venerdì 12 ottobre 2007

EDUCAZIÀN 1 (n. 93)

Una cuntadnóta la spalànca l'óss dal ginecólogh e la dìs fórt: "Cus'òia da fèr pr'al scadàur à la fìga?".
Al dutàur l'arspànd: "Mó insàmma, sgnàura, éla quàssta la manìra ed c'càrrer? Adès lì la tàurna fóra, la bóssa e l'am d'mànda: "Dottore, avrei un prurito alla vagina. Èla capé?".
La cuntadnóta la tàurna fóra, la bóssa e la dìs: "Dottore, avrei un prurito alla…..cumm'èl pùr détt ch'l'as ciàma ed cugnómm la fìga?".

AL GÀT VIAZADÀUR (n. 92)

"Alàura it pò riusé a c'fèrten ed ch'al tó gàt?"
"Mocché, à l'ò purtè a 10 chilómeter da cà e l'é turnè; alàura a l'ò purtè infén a Módna e l'é turnè un'ètra vólta; a la fén a sàn andè infén a Frèra, in mèz a una nàbbia ch'l'as taìèva col falzàn e am sàn pérs! Óu, par furtón-na ch'ai éra al gàt, se nà an turnèva pió a cà!"

Proverbio n. 139

Fèr l'intarès ed Cazàtt.
Una speculazione da poco (distrusse la casa per ricavarne pietrisco!).

Proverbio n. 138

Fèr la pàira a quàich’dón.
Turlupinare qualcuno.

UN PATRIMONIO PERDUTO

Ho l'impressione, come accade spesso nella vita, che a volte si dicano certe cose, si facciano certe affermazioni con grande certezza, ma che… non si sappia esattamente di che cosa si stia parlando!
Prendiamo ad esempio, tra le tante, un'affermazione che si sente dire da tempo ed ovunque: "Il dialetto è un patrimonio che si sta perdendo e che invece occorre salvaguardare"! Lo stesso si dice, peraltro giustamente, di certi animali in via d'estinzione, della deforestazione del pianeta e d'altro, tuttavia è innegabile che i dialetti stiano scomparendo, così come certe razze di animali e diversi chilometri quadrati di foresta! Si ha l'impressione che nessuno faccia nulla, o comunque che non si faccia abbastanza, ma qui l'argomento è il dialetto e a quello mi attengo.
Esso pare un patrimonio solo oggi che sta morendo, mentre non molti anni fa era una cosa di cui quasi ci dovevamo vergognare, una lingua da evitare, una etichetta di ignoranza e di volgarità. Oggi tutti lo vogliono recuperare, ma pochi hanno gli strumenti per farlo: non basta parlarlo (male!), magari a sproposito, magari traducendo semplicemente in dialetto sulla bocca gli ordini che il cervello ci manda in italiano! Questo non è recuperare o parlare il dialetto, specialmente da parte di gente che prima mai o poco lo aveva parlato, questa è una sciocca ed inutile ostentazione di chi vuole far intendere di sapere ciò che non sa,è un'ulteriore offesa che gli viene recata.
In effetti, quello che "si sta perdendo" e che "dovremmo recuperare" non sono i vocaboli, bensì lo spirito petroniano: una cosa che abbiamo o che non abbiamo, e non si può "recuperare" ciò che non si è mai posseduto.
Lo spirito petroniano è tante cose, ma soprattutto quella serie di sfumature che hanno presumo tutti i dialetti, proprio perché solo parlati, mentre la lingua resta un mezzo per capirci che è sì nostro, ma che non sarà mai nostro come lo è il dialetto, almeno finché avrà vita, almeno per noi! Il dialetto, solo apparentemente rozzo, contiene in sé un'ironia, un'allegria ed una serie di sottili significati che sono usati e capiti solo da chi lo parla e anche da molto tempo. Un esempio? Ho già detto che i cognomi delle nostre parti hanno una traduzione in dialetto e perciò Baravelli, diffuso in città, si pronuncia "Baravèl", ma un mio parente con questo nome, mio padre (inesauribile fonte di cultura dialettale!) lo chiama "Baravèla" e questa "a" finale è un vezzeggiativo, è un sinonimo di simpatia che quel personaggio sprigionava. Stesse caratteristiche ha il diminutivo “Baravlén-na”!
Esiste una simile sfumatura in italiano?
Ecco, questo è ciò che veramente sta scomparendo e che non salveremo!

Paolo Canè

giovedì 11 ottobre 2007

LA SCUSA (n. 91)

Tótt i dé Pirén l'à una scùsa nóva pr'arivèr in ritèrd a scóla.

"Alàura Pirén che scùsa èt incù?"
"Sgnàura màstra, ai ò purtè la vàca al tòr".
"Bàn? An al p'sèva brìsa fèr tó pèder?"
"Sè, mó l'é dimóndi méii al tòr!"

I PIRENEI (n. 90)

"Bàbbo, dùvv'éni i Pirenei?"
"Sòia bàn mé: d'màndel a tó mèder ch'l'é lì ch'l'ardàppia sàmpr'incósa!"

Proverbio n. 137

Fèr l'amàur con la surèla d'la màn stànca.
Masturbarsi.

Proverbio n. 136

Fèr di sdùz.
Abortire.

IL DIALETTO BOLOGNESE

Per quante volte ho già parlato (e ancora parlerò!) di quest'argomento, per altrettante volte dovrei tacere e dovrei cancellare tutto quanto ho scritto! È il ricorrente, sconsolante pensiero che mi attanaglia, ogni volta che finisco di leggere o di rileggere uno dei testi (sebbene pochissimi) in mio possesso i quali appunto di quest'argomento trattano. Ciò che non finirà mai di stupirmi è il numero degli studiosi che hanno affrontato la materia (da Dante in poi fino al Devoto ed oltre) e che hanno pubblicato centinaia di testi, nei quali sembra che ormai tutto sia già stato trattato, sezionato, studiato e classificato, oltre al congruo numero di studiosi stranieri (soprattutto tedeschi) che sono stati maestri nello studio del…mio dialetto! E così, sempre, dopo aver letto ciò che altri, ben più autorevoli, hanno scritto, mi assalgono sensazioni d'impotenza e consapevolezza della mia ignoranza, tali che… quasi mi metterei a piangere! Eppure…eppure io leggo, rileggo, studio, mi angoscio, penso, deduco, "scopro"… e alla fine mi trovo sempre ed ostinatamente a scrivere! Perché? Per tre motivi principali:

a) perché mi piace, mi diverto e così trascorro quest'inutile tempo da pensionato, con la piacevole sensazione di occuparmi di qualcosa per cui valga la pena scrivere.
b) perché, tra i seppur pochi libri della mia biblioteca, ne ho alcuni scritti da persone come me (e a volte anche peggio di me, poiché hanno pubblicato lavori che sono stati copiati pari pari da quelli scritti dai "veri" studiosi) e penso che, se scrivono loro, posso scrivere anch'io!
c) perché ho la presunzione di scrivere in modo semplice e chiaro, tanto da fare capire alle persone semplici come me, in poche parole, ciò che questi studiosi scrivono in modo assai più preciso e dettagliato, usando termini dotti (con diverse citazioni in latino e greco) che conferiscono ai loro studi una veste ufficiale e professionale ed una profondità che si evidenzia anche a prima vista, ma che il lettore estemporaneo e non competente non solo non capisce, ma trova pedante e noiosa.

Più ci si addentra in una materia e più, non solo ci si sente ignoranti, ma sorgono dubbi anche su ciò che poco prima sembrava chiaro e semplice. Una modesta cultura non ha questi problemi: prendo ad esempio una persona che amo ed alla quale devo in gran parte la pratica dell'uso dialettale: mio padre. Egli è intimamente convinto di sapere tutto in fatto di dialetto, di parlare l'unico dialetto possibile e di conoscere ogni parola ed ogni espressione dialettale esistente! A volte mi trovo a discutere con lui su parole che hanno un ben preciso significato, citato da dizionari e da studiosi eminenti, e lui, convinto che tutti costoro si siano ingannati, continua a sostenere la sua tesi.
Alla fine lascio sempre perdere!
E le persone come lui sono tante, ma che dico, sono la maggioranza!

Non si può parlare d'un qualunque argomento senza prima avere assimilato ciò che altri hanno studiato, senza conoscere le molte altre materie che tale argomento hanno influenzato, condizionato e determinato. Così è anche e soprattutto per quanto riguarda il dialetto. Parlarlo, capirlo anche bene non è sufficiente: chi lo parla da sempre, poiché l'ha imparato ad orecchio, è praticamente un analfabeta! E' come parlare una lingua senza saperla scrivere, senza sapere nulla di storia, di geografia, di qualsiasi altra materia inerente: è come parlare al buio! Molti credono alle favole: credono che gli antichi parlassero latino, poi un bel giorno, chissà come e perché, si siano messi tutti a parlare italiano e che il dialetto sia, in qualche modo, una corruzione della lingua, senza minimamente pensare che tutto si è trasformato lentamente, che il dialetto è il risultato di tale trasformazione e che la lingua è invece una convenzione creata artificialmente e molto più tardi; senza pensare che tale processo è comune a tutti i luoghi d'Italia, d'Europa e del mondo; senza pensare che non esistono parole "misteriose" o "esclusive" di un dialetto, ma che ognuna di queste ha una ragione di essere e che molte sono imparentate tra di loro, anche se a prima vista non lo sembrano affatto; senza pensare che non esistono materie avulse da quella realtà che, invece, le trova tutte collegate tra di loro.

Lo studio del dialetto, come dell'onomastica, dell'etimologia e di qualsiasi altra materia che studi le cose di un passato che ci ha lasciato solo pochi e controversi documenti, è un campo estremamente difficile, nel quale occorre andare cauti, poiché, come tante volte ho detto, niente o molto poco è ciò che sembra a prima vista. E sono caduti in errore anche molti esimi studiosi (questo non lo dico io, ma certi loro colleghi che li hanno presi in castagna!), anche perché gli studi vanno sempre avanti e ogni nuovo apporto si aggiunge a quanto già enunciato, oltre al fatto che spesso lo corregge, quando addirittura non lo sovverte. Per questi motivi (e per altri) occorre sempre fare molta attenzione a ciò che si dice ed affrontare gli argomenti con umiltà e con serietà: io primo fra tutti! Fatto questo lungo preambolo (e non è certo la prima volta, ancorché ci sarebbe tanto altro da dire!), vediamo di fare ulteriore chiarezza: la lingua italiana è uguale da Merano a Pantelleria, si scrive nello stesso modo, ha le stesse regole e si pronuncia allo stesso modo, a parte gli accenti dovuti ai diversi retaggi dialettali locali. È, come ho detto, una convenzione nata alla fine del Medio Evo per motivi di necessità pratica, che si è sviluppata nei secoli con gli apporti di poeti e scrittori d'ogni parte d'Italia, che ha ormai le sue regole fissate e che tuttavia continua a svilupparsi lentamente. I dialetti restano unicamente parlati ed ogni tentativo di scriverli è arbitrario e comunque non ufficiale, anche se c'è stato qualcuno che ha messo a punto un metodo preciso e quasi perfetto, come Alberto Menarini fece per il bolognese. Anche in questo caso però si tratta di parere soggettivo che non è condiviso da tutti, sopra tutto per due motivi:

a) perché nessuno ha mai stabilito che il metodo Menarini sia quello giusto.
b) perché, essendo il dialetto solo parlato, paradossalmente non esiste più un dialetto bolognese! O meglio, esiste ed è quello che si parla a Bologna in centro ed in periferia, ma è zeppo di varianti, di ambiguità, di eccezioni interpretative ad una regola…che non c'è, in modo che ogni parlante è convinto che la propria pronuncia sia quella giusta!

Esistono invece i "gruppi dialettali" come li enuncia il Devoto e come, da Dante in poi, altri avevano già individuati. Nel nostro caso si parla di dialetti "emiliano-romagnoli" addirittura e noi tutti sappiamo bene che differenza passi tra il dialetto bolognese ed il romagnolo ed anche tra il bolognese ed il modenese, il ferrarese, il piacentino e così via! Questo gruppo fa parte degli idiomi "gallo-italici", distinzione ancora più larga che ci differenzia dalle regioni del Centro e del Sud, ma che comprende anche i dialetti piemontesi, lombardi e liguri. Dunque possiamo parlare solo in generale, partendo dal grande raggruppamento dei "gallo-italici" (così detti per l'influenza che ebbe la lunga dominazione gallica che andò circa dal V° al III° secolo a.C., influenza che dura tuttora), per limitarci poi al gruppo "emiliano-romagnolo" che è già ben definito e costituisce una base valida di studio. Difficile è restringere ancora il campo, poiché, se è vero che ogni città ha il suo dialetto, è anche vero che ogni paese ha il proprio e ci si perderebbe in un dedalo infinito d’idiomi, i quali, negli spazi ristretti, si mescolano e s'influenzano fino a diventare difficilmente distinguibili. E diciamo anche che ad aumentare questa "babele" contribuisce la diffusa immigrazione e la scarsa confidenza con parlate che stanno scomparendo.Un tempo lo stesso dialetto parlato entro le mura di Bologna conosceva diverse varianti a seconda dei quartieri (i borghi), tuttavia era abbastanza omogeneo, anche perché quasi tutti i parlanti erano nati in città e lo usavano al posto di un italiano che conoscevano poco o nulla.
Appena però ci s'inoltrava in campagna, in ogni direzione, si cominciavano ad evidenziare differenze a partire da centri distanti anche solo 7 Km. (ad esempio Castenaso), le quali aumentavano man mano che ci si allontanava dalla città. Oggi non è più la stessa cosa ed ogni dialetto ha perso le proprie caratteristiche per effetto dei tanti bolognesi che si sono trasferiti nei paesi circostanti e per i tanti "forestieri" che si sono stabiliti a Bologna.

Pertanto, a chi cerca di parlare e di scrivere il bolognese d'oggi, consiglio di dimenticare parole ed espressioni ormai obsolete che appartengono al passato, di evitare la grafia inesatta che pure è stata largamente usata da scrittori e poeti del passato (magari adottando quella "menariniana" che è molto più svelta e precisa), ma sopra tutto invito a parlare coloro che il dialetto lo hanno sempre parlato (non coloro che lo hanno "scoperto" di recente!) ed a scrivere coloro che hanno studiato i tanti testi in circolazione in modo da sapere ciò che scrivono! Ne uscirà un bolognese che non è più quello di un tempo, ma che è più o meno quello che si parla oggi.
È chiaro che se qualcuno avesse pensato a stabilire le regole fonetiche e grafiche del nostro dialetto, oggi accadrebbe ciò che è accaduto con la lingua e cioè che il "bolognese" sarebbe univoco ed immutabile per tutta la provincia di Bologna e tutti lo parlerebbero, salvo le diverse inflessioni locali! Ma chi ce lo fa fare? Chi vorrebbe costringere, ad esempio, gli argelatesi a dimenticare il loro dialetto ed a parlare il bolognese? Forse è bene che le cose restino come stanno: ogni paese parla il proprio dialetto, anche se le differenze rispetto al paese vicino sono minime, e parimenti in ogni paese si cercherà di scriverlo al meglio. L'importante è non fare delle confusioni tra tempi e luoghi diversi, l'importante è di non volere spacciare dei falsi e per intenderci tutti, anche con i più lontani forestieri, c'è sempre l'italiano, che proprio a questo scopo è nato! E poi a che servirebbe fissare regole fonetiche e grafiche proprio oggi che il dialetto sta sparendo? Sarebbe una pratica inutile, quasi inutile come quella di andare, a 70 anni, all'Università per Anziani: all'Università ci si sarebbe dovuto andare da giovani, quando gli studi avrebbero influenzato il resto della vita e magari anche la professione. A 70 anni si può ancora studiare per il proprio piacere, ma i titoli accademici lasciamoli perdere!
Dunque il dialetto non è corruzione dell'italiano, semmai lo è del latino! Il latino infatti è stata per secoli la lingua ufficiale, la lingua dotta e, in quanto tale, parlata e scritta da pochi, mentre il popolo la sapeva solo parlare e male. Le invasioni barbariche hanno fatto il resto ed è successo quello che sappiamo. Se oggi non ci fosse l'alto grado di scolarizzazione, se la gente fosse ancora ignorante e analfabeta, potremmo assistere alla … corruzione dell'italiano e torneremmo così ai dialetti! Ma non c'è pericolo.

Torniamo al gruppo "emiliano-romagnolo": che cosa unisce questi dialetti e li divide da quelli degli altri gruppi? E' un discorso lungo e difficile. Il grande linguista Giacomo Devoto (vedi "I dialetti delle regioni d'Italia" di Devoto e Giacomelli- Ed. Bompiani 1971) ne dà una spiegazione precisa, esauriente e…complicata, come è uso di tutti i linguisti.
Egli prende in considerazione ogni regione della Penisola e individua per ogni dialetto le caratteristiche che lo differenziano dagli altri, fissandone l'appartenenza al suo particolare gruppo. Ma tra le sue tante osservazioni interessanti, una in particolare è notevole e cioè che non sempre i gruppi corrispondono alle attuali Regioni politiche. Nel caso dei nostri dialetti l'area è molto più vasta della Regione: infatti comprende Pavia, Voghera e Mantova in Lombardia, esclude Piacenza, per arrivare fino a Carrara in Toscana e, sconfinando nelle Marche, raggiunge il fiume Esino a 12 Km. da Ancona! Ed è più o meno l'area che 2.500 anni fa fu occupata dai Galli Boi e da altre tribù, compresi i Galli Senoni (Senigallia). Questo spiega il perché da sempre il dialetto Mantovano è molto più simile al nostro del piacentino e quello di Pesaro e del Montefeltro è molto simile al romagnolo.

Osservazioni affascinanti del Devoto, col quale (mi si perdoni l'eresia!) non sono del tutto d'accordo su una: egli afferma che il termine "topo" (in bolognese "pàndg") è "un fatto isolato nell'ambito dei dialetti italiani" e che "probabilmente è d'origine bizantina". A me pare invece che derivi dal greco "póntikos" che a sua volta ha originato l'italiano "pantegana" (topo di fogna) e il termine dialettale "pantecana" che ha lo stesso significato nei dialetti meridionali, come il calabrese, nelle zone della Magna Grecia, e pertanto è un caso tutt'altro che isolato, ma… sicuramente ha ragione lui! Del resto è più probabile che i bolognesi abbiano preso questo termine dai bizantini, vista la vicinanza di Ravenna, dato che i bizantini parlavano greco! Lo ripeto: attenzione, cautela e rispetto, poiché quasi nulla, in fatto d’etimologia, è quello che sembra! Sono questi piccoli, ma significativi esempi, a dimostrare che il solo fatto di parlare un dialetto non significa conoscerlo. Ci sono dei motivi storici in seguito ai quali ci si spiegano "strane" parentele (l'influenza dei Galli) e ci sono motivi geografici i quali spiegano perché due Regioni come Toscana ed Emilia-Romagna parlino dialetti così diversi (l'asperità dell'Appennino) ed ancora altri motivi contingenti che rendono simili le parlate di zone lontane tra di loro, ma unite da millenni dalla Via Emilia che ha facilitato contatti, spostamenti ed invasioni. Storia e geografia ci spiegano perché i paesi del Centro-Sud si siano ritirati dalla costa (invasioni saracene), perché certi paesi montani mantengano particolari caratteristiche (isolamento e mancanza di strade), perché alcune città siano più ricche di monumenti d'altre (le Signorie, più o meno potenti). Insomma, per affrontare seriamente uno studio su qualsiasi cosa riguardi il passato, occorre sapere un po' di tutto e considerare un po' di tutto. Nulla nasce per caso e nulla è mai completamente isolato, anche perché, oltre alle tante cose che sono state scoperte e che sappiamo, ce ne sono altre non ancora scoperte (e che forse non scopriremo mai) le quali potrebbero darci ulteriori e preziose spiegazioni, rivoluzionando magari vecchie e solide teorie. Ci si potrebbe chiedere perché, nell'ambito dei dialetti gallo-italici, ci siano così sensibili differenze e i motivi potrebbero essere tanti. Innanzitutto è probabile che diverse tribù galliche parlassero diversi idiomi e poi ciò potrebbe dipendere sia da una differenziata penetrazione o periodo di permanenza dell'invasore su un dato territorio, sia da una diversa influenza su quel territorio del latino o di altre parlate preesistenti o successive.

I motivi possono essere tanti, certo che, in ambiti sociali ristretti, come tribù o piccoli villaggi, è probabile che la parlata di uno solo o di pochi individui abbia potuto influenzare l'ambiente: vi siete mai chiesti come mai la stragrande maggioranza degli abitanti delle province di Piacenza e Parma abbiano la "erre" moscia? Che il primo abitante di quelle zone avesse un difetto di pronuncia e che gli altri lo abbiano imitato è un'idea buffa, ma non da escludere!
La lingua italiana, come un fiume, nasce da una sorgente identificata nell’opera di Dante, che poi, con l'apporto di molti affluenti, s'ingrossa fino alla foce.
I dialetti, al contrario, sono innumerevoli pozzanghere che nascono spontanee ovunque, che possono essere talvolta comunicanti, ma che non vanno da nessuna parte, perché sono immobili, perché usati solo in loco e perché, non sapendo… scrivere, non hanno possibilità di ulteriori sviluppi!

Paolo Canè

mercoledì 10 ottobre 2007

AL VOCABOLÈRI (n. 89)

"Bàbbo, la màstra l'à détt che d'màn ai ò d'andèr a scóla col vocabolèri…"
"Mó gnànch pr'insónni! Té t'farè cumm'ai ò fat mé e cumm'l'à fàt tó nón: ti vè a pì!"

AL P’SCADÀUR ORIGINÈL (n. 88)

Ai é ón in mèz a un càmp con la càna da pàss. Un èter ch'al pàsa d'éd lé ai d'mànda:
"S'in ciàpel di péss?" e ló: "Nà!"
"E alàura ch'sa stèl a fèr lé int al càmp?"
"A stàgh d'astèr mi fradèl ch'am à da v'gnìr a tór con la bèrca!".

AI ZARDINÉTT (n. 87)

Un strazàn als métt a séder int'na panchén-na dùvv ai é una sgnàura tótta elegànta e al tìra fóra un pèz ed salamén: "Vól-la favurìr?", "Nà", la dìs lì quèsi ufàisa.
Dàpp al tìra fóra un fiascàtt ed vén: "Vól-la bàvver?" stàssa arspósta.
À la fén al tìta fóra un mèz tuscàn; "Vól-la fumèr?", "Mó nà!" e ló: "Ciavèr gnànch pr'insónni, vàira?".

LA BANDÌGA (n. 86)

I muradùr i én invidè a fèr una bandìga organizè da la muiér dal padràn, ch'l'é una cuntàssa. I én tótt intimidé da l'ambiànt, tànt che la sgnàura l'ai dìs: "Magnè pùr, l'é tótt grètis".
Dàpp un pó la tàurna a dìr: "B'vì pùr, fè pùr i vùster cómod, fè cànt d'èsr a cà, d'mandè quàll ch'a vlì".
Un manvalàtt als fa curàg' e al d-mànda: "Él pusébbil, sgnàura cuntàssa, ed fèr 'na ciavadén-na? Li la d'vànta séria e ló: "O, pagando, eh!"

AL CÀMP DI NUDÉSTA (n. 85)

Ai é ón ch'al và in férie e als fàirma int una beléssima spiàza, mó l'ónnich sìt ch'ai é l'é un càmp ed nudésta.
Al pànsa: "Impórta bàn a mé, tànt mé a sàn qué par fèr i bàgn!"
Al và dànter e al tól una stànzia. "Am archmànd ed lèzer pulìd tótti el régol e ed rispetèri, parché qué nuètr'à sàn dimóndi sevér!" a gli dìs l'impieghè (nùd anca ló). "Ch'ans preócupa, an vóii dèr fastìdi a inción" e al và int la stànzia. Là ai é un gràn cartèl con'na móccia ed régol scrétti: "Ai lizarò pò stasìra. Adès a córr int la spiàza!".

In st'mànter ch'al travérsa la pinéta, l'incàntra una mèder ch'la s'achén-na par tór in bràz al só ragazól e, davànti a ch'al spetàquel ed cùl, al drézza!
Àpriticielo: tótt i altoparlànt i tàch'n a fèr un gràn pulèr: "Attenzione! Infrazione ai regolamenti!".
Una bèla ragàza biànnda l'arìva, l'ai ciàpa in màn al só afèri e a gli fà una pugnàtta! "Mó che bèl", al dìs ló e al và drétt vérs la spiàza.
Dàpp un minùd ai é da saltèr un fusadén e int al fèrel ai scàpa una scuràzza. Un'èter gràn pulèr: "Attenzione! Infrazione ai regolamenti!".
Ai vén fóra un sturnèl d'un zuvnót ch'a gli càza int al cùl! Al tàurna int la só stànzia, al fà la valìs e l'impièghè a gli dìs:
"Mó cómm? L'é apànna arivè e al và vì sóbbit? Avàggna fàt quèl ed mèl!"
"Nà, nà, al và incósa bàn, sàul, vàddel, che mé am's drézza sè e nà dàu vólt à l'àn, mó ed scuràzz ai'n fàgh almànch trài al dé!"

LE "BALLE" DI BOLOGNA

Non si tratta di…attributi e nemmeno di cotone, ma di storie con tutta probabilità inventate, che, nella migliore delle ipotesi, chiamiamo "leggende" e nella peggiore "balle"! Agli uomini è sempre piaciuto inventare, specialmente ai tempi nei quali non c'era la scienza a spiegare ciò che essi non riuscivano a capire, non c'erano libri, cinema e televisione che raccontavano le storie e, per attirare l'attenzione degli amici intorno al fuoco d'inverno, s'inventavano fatti e personaggi, se non altro per abbellire quelli di una misera esistenza. A volte anche la Fede induceva ad inventare: infatti le cose che qui racconterò le ho divise in Balle Religiose e Balle Laiche. Comincio da queste ultime, non senza ricordare che notizie più precise e dettagliate in merito si possono leggere in quella moltitudine di libri che è da sempre in commercio. Molti autori (alcuni dei quali indicati nella bibliografia), tra i quali Alberto Menarini, raccontano in modo esauriente questi ed altri episodi di storia, usi e costumi, personaggi, curiosità, leggende e dialetto, perciò io sarò molto sintetico.
Tra i più famosi "bugiardi" bolognesi, meritano un posto in prima fila Fra' Leandro Alberti e Alessandro Machiavelli: a costoro evidentemente la realtà non bastava o non piaceva.Al primo hanno dedicato una strada, ma…le sparava grosse anche l'altro!

Balle laiche

BOLOGNA E BOLSENA: luoghi diversi e distanti eppure un po' "parenti"! Infatti, come Felsina(poi la Bononia gallo-latina) era certamente il centro dell'Etruria Padana, così Velzna (poi la Volsinii novi latina), secondo recenti studi pare fosse il centro, e non solo geografico, dell'Etruria Toscana. E penso: Velzna, Felsna, Felsina, che non ci sia un nesso tra due nomi così simili e forse originariamente uguali? Non sono affatto un etruscologo, ma mi piace crederlo. Eppure qualcuno si è inventato una improbabile famiglia reale etrusca con Fero, Felsina ed Aposa: padre, madre e figlia!
GALLIERA: una delle "balle" più incredibili riguarda l'origine del nome Galliera che qualcuno ha voluto trovare in "galli erant" (per via del fatto che "c'erano i Galli" Boi), mentre quasi certamente deriva il suo nome da Anna "Galeria" Faustina, moglie dell'imperatore Antonino Pio!

PRESEPE: ho sempre sentito dire che l'ha "inventato" San Francesco (il quale predicò a Bologna nel XIII sec. tra la commozione dei presenti) e spero che ci si riferisca alla rappresentazione della Natività con le statuine, perché un primo Presepe con bue, asinello e bambino si può ammirare al Museo Bizantino e Cristiano di Atene e risale al IV/V secolo, cioè ad almeno 800 anni prima!

FREGNACCE: giusto così si possono definire quelle raccontate da un certo Fregni, modenese (nome ad hoc) e riportate dal Menarini. Secondo lui l'Asinelli trarrebbe questo nome dal fatto che è "alta e snella" (A.SNE.) e così Modena, per il fatto che mura e Ghirlandina le conferivano l'aspetto di una nave, era fatta a "mo' de nave" (MO.DE.NA.). Menarini si chiede se fosse un gran fesso o un gran mattacchione che ci prende ancora in giro dopo due secoli!

AMORI CONTRASTATI: dell'immaginario collettivo popolare, evidentemente fa parte la storiella dei giovani innamorati, ma figli di famiglie rivali. Storie che sono molto tenere, ma che inevitabilmente finiscono nel sangue. La più popolare è quella di Giulietta e Romeo, non perché sia stata vera, ma perché la cantò Shakespeare. Ogni città, ogni paese ha la sua storia analoga. Bologna ne ha avute almeno due, la più nota delle quali riguarda Alberto Carbonesi di famiglia ghibellina e Virginia Galluzzi di famiglia guelfa. L’altra riguarda Imelda Lambertazzi e Bonifazio Geremei (una famiglia ghibellina, l’altra guelfa): solita storia, solito finale e… solita frottola!

LA GIOCONDA BOLOGNESE: si sa che nel 1515 Leonardo, al seguito di Leone X, fu ospite a Bologna dei ricchi banchieri Felicini, nel loro palazzo di Via Galliera.
In quei giorni essi ospitarono anche Filiberta di Savoia e i due si conobbero: si conobbero soltanto, poiché ben conosciamo i gusti sessuali di Leonardo e questa è forse la sola cosa certa! Ciò che invece è inverosimile, anche perché le date non combacerebbero, è che egli dipinse a Bologna la sua famosa "Gioconda" e che la modella fosse la stessa Fliberta!

FUGA PER LA VITTORIA: che non è un film, ma un fatto che mi riporta a Re Enzo, sul quale sono state dette montagne di frottole sia in Italia che in Germania, dove credevano che fosse legato da catene d'oro. Si disse che suo padre ne chiese "lungamente" la liberazione, offrendo un filo d'oro che abbracciava l'intera città, ma Federico morì meno di un anno dopo e forse non ebbe tanto tempo per simili offerte.
Si disse che dormiva in una gabbia (d'oro o di legno), si disse che una volta tentò la fuga dentro una brenta e che una popolana, vedendolo, gridò: "Scappa, scappa!" e così si meritò il cognome nobiliare di Scappi (…che esisteva già prima). Si disse che ebbe un rapporto ed un figlio con tale Lucia di Viadagola, alla quale il re-poeta sussurrava "Mia cara, ben ti voglio" e che perciò il figlio sarebbe stato il capostipite dei Bentivoglio, la famiglia signorile, un membro della quale però aveva partecipato alle Crociate…200 anni prima! Tutte queste balle per infiorare la realtà che era più normale: il principe era prigioniero, ma era attorniato da amici ed intellettuali italiani e tedeschi, scriveva e talvolta scendeva in piazza a parlare con la gente. Anche le armi d'oro (sparite!) con le quali sarebbe stato sepolto quasi certamente sono un balla!

UN BARBABLU' NOSTRANO: era un membro della famiglia Boccadiferro, nel cui castello di Serravalle si diceva vagassero di notte, non uno, ma la bellezza di dodici fantasmi! Sarebbero state le 12 mogli che egli avrebbe ucciso ad una ad una: una bella costanza, ma soprattutto, un bel traffico notturno!

FANTASIE DI LATINISTI: analogamente al caso di Galliera, qualcuno suppose che il nome di Via Saragozza, fosse la storpiatura di "Cesareaugusta", nome delle terme romane che erano da quelle parti. Altri dissero che la strada fu così chiamata in onore del cardinale di Albornoz, ritenuto nativo dell'omonima città spagnola: sarebbe anche plausibile, se non fossero attestati una "strata et burgus Saragocie" già nel XII sec.!

LE TRE FRECCE: tutti hanno creduto per anni che quelle conficcate sotto il portico ligneo di Casa Isolani in Strada Maggiore, fossero testimoni di chissà quale attentato o scaramuccia medievale, finché, nel corso di un restauro, si appurò che era uno scherzo degli studenti, quando la goliardia era ancora viva.

LEBBROSI E SIFILITICI: i primi erano obbligati a soggiornare nei lazzaretti (anche dietro pagamento di una diaria), i quali venivano costruiti a est della città (ad esempio San Lazzaro) poiché si credeva che il vento da ovest portasse via le epidemie e non sapevano che, come oggi, le epidemie… vengono tutte da est (Cina)! I secondi, frutto delle conquiste (si fa per dire) degli spagnoli in America, venivano curati, anzi "purgati" nell'ospedale di San Giobbe, da cui, pare, Via del Purgatorio.

LA TORRE ASINELLI: altro oggetto di un monte di frottole, come lo fu il povero Re Enzo. Chi parlò di file di asini o muli che portavano la selenite da Monte Donato. Chi parlò di un poveraccio che trovò un tesoro col quale fece costruire la torre per ottenere la mano della sua bella. Chi disse addirittura che essa spuntò dal suolo in una sola notte per opera del Demonio. Insomma, a nessuno venne in mente di pensare che una famiglia Asinelli (Pietro Asinelli si chiamava l'amico di re Enzo) l'avesse fatta costruire. C'è anche chi dice che fu la torre a dare il nome alla famiglia e non il contrario, ma noi, disincantati posteri, crediamo alla versione che una potente famiglia si fosse fatta costruire questo incredibile monumento che ci stupisce ancora.
Un'altra fonte racconta che la vicina Garisenda crollò perché quest'altra famiglia voleva che la sua torre si attorcigliasse a spirale intorno all'Asinelli. Anche in questo caso è documentata una famiglia Garisendi, ma non ci è dato di sapere se abbia preso o abbia dato il nome alla torre. È anche accertato un cedimento che ne provocò il crollo e la sospensione dei lavori, però questi nostri avi avevano una bella fantasia!

BALLE MODERNE: si racconta che l'8 giugno 1921, quando morì Augusto Righi, fu trovato un fitto documento, scritto dal grande scienziato la sera precedente, che parlava della teoria della relatività. Allora Einstein aveva 42 anni e forse aveva già enunciato la sua teoria. Del resto non c'è da meravigliarsi, poiché, quando i tempi sono maturi, la stessa scoperta può arrivare da più parti contemporaneamente. Vedi la storia di Meucci e Bell, ma anche di un mio lontano parente, considerato in vita un pazzo genialoide, poiché si disse che nel suo baule fu trovato un carteggio che parlava di una strana "carrozza senza cavalli". Tutti esempi che confermano che il genio umano, ma anche la fantasia, sono sempre al lavoro. E così pure riguardo al "Resto del… Carlino", il cui titolo originale riportava proprio i puntini d'interiezione. Molti credono alla vecchia storia del resto del sigaro (cent.10-8=2), ma esisteva già in Toscana un foglio che si chiamava "Il resto del sigaro". La verità è (e i puntini lo confermano) che si voleva fare la fronda agli avvenimenti del tempo, similmente a quando si promette a qualcuno un sacco di botte: "Vén qué ch'at dàgh al rèst!"
Ma se ci siamo affezionati al sigaro, teniamocelo pure, anche se ora non si fuma più!

Balle religiose

Lungi da me voler essere blasfemo, ma ce ne sono alcune veramente fantasiose e ne cito solo poche. Io parlo di Bologna, ma queste "balle" venivano raccontate (e in parte ancora si raccontano) in tutta Italia, in tutto il mondo, come in una sorta di gioco perverso, nel quale una "autorità" (per non dover dare troppe spiegazioni) si inventa una frottola e il popolo la beve (per non doversi fare troppe domande).

SAN PETRONIO: cominciamo con quest'importante personaggio (vescovo dal 431/32 al 450, forse milanese e non orientale come vuole la leggenda), del quale un monaco benedettino scrisse la storia (tra il 1160 e il 1180), secondo la quale sarebbe stato proprio lui a fare costruire la chiesa di S.Stefano. E' evidentemente una frottola, poiché è difficile pensare che un ignoto monachello, magari digiuno di archeologia e di dati storici (anche se pieno di fede) possa aver accertato un fatto del genere la bellezza di sette secoli dopo! Più recenti studi, infatti, indicano che la costruzione del tempio avvenne molti secoli dopo la morte del Santo. Ma Santo Stefano, certo una delle più antiche ed affascinanti chiese di Bologna, ha dato la stura ad un sacco di frottole, come quella del Catino di Pilato (del quale ho già detto), costruito quasi un millennio dopo il giorno in cui egli si lavò le mani.
Come quella del "pozzo miracoloso", bevendo le cui acque gli infermi guarivano (a meno che non si fosse trattato di gente che stava semplicemente morendo di sete). Come il giro intorno alla tomba del Santo (e carponi dentro) che le puerpere facevano, certe di propiziarsi così l'esito della gravidanza (un fatto del genere accadeva anche a Napoli nella chiesa di Mergellina). Per finire le 4 croci che San Petronio avrebbe posto ai 4 angoli della città, anch'esse risalenti a molti secoli dopo.
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MACCHE' VASO D'EGITTO! Forse l'origine di quest'espressione viene dal vaso, conservato in S.Maria dei Servi, che avrebbe usato Gesù alle nozze di Cana e che fu portato a Bologna, appunto dall'Egitto, nel 1349. Leggende che si legano ai pezzi della "vera croce" o dei "chiodi" o del Graal o di mille altre reliquie, che vengono ritrovate da chissà chi, chissà come, chissà quanti anni dopo e che riempiono tutte le chiese di tutte le città della cristianità, alle quali però forse è bello credere!

SAN LUCA: l'icona della Madonna, molto venerata in città, l'avrebbe portata al collo un pellegrino greco che andava vagando per le strade di Roma alla ricerca del Colle della Guardia (visto che là dei colli ce n'erano tanti!), giurando che l'autore era niente meno che l'Evangelista. Portato a Bologna da un senatore, trovò il colle e concluse così il suo pellegrinaggio. Storia improbabile, ma sempre più credibile di quella della Madonna di Loreto: là hanno voluto esagerare, poiché non l'immagine, ma l'intera chiesa sarebbe arrivata in volo dall'Oriente! E poi l'inevitabile miracolo: anno 1433, a Bologna piove da tre mesi, la campagna marcisce e, improvvisamente, spunta il sole. Da quel giorno la Madonna di S.Luca viene portata regolarmente in processione in città e non solo eccezionalmente com'era già accaduto una prima volta nel 1302.

LA MADONNA RILUTTANTE: quella di Via degli Angeli che decisero un giorno di trasferire in S.Pietro, ma i portatori cominciarono a traballare e a cadere a terra accecati. La riportarono subito indietro, i portatori riacquistarono la vista.

BARACCANO: altro luogo di leggende. Un giorno un soldato colpì la Madonna con la lancia e cadde morto. Un altro giorno il muro costruito a protezione dell'immagine veniva continuamente costruito e continuamente cadeva. Un altro ancora (nel 1511), quando 30.000 soldati papalini assediavano la città in quel punto, la grossa muraglia fu fatta saltare con una mina: saltò sì, ma tornò a ricomporsi esattamente com'era prima! I soldati si ritirarono e forse pensarono: "Ma che tipo di calce usano questi bolognesi?".

CALURA ESTIVA: il Cristo di Via del Cestello fu visto sudare copiosamente e in seguito prendere fuoco, ma a quei tempi la gente beveva molto.

VOLA COLOMBA: nel 1116 Picciola Galluzzi fece costruire la chiesa di Madonna del Monte all'Osservanza, dopo che una colomba in volo ne segnò il perimetro: più economico che assumere un geometra.

LACRIME: di queste se ne sente parlare ancora oggi e ovunque. Anche noi abbiamo avuto la nostra storia, quando la Madonna del Pianto, nella chiesa di Sant'Isaia, fu vista lacrimare per la peste del 1630. Non credano i napoletani d'avere l'esclusiva!

MADONNA TUTTOFARE: sempre per il gusto di voler vedere per forza qualcosa di soprannaturale nelle cose normali, si disse che la Madonna (poi denominata "della Pioggia") di Via Riva Reno, prima scongiurò terribili siccità come quelle del 1561, 1642 e 1660, poi fu anche invocata per allontanare l'invasione dei Turchi in Europa.

UN AUTORE TIMIDO era probabilmente il pittore che fece la Madonna della Rondine, nella via omonima, poiché, anziché ammettere d'esserne l'autore, si andò ad inventare che essa fu trovata in cima ad un altissimo pioppo, dove appunto volavano le rondini! Forse non era soddisfatto dell'opera!

UNA MANNAIA…COMMESTIBILE: forse per esorcizzare la fame che i bolognesi hanno dovuto patire in quegli anni,si disse che un dipinto del XVII secolo, raffigurato di fronte alla chiesetta dello Spirito Santo e che rappresentava il Volto Santo, ebbe il potere di salvare in extremis un condannato a morte, poiché la mannaia del boia diventò tenera come il burro. Praticamente una mannaia commestibile paragonata al burro: paragonarla ad un piatto di tagliatelle sarebbe stato troppo!
Se questo salvataggio è veramente avvenuto, è più facile che sia stato causato dalla grazia del Podestà, piuttosto che da improbabili trasformazioni molecolari.

LA TRISTE STORIA DELLA BADESSA: questa leggenda, più volte ricordata in diversi testi e con versioni abbastanza uniformi, è forse la più bella di tutte quelle che si raccontano dalle nostre parti, anche se non avvenne propriamente a Bologna, ma ad Ozzano, dove ancora oggi si festeggia annualmente la "Sagra della Badessa". Una storia bella perché unisce misticità, amore e mistero. In poche parole un cavaliere bolognese che vagava sui calanchi nei pressi di Settefonti, vide la Beata Lucia, al di là di una grata, che pregava nel suo convento e se ne innamorò. Tornò spesso a guardarla in silenzio, finché un brutto giorno, non trovandola più, si decise, per la disperazione, ad arruolarsi per le Crociate. In Terrasanta fu fatto prigioniero e in cella sognò Lucia che lo esortava a tornare. Tornò, ma seppe che era morta e i ceppi ai quali era incatenato si possono ancora vedere in una chiesa di Ozzano. Perché mistero? Perché Settefonti è un luogo magico e misterioso, un luogo che parla alla nostra anima e questo è il vero miracolo inspiegabile: andateci e vedrete!
P.S.: Per la cronaca (a proposito di balle) questa località, dove la leggenda vuole che esistessero sette fonti (e qualcuno ha avuto il coraggio di dire che…ne sono rimaste due!) non aveva affatto sette fonti e forse nemmeno una: il suo nome infatti è dovuto alla italianizzazione di quello dialettale "Stifont" il cui significato è un altro mistero!

I MIRACOLI SONO FINITI! "Facciamo il possibile e l'impossibile. Per i miracoli ci stiamo attrezzando", questo è il cartello esposto in diversi negozi o uffici da parte di vari spiritosi gestori. Sembra però che in questo mondo materialista, disincantato e non più religioso come un tempo, i miracoli non avvengano più. Ne è un esempio la chiesa della Madonna del Soccorso, il Viale Masini, che fu completamente rasa al suolo da un bombardamento nel 1944. A terra rimasero solo briciole, tranne la stessa immagine della Madonna che uscì intatta da quel disastro.
Un fatto che, se fosse accaduto solo qualche secolo fa, avrebbe certamente dato vita all'ennesimo miracolo da tramandare di generazione in generazione.

Mi fermo qui con le "balle" e le leggende. Forse sono io che non credo a nulla, ma a volte penso che se la gente ricominciasse a credere come una volta, forse le cose andrebbero meglio. Una volta erano tutti allegri e non avevano una lira in tasca, mentre oggi che tutti hanno di tutto, vedere per strada un sorriso, incontrare qualcuno che è felice è veramente un…MIRACOLO!

Paolo Canè

Proverbio n. 135

Fèr ch'me quì d'la Castlè (ed Varghè) che quànd i se spàz'n al cùl al vól dìr ch'i àn caghè.
Chi ha fatto un'azione ovvia o chi ha scoperto l'acqua calda!

Proverbio n. 134

Fèr al strunzlén.
Partorire il primo figlio.

Proverbio n. 133

Fèr al strànz pió grànd dal bùs.
Fare il passo più lungo della gamba.

Proverbio n. 132

Èser strà l'Óca e i Marón.
Due località di Bologna!