàn al só càn, parché al mì l'é catìv".
"Vólel scarzèr? Al mi mastén l'à vént una gara ed lóta: al le pól lasèr andèr".
L'umarèl al dé la màlla al só càn, che int un mumànt al mazé al mastén.
Pió tèrd l'incuntré un èter sgnàuri ch'l'avèva al guinzài un alàn: stàssa stória e al cagnàz al mazé ànch l'alàn. Ón ch'l'avèva vésst incósa a gli d'mandé:
"Mó sócc'mel, ed che ràza él al só càn?"
"Sòia bàn mé: am l'à mandè mi fradèl da l'Africa ch'l'avèva tótt un pàil intàuran a la tèsta e mé a l'ò sàul fàt tusèr!"

Misteri delle antiche Mura

La recente lettura del bel libro “Storia illustrata di Bologna- Ed. Aiep 1987” a cura del prof. Walter Tega, mi ha indotto alle seguenti, ulteriori considerazioni sulle antiche mura di Bologna. Pubblicazioni come questa sono ovviamente più dettagliate, profonde ed esatte rispetto a quello che posso scrivere io, tuttavia il mio scopo resta sempre quello di parlare di ogni fatto con semplicità e brevità, ciò però che non mi impedisce di apportare qualche correzione, ove si renda necessaria. Avevo parlato delle “Quattro Croci” ambrosiane e delle tre cerchie di mura costruite nel Medio Evo. Ora, la terza ed ultima cerchia è facilmente individuabile, poiché corrisponde agli attuali viali di circonvallazione, tranne che dalle parti della Stazione, dove il viale non coincide esattamente con la cinta muraria. Anche la seconda cerchia dei “Torresotti” è individuabile, poiché, oltre al fatto che esistono ancora 4 porte, dalla pianta della città risulta ancora evidente il tracciato tondeggiante del fossato, occupato oggi da diverse strade, e quello fatto da me corrisponde quasi interamente a quello presentato dal Tega. La sola differenza sta nella via del Fossato che, secondo alcune fonti, seguiva le mura, mentre secondo il Tega esse passavano per la vicina Via Altaseta. Ma è cosa da poco. Il vero problema sta nell’individuare il percorso della prima cerchia, cioè quella di “selenite”, della quale si sa poco, sia sulla data di costruzione, sia per il fatto che diversi scavi recenti hanno modificato (e stanno modificando) le precedenti “certezze”! Innanzitutto occorre una precisazione: le “Quattro Croci” sono segnali e non mura, mentre quelle in selenite sono mura vere e proprie. I testi da me consultati in passato tendevano a fare confusione a questo proposito, poiché facevano coincidere le due cose. Il Tega invece separa le due cose, precisando che il tracciato delle mura coincideva solo in parte con la posizione delle Croci e indicando dei punti sensibilmente diversi da quelli riportati da altri e cioè: P.ta Castello, P.ta Ravegnana, Ponte di Fero e l’incrocio delle attuali vie Barberia e Collegio di Spagna. Il risultato è che, secondo quanto avevo letto io, le mura dovevano avere una forma più piccola e rettangolare, invece, secondo questi dati (certo più esatti), la forma è decisamente trapezoidale e notevolmente più grande! Il Tega inoltre fa una precisazione importante e cioè che due croci erano state poste sulla destra dell’Aposa, mentre le mura vennero edificate leggermente più in la, sulla sinistra del torrente, ciò che “sposterebbe” le successive Piazza di Porta Ravegnana e le Due Torri al di fuori delle mura stesse. Un altro motivo che avvalora questa tesi è l’ubicazione delle Quattro Porte, due delle quali, secondo la mia prima ipotesi, non coincidevano con le mura! Infatti: Porta Stiera si trovava nella zona dell’attuale via Ugo Bassi, vicina alla via Porta Castello, dove sarebbe stato poi edificato il Palazzo Imperiale e dove alcuni scavi alla Casa Conoscenti hanno mostrato recentemente gli avanzi di selenite. Porta Ravegnana, nella posizione omonima, dove si dipartono le tra grandi strade per Roma (Strada Maggiore), per Ravenna (Via S.Vitale) e per Firenze (Via S. Stefano). Porta Procola, più o meno all’incrocio delle attuali vie D’Azeglio e Carbonesi e, infine, Porta Piera nelle vicinanze dell’attuale Cattedrale di San Pietro, vicino alle vie Indipendenza e Altabella: così sì che le porte coinciderebbero col muro! Ma si spera che ulteriori scavi e studi possano fare maggior luce su questo…mistero!
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Paolo Canè

Proverbio n. 18

Al méii al métt al cùl in sgumbéii.
Una delle proprietà del miglio.

Proverbio n. 17

Al làuv an chèga agnì.
Chi è cattivo non può fare che cattiverie.

Proverbio n. 16

Al galavràn dagli èli d’ór als farmé in vàtta a una bèla mérda.
Bel giovanotto che si mette con una donna brutta.

Proverbio n. 15

Al gàl al cànta in vàtta a l’aldamèra.
Dicesi di chi è euforico benché in situazione disastrosa.

Proverbio n. 14

Al curàg’ al l’à int al cùl.
Dicesi di pusillanime.

Proverbio n. 13

Al bùs dal sèt g’gràzi.
Una definizione del sesso femmminile.

Proverbio n. 12

A la sìra tótt león e a la matén-na tótt quaión.
Facile restare alzati, meno facile svegliarsi presto.

Proverbio n. 11

Ai vìc’ i én brótt trì “C”: caschè, catàr e cagarèla.
Tre pericoli per le persone anziane.

AL GRANADEL (n. 8)

Dù cuntadén i andénn insàmm a la fìra e i vdénn int un bancàtt un afèri col màndgh ed làggn e con atàch una spézie ed spazulén tànd. Un cartlén al gèva: "Per il gabinetto".
Alàura ón al dìs: "Pruvàggna ch'la nuvitè lé?" "Sé" l'arspundé al só amìgh e i s'in cumprénn ón pr'an.
Dàpp soquànt dé is truvénn atàis al cunfén di du càmp è ón al gé:
"Di só, èt pruvé ch'al spazulén ch'avàn cumprè à la fìra? Cùm vèl?"
"Vùt própi ch'at dégga la veritè? Bàn, mé am truvèva méii con la chèrta!"

mercoledì 13 giugno 2007

IL DIALETTO CHE SE NE VA

La lingua italiana, che è strumento artificiale costruito sull'ossatura del dialetto toscano e che nel tempo ha avuto innumerevoli apporti da altri dialetti, da parte di altrettanti scrittori, è un idioma nato principalmente come lingua scritta circa 8 secoli fa e la tradizione ne individua, giustamente, il padre in Dante Alighieri. Una lingua dotta che ha sostituito il latino medievale di quel tempo, usata da scrittori e poeti, voluta come necessità di fare comunicare tra loro le genti italiche le quali parlavano decine di dialetti, dopo che il latino (proprio come il dialetto oggi!) stava scomparendo e sopravviveva, corrotto e diverso da quello classico, solo in ristretti ambienti intellettuali. C'era bisogno di una lingua nuova, non così complicata (ancorché perfetta!) come il latino e più simile ai dialetti parlati, perché si potessero intendere tra loro, ad esempio, i mercanti per le loro transazioni o i notai per mettere d'accordo i loro clienti nelle loro diatribe. Dante, insieme ad altri grandi scrittori e poeti contemporanei ed in buona parte conterranei, ne fissò le regole in modo che un’Italia, ancora ben lungi dall'essere unita, avesse quanto meno una lingua ufficiale, com’era già successo in quasi tutte le altre nazioni europee. Una lingua scritta, all’inizio, solo da pochi, poiché il popolo continuava a parlare il dialetto: se non poteva parlare latino, poiché in gran parte ignorante, per lo stesso motivo non poteva parlare italiano. Suppongo che l’italiano abbia cominciato, lentamente, ad affiancarsi ai vari dialetti in un lavoro che è durato secoli e che…sta ancora durando!

Il popolo analfabeta imparava il dialetto ad orecchio e pertanto non sapeva scriverlo, anche perché non aveva bisogno di scriverlo. Alcuni documenti attestano che altri, prima di Dante, hanno tentato di scriverlo, ma si trattava di casi sporadici, di autori non certo all'altezza dei grandi del due e trecento e di lingue volgari, le quali restavano comprensibili in un'area ben più ristretta rispetto a quell'Italia, ancora da venire, che si estendeva per tutto lo Stivale e che parlava dialetti diversi, ma pur sempre figli del latino. Dante stabilì che quello doveva essere l'italiano e mi piacerebbe sapere se egli stesso si sia reso conto di aver "inventato" una lingua che sarebbe durata per sempre! Com’è noto, altre Scuole precedettero quella toscana (quella siciliana e quella bolognese, le quali, per poco, non ebbero il sopravvento) a dimostrazione che una "lingua italica" non era soltanto un gioco, un’utopia o un esercizio intellettuale, ma una necessità sentita dalle Alpi al Mediterraneo. Il popolo dunque continuava col suo dialetto (e in qualche misura anche il popolo attuale, continua così dopo otto secoli!) e forse buona parte di esso, pur essendo contemporaneo di Dante, nemmeno conosceva né lui, né gli altri grandi del tempo. Sarebbe sciocco pensare che, dopo Dante, tutti gli italici improvvisamente si siano messi a parlare italiano! Ci sono voluti secoli, non solo, ma presumo che anche la nuova lingua sia stata appresa, poco e male, ad orecchio e perciò veniva parlata, ma non scritta da quella gente che in maggioranza era e restava analfabeta!

Le scuole aperte a tutti sarebbero arrivate molto più tardi. Così piemontesi e veneti, romani e napoletani, siciliani e sardi avrebbero continuato per secoli a parlare i loro diversissimi dialetti, anche se diversi lo erano soprattutto per ragioni fonetiche e meno per morfologia e sintassi.Anche i toscani continuarono a parlare quel dialetto (oggi chiamato, chissà perché, "vernacolo"!), il quale non doveva essere molto diverso da quello di oggi e dal quale, anno dopo anno, la nuova lingua italiana prendeva sempre più le distanze, fino a passare da una presunta identificazione, ad una semplice somiglianza. E' sbagliatissimo pensare ciò che troppi ancora oggi dicono con convinzione e cioè che il toscano sia la vera lingua italiana. Ancora più sbagliato è credere, come spesso si sente dire, che l'italiano più puro si parli a Siena! I toscani, ieri come oggi, parlano il dialetto toscano e…sarebbe bene che qualcuno li convincesse di ciò, visto che essi sono i soli italiani a non fare nessuno sforzo per parlare in lingua (come invece fanno gli altri 50 e passa milioni), poiché parlano lo stesso e identico idioma con tutti: in famiglia, sul lavoro, con gli altri italiani e perfino con gli stranieri! E il grande Manzoni (che in altra sede ho chiamato irrispettosamente "il lavandaio"!), secondo il mio modestissimo parere, anziché prendere a modello il toscano, poteva scegliere tra i grandi che lo avevano preceduto (Leopardi, Foscolo, ecc.) e, perché no, poteva prendere lo spunto dallo stesso italiano che si parlava in Lombardia, come si presume che parlassero Renzo e Lucia, quando non parlavano dialetto! In ogni caso anche "Don Alessandro" ha dato il suo importante contributo al consolidamento della nostra lingua: quella che oggi viene parlata in televisione (anche se non sempre!) e dagli attori di teatro, ma non certo quella parlata in riva all'Arno! Oggi l’italiano è una realtà sempre in movimento, come ogni cosa del resto, ma è una lingua ben definita le cui regole sono abbastanza precise, anche se non esatte come quelle del latino classico.

Una lingua che accoglie continuamente neologismi e parole d’origine straniera (come forse è sempre stato), ma le cui regole grammaticali e anche fonetiche, sempre che subiscano cambiamenti, li subiscono in tempi molto più lunghi. L’annosa diatriba tra linguisti (conservatori e progressisti, proprio come in politica!) continua e non avrà mai fine: per quel che può contare, il mio parere è che non è né possibile, né giusto imbalsamare la nostra lingua, ma nemmeno dobbiamo avere troppa fretta di cambiarla e di renderla simile…all’inglese! Occorre fare le cose con calma e con giudizio: ciò che ho letto di recente sulla ventilata introduzione della "k" nelle parole "che" e "chi" (gli orribili "ke" e "ki") solo perché i giovani "cellularedipendenti" così scrivono per praticità nei loro "messaggini", mi sembra un'enorme corbelleria! Tuttavia, visto le tante stupidaggini ed oscenità di successo, non mi stupirei che un giorno la Crusca accettasse questa proposta, la quale peraltro sarebbe un ritorno e non una completa novità ("sao ko kelle terre…"). Un’altra cosa che non ho mai capito è perché gli attori di teatro, gli annunciatori ed i messaggi pubblicitari dicano "zio" e "zucchero" usando la "z" aspra (cioè quella di "spazio") e non quella dolce (quella di "zappa") e mi risulta che in nessuna regione d'Italia, nemmeno in Toscana, si dica così! Misteri!

Questo è l'italiano: la lingua che ci ha permesso di capirci tra noi, di cementare la nostra Unità Nazionale ed il cui apprendimento ha fatto passi da gigante dal 1860 in poi, per via della massiccia scolarizzazione prima e dello sviluppo di tutti i mezzi di comunicazione del XX secolo poi: 150 anni che hanno significato per la lingua italiana molto di più degli oltre 6 secoli precedenti! Una lingua che in larghe fasce di popolazione ha preso il posto dei dialetti: sono sempre di più gli italiani che NON parlano e non capiscono più il dialetto, soprattutto perché non ne hanno più bisogno. La mia generazione ha subìto l'ostracismo al dialetto: i nostri genitori erano convinti che non si dovesse parlare dialetto, perché riduttivo, perché volgare e ce lo impedivano, a volte anche con la forza. Erano convinti che il dialetto fosse corruzione dell’italiano e non sapevano, per loro ignoranza, che l’italiano si era venuto a formare molto più tardi del dialetto. E' per ciò che una buona metà di noi non parla e non capisce (o capisce poco) il dialetto: l’altra metà, me compreso, ha dovuto impararlo se mai voleva comunicare coi nonni! I nostri figli non lo parlano mai e pochi lo capiscono. I nostri nipoti non lo parlano e non lo capiscono affatto! Nel giro di mezzo secolo il dialetto, almeno a Bologna e in tutto il Nord ad eccezione del Veneto, si è praticamente estinto. Negli ultimi 30 anni si sono avute molte pubblicazioni intese a rivalutare il dialetto come cultura da non disperdere; si rappresentano commedie dialettali, dove però gli attori, anche i meno giovani, lo parlano abbastanza male! Sono quasi tutti dilettanti, è vero, ma tale dilettantismo sarebbe anche accettabile, quanto a recitazione, ma come bolognesi il dialetto dovrebbero saperlo parlare!Si dice di voler salvare il dialetto, si scrivono trattati, si rappresentano commedie, ma si "dice" solo e non si "fa" nulla per salvarlo!

In questo modo il dialetto viene visto come un animale esotico in gabbia che si va a vedere per curiosità e non per altro. La gente sorride sorpresa a certe espressioni colorite (ciò che per essi è novità, per i parlanti è normalità) e tale sorpresa è indice di non conoscenza, infatti la gente legge, ascolta, sorride, ma NON usa! Il dialetto è considerato, dai miei coetanei e al massimo dai nostri figli, alla stregua di un fenomeno da baraccone (dai nostri nipoti nemmeno quello!) e non come una "cosa" da usare, come lo è per me, per mio padre e per tutti quegli anziani, finché vivranno, per i quali il dialetto è ancora la prima lingua, quella più vera, spontanea e connaturata, mentre è l'italiano, in un certo senso, ad essere ancora estraneo! In un mondo nel quale ormai tutti parlano italiano, nel quale la nuova Europa si sta chiedendo quale lingua adottare, nel quale l'inglese sta sempre più rubando linfa alle altre lingue, è difficile che i dialetti possano sopravvivere, se non come…reperti archeologici,antiche case che vengono restaurate e conservate, ma nelle quali nessuno si sognerebbe più di abitare! E saranno i nostri dialetti settentrionali (gallo-italici) a sparire per primi, poiché più diversi dalla lingua, poi toccherà anche agli altri. D'altronde è naturale che le lingue spariscano: chi parla più osco, etrusco o sannita? Teniamoci dunque il nostro caro bolognese. Amiamolo e curiamolo, come un vecchio parente o un caro vecchio cane che avrà ancora poco da vivere, ma che almeno passi serenamente gli ultimi anni.Anche per i dialetti vale la classica domanda che si fanno gli investigatori: cui prodest? “a chi serve” un dialetto, quando tutti parlano la lingua e tutti sono impegnati ad imparare l'inglese, il francese o il tedesco? E' giusto così, anche se dobbiamo purtroppo registrare che i nostri giovani non sanno il dialetto, ma stanno anche disimparando l’italiano! Ascoltano canzoni americane e non le capiscono, perché non sanno neppure l’inglese, benché lo studino a scuola!
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Paolo Canè

Proverbio n. 10

Ai tràmma al quaiarén (el stiàp).
Effetto della paura.

Proverbio n. 9

Ai rédd al cùl.
Espressione di gioia maligna.

Proverbio n. 8

Ai pózza la salùt.
Dicesi di imprevidente.

Proverbio n. 7

Ai piès pió l’óca drétta che l’anàdra zópa.
Una questione di gusti!