mercoledì 12 agosto 2009

CHI IÉ, IÉ! (n. 295)

Dù spusén is métten d'acórd, sóbbit dàpp spusè e ló al dìs a lì: " 'Scàulta mò: mé al lonedé ed sìra a vàgh a zughèr al biglièrd, al martedì ai ò la leziàn ed chitàra, al mérquel ai ò al pòcher coi amìgh, al giovedé…"
La spusén-na a l'interàmp: "Òu, stà mò a sénter té adès, mé al mérquel ed sìra a gózz: chi ié, ié!".

RIME IN PILLOLE (pagina 80)

Un gioco di bambini, diffuso come il rimpiattino (cùcco), il girotondo e i quattro cantoni, si chiamava “pàsa l’ànzel” (passa l’angelo): si giocava in tre, uno faceva da angelo, uno faceva da diavolo e il terzo dirigeva il gioco. La cantilena era questa:

Direttore:
Angelo, bell’angelo
vieni qui da me

Angelo:
non posso volare
che il diavolo mi piglia!

Direttore:
apri le tue ali
e vola qui da me!

L’angelo andava verso il direttore, mentre il diavolo gli lanciava un fazzoletto: se lo coglieva lo faceva rimanere diavolo.

(F. Cristofori: Guida i ai detti bolognesi ed emiliani)

***

Due gioiellini di Brunello Sgarzi:

AUTÓNN

Cumpàgn a la speranza d’un mèz c’prè,
l’estèd l’impié tótt i pió bì culùr,
pò la muré. Adès el rìgh’n i mùr
el lègrum silenziàusi dl’umditè.
***

STRADLÉN-NA DAL PRÉMM P’CHÈ

Stradlén-na dal prémm p’chè, mé ai sàn turnè
strà i tu zardén ch’i fàn curàn-na al véll,
dóvv, a la sìra, is dàn cunvàggn i gréll
e is métten a cantèr l’inserenè,

e ai ò cuntè int al zìl, a méll a méll,
el stessi strèl dal tàmp dal mì prémm p’chè,
…mó da par mé, cumpàgn’a un póver ch’tè,
mó da par mé, cumpàgn’a un imbezéll.

***

L’aria di Bologna non doveva essere molto limpida nemmeno del Settecento, se Benedetto Marcello, nel suo “Teatro alla moda, 1720”, fa dire alla “virtuosa”:

An’ so, ch’razza d’Città sipa mai questa
che st’ajer m’fa sempre psar la testa
ch’la par un madon…

(nota :la parola madàn -plur: madón- si deve intendere come “zolla”e non “mattone”)

…e nemmeno doveva essere molto silenziosa se fa dire, sempre alla “virtuosa”:
“A n’ho mai psù durmir in quel Pladur d’qula maldetta Barca pina d’cent spirt’ “

Paolo Canè

ESCLAMAZIONI

“Pustarabìr” è una tipica esclamazione bolognese, ormai quasi scomparsa, che oggi diciamo raramente e soprattutto per sorridere, ma una volta doveva essere qualcosa di molto più grave. Il significato è “che tu possa prendere la rabbia!”, come risulta più chiaramente dal più antico “póset arabìr!” riportato dal Menarini, come esclamazione pittoresca del Dottor Balanzone, in “Bologna dialettale (1978)”.Se non fosse stata una maledizione grave,non esisterebbe la sua forma addolcita che è “pustarabénder”: forse anche l’italiano “accidenti” era una forma grave d’insulto, tanto che esistono “accipicchia”, “accidempoli” ecc. e il nostro “pustarabénder” ha pressappoco questo stesso significato. Ma anche il nostro “azidànt a…” o “ch’at véggna un azidànt” dovevano essere forme ben più offensive di oggi, tant’è vero che abbiamo le forme “azidóll”, “azibrécch”, ecc. La rabbia stessa è una malattia ormai rara, ma non così un tempo, quando era oggetto di diverse allusioni: “èser arabé” (essere in collera), “ai ò una fàm arabé” (ho una fame da lupi), “pósia arabìr s’al n’é vàira” (mi venga la rabbia se non è vero), “l’é gelàus o tifàus o chèr o amèr arabé” (è molto geloso o tifoso o caro o amaro) ecc.
Forse i nostri antenati erano più ignoranti e più violenti di noi, ma probabilmente avevano di più il senso del pudore: un tempo la gente misurava di più le parole e molte erano considerate quanto meno pesanti, mentre oggi diciamo di tutto! Del resto sono molte e in ogni dialetto le maledizioni o le parolacce che sono diventate “lecite” col tempo: pensiamo al “mannaggia” (cioè “male ne abbia”), senza dimenticare il nostro “sócc’mel” (cioè “invito a cui si può anche non aderire”!), parole che, insieme a tante altre, hanno perduto la loro crudezza o volgarità originali, per diventare semplici esclamazioni, certo non raffinatissime, ma ormai innocue, per le quali nessuno più si scandalizza o si offende. Incontrare un amico e dire:” Cùmm vèla, ch’at véggna un azidànt!” sia a Bologna che in Romagna è ormai un’espressione di affetto e non dimentichiamo nemmeno che di recente, con una sentenza (discutibile forse), la Corte (non so se di Cassazione o Costituzionale) ha stabilito che quel “vaffanculo” di origine napoletana, ma ormai diffuso ed usatissimo in tutta Italia (e talvolta anche all’estero!), quel “vaffanculo” che ha originato migliaia di querele e milioni di baruffe, è diventato lecito. Oggi lo possiamo dire, anche se per uno di quei motivi inspiegabili del nostro ordinamento giuridico, resta vietatissimo dire “mi fai schifo”! Io credo che sia molto peggio “vaffanculo”, ma così è stato deciso e non sarà certo l’unica legge assurda, ottusa e cretina che siamo costretti ad osservare!
“Bòia d’un mànnd lèder” è un’esclamazione nostrana, tipica ed innocua, conosciuta da quasi tutti gli italiani, i quali cercano di pronunciarla alla meglio, quando vogliono imitare la nostra parlata.
Ma le espressioni di tutti i dialetti sono quanto mai variegate e variopinte e il nostro dialetto non è da meno. Quanto alle forme addolcite di parolacce o bestemmie che sarebbero troppo crude, ho già accennato sotto il titolo “Eufemismi del dialetto”.

Paolo Canè

SCIBBOLETH E...TOPI

La parola ebraica “scibboleth”, sconosciuta e perciò ignorata da tutti i miei dizionari ed enciclopedie, viene citata solamente dal Menarini nel suo “Fra il Sàvena e il Reno” (1969) dove ne da una spiegazione abbastanza esauriente. La parola in sé significa “spiga di grano” ma non è il significato che interessa, quanto la pronuncia. Narra il Vecchio Testamento che la gente di Galaad per riconoscere i fuggiaschi di Efraim che si erano nascosti tra di loro, obbligassero la popolazione ad pronunciare “scibboleth” e chi diceva “sibboleth” (poiché incapace di pronunciare la “sc”, com’era il popolo di Efraim) veniva immediatamente ucciso: uno scherzetto che costò a quel popolo ben 42.000 uomini! Fu ancora così in Sicilia, durante i Vespri, quando per riconoscere i francesi, si faceva pronunciare a tutti “ciciri” (plurale di “cece”): chi diceva “sisirì” era spacciato! Lo stesso accadde tra Siriani ed Egiziani, la parola da pronunciare era “gamal” (cammello): salvo chi pronunciava “jamal”, ucciso chi pronunciava“gamal”. Accadde di nuovo nel 1911 in Cina, dove i rappresentanti del decaduto regime Manciù vennero eliminati poiché incapaci di dire chüan-ehr (cagnolino), mancando loro la “r” e infine fu la volta degli infiltrati giapponesi nelle Filippine, durante l’ultimo conflitto mondiale, ai quali veniva fatto pronunciare “hula-hula”, ma loro erano capaci di dire solo “hura-hura” (non possedendo la ”l”) e venivano scoperti!
Dunque solo Menarini (citando peraltro lo studioso italo americano Mario Pei e il dizionario Panzini, il quale, a differenza dei miei, ne parla) ne indica il significato come “parola d’ordine” o “segno distintivo di appartenenza”ed indica come nostro “scibboleth” la parola “sócc’mel”. Può anche essere giusto, ma io (per quel che può contare il mio parere) sarei più d’accordo con Balzac (pure citato da Menarini), il quale sostiene il significato di prova difficile o difficoltà insormontabile e infatti le parole “shibboleth”, “ciciri”, “jamal”, “chüan-ehr”,” hula-hula”, ecc. più che parole d’ordine o segni distintivi, erano prove insormontabili per chi era costretto ad affrontarle! Pertanto, sempre riferendomi a Menarini (tanto per cambiare…) io sceglierei come “scibboleth” bolognese due frasi da lui citate,che io ho fatto solo la… fatica di mettere insieme! Esse sono:

Èt g’gósst, ghignàus? C’trìght’la: ciàpa la pàndga, méttla int la làta e scudózla!

Il senso (come del resto nei casi suddetti) lascia un po’ a desiderare, poiché la prima frase significa “Ti dispiace, antipatico? Arrangiati” e la seconda “Prendi il topo, mettilo nel bidone e scuotilo”. Due frasi diverse che ne formano una unica, la quale è forse troppo lunga, ma chiunque sia o voglia essere bolognese (in quanto a dialetto, non solo per nascita) deve saperla capire, ma soprattutto pronunciare! Chi non la sa pronunciare in modo perfetto non verrà passato per le armi, ma non sarà bolognese oppure sarà forse anche nato a Bologna da genitori petroniani, ma in quanto a dialetto sarà… un estraneo!
È una frase che contiene sia parole tipicamente dialettali, che poco hanno a che fare col toscano (ghignàus, làta, scudózla), sia parole che hanno certi incontri di consonanti (g’g, c’tr, ndg ) a cui un utente del nostro dialetto è avvezzo, ma chi non ne ha dimestichezza, nato qui o fuori, potrebbe anche…affogarsi!

Questa frase mi dà anche modo di evidenziare (per l’ennesima volta) che il nostro dialetto non è affatto “ostrogoto” come certi (ignoranti) sostengono, ma soprattutto latino e che le sue stranezze sono solo apparenti e dovute unicamente alla caduta di alcune vocali, evidente retaggio delle occupazioni celtico-germaniche del passato.
In questa breve frase le parole interessanti sono almeno tre: g’gósst, c’trìght’la e pàndga e perciò esaminiamole insieme, brevemente:
-g’góst (dispiacere)non è altro che la forma contratta e con meno vocali di “disgusto”
-c’trìght’la (arrangiati) idem come sopra di “districatela”
-pàndga (topo) incomprensibile per chi pensa a “topo”, ma non così per chi conosce il greco (pondiki),da cui deriva l’italiano“pantegana”che rende più chiaro “pàndga”! Mentre l’italiano, oltre a “pantegana”, prevede “topo”, “sorcio”, “ratto” (ed il latino anche “mus”!), la sola voce del nostro dialetto è “pàndga”, che può essere anche maschile (pàndgh), può avere la forma diminutiva se è il topolino (pundghén) e quella dispregiativa se è il ratto (pundgàza) che è sempre al femminile e che viene tradotto nell’italo-bolognese in “topaccia”! Del resto non potremmo tradurlo in modo diverso, poiché con “topa” faremmo sorridere tutti i toscani (e qualche romano). In quelle regioni il femminile di “topo” e “sorcio” hanno un ben preciso significato traslato, per non parlare dei napoletani che danno alla “pantegana” il nome “zoccola” che pure ha il significato traslato di peripatetica!
Tornando al nostro “scibboleth”, penso che la sua funzione potrebbe venire espletata non dalle due frasi unite di cui sopra, ma anche e solamente dall’unica parola “pàndga”! Per quanto ne so io non c’è nessuno al mondo, che non sia un bolognese utente del dialetto, che sappia dire quella parola come solo noi sappiamo dire!
C’è chi ci prova, del resto gli imitatori sono tanti, basti pensare al famoso “socimel” dei meridionali che non riescono a pronunciare una “c” ed una “m” senza metterci in mezzo una “i”! C’è chi ci prova, ma con scarso successo; il problema non sta tanto nel pronunciare tre consonanti di fila (ndg) quanto nel pronunciare una “n” nasale (suono tipico del nostro dialetto), seguita dalle due consonanti “dg” velari. Per noi è facile e naturale, ma per gli altri è un tranello: chi sta attento a pronunciare tutte e tre le consonanti, dimentica che la “n” è nasale, chi sta attento a pronunciare la “n” nasale, dimentica fatalmente la “d” e dice “pànga”, che è tutta un’altra cosa! E poi c’è un secondo tranello: la “n”, oltre che nasale, deve essere molto, molto lunga!)

Ovviamente tutto questo è soltanto un gioco: in fondo essere nati Bologna o no, parlare bene il proprio dialetto o no, non sono cose così importanti. È un gioco che facciamo tra noi tanto per dire qualcosa, un argomento di conversazione come le storie sui segni zodiacali, dei quali tutti parlano, ma pochi ci credono veramente.
Tuttavia la nostra soddisfazione di riuscire a dire correttamente:
Èt g’gósst, ghignàus? C’trìght’la: ciàpa la pàndga, méttla int la làta e scudózla!
…è pari soltanto alla rabbia di chi vorrebbe dirlo, ma non ci riesce!

Paolo Canè

mercoledì 8 luglio 2009

I CAMPIÓN D’LA FÌRA (n. 294)

Gisto, ch'al fà al cuntadén, al và a la fìra con só muiér, la Cesira. Int al pió bèl ai é la premiaziàn di miàur tòr da mànta e al presentadàur l'anónzia al micròfon: "Terzo premio il toro Pedro con tre prestazioni in una giornata!".

La Cesira, con un culpadén ed gàmt, la dìs: "Ciàpa mó só, Gisto!". E ló zètt.

Al presentadàur al và avànti: "Secondo premio al toro Fulmine con quattro prestazioni!"

E la Cesira: "Èt sintó Gisto che mùsica?". E ló sàmper zétt.

Al presentadàur: "Infine il primo premio al toro Mike, con ben cinque prestazioni in un giorno!".

La Cesira la sèlta só: "Ciàpa mó ànch quàssta, Gìsto!".


Alàura al cuntadén as arvólz al presentadàur e a gli d'mànda:

"Ch'al dégga só, ch'al tòr lé el zèncv prestaziàn i èli fàti sàmper con ch'la vàca?".

"Nà" l'arspànd ló "Con zéncv vàch difarànti".

E Gisto: "Ciàpa mó só, Cesira!".

CH’A S’INTINDÀGGNA! (n. 293)

Al dìs Frédo con só muiér: "Alàura a sàn d'acórd: al prémm di dù ch'mór, mé a vàgh a stèr in campàgna!".

L’ATIVITÈ SESUÈL (n. 292)

Dù pensionè i càmpren una cà int una paisén d'la Rumàgna par pasèri in pès i ùltum àn. Una matén-na i incàntren al Séndich ch'a gli d'mànda:


"Alàura cùmm vèla?"

"Benéssum" a gli arspànnd ló. "A la matén-na, svéglia al sèt e sóbbit un póch d'ativitè sesuèl; al
nóv la claziàn con ativitè sesuèl; un girtén pr'al paàis e a mezdé as màgna e dàpp as fà un sunlén con l'ativitè sesuèl. Al dappmazdé soquànt ciapén e, prémma ed zànna, ancàura ativitè sesuèl e pò al dìs a andàn a lèt parché a sàn stóff".

"At al cràdd" al dìs al Séndìch. "Mó quànt'àn avìv vó?"

"Chi mé? Quèsi stantaquàter".

"Av fàgh i mi cumplimént, mó a s'révv curiàus ed savàir cus l'é tótta ch'l "ativitè sesuèl" ch'a fè".

"L'é mi muiér ch'l'am ràmp sàmper i marón!".

AL PROFESÀUR ZANÈSI (n. 291)

Una sgnàura, bèle un póch in là coi àn, la dezìd ed iustèrs el tàtt e la và da Zanèsi, un profesàur spezializè int la plàstica estética. Las fà operèr, mó dàpp a l'operaziàn, la vàdd che el tàtt egli én vanzè cumpàgn a prémma:

"Ch'l'ans preócupa, sgnàura" a gli dìs al profesàur "Bàsta che lì la sbàte el bràza, cómme par vulèr, che el tàtt is gànfian infén ch'ai pèr a lì!".


Tótta cuntànta la tàurna a cà e ch'la sìra stessa la và int un baladùr e la tróva un umarèl, brìsa tànt zàuven, mó ànch abastànza in fàurma. Dàpp dù o trì baltén, i dezìden d'andèr in albérgh.
I vàn int la stanzia, i se spóiien e lì la tàca a sbàter el bràza, alàura ló a glì dìs:

"It andè ànca té dal profesàur Zanèsi?" in 'st mànter ch'al sbàt el z'nócia.

LA SOLUZIÀN D’LA MÀMA (n. 290)

Un ragazèl, tótt cuntànt, al dìs con só pèder:

"Bàbbo, at anónzi ch'am spàus!"

"Con chi?" al d’mànda ló.

"Con la Marióccia".

"La Marióccia? Mó l'an sarà mégga la fióla d’Argìa?"

"Sé, própi lì".

"Guèrda, a t'ò da dìr un quèl: prémma ed spusèrum con tó mèder, l'Argià l'é stè la mi 'mbràusa e…la Marióccia l'é tó surèla".


Dàpp soquànt mìs al zuvnót al tàurna a la càrica:

"Bàbbo, stavólta l'é la bóna: am spàus!"

"Con chi?"

"Con la Pia".

"La Pia? Mó l'an sarà mégga la fióla d'la Pepìna?"

"Sé, própi lì".

"Guèrda che ànch la Pepìna l'é stè la mi 'mbràusa e dànca ànch la Pia l'é tó surèla!".


Al ragazèl, c'prè, al và a zighèr da só méder e ai cànta incósa:

"Màma, cus'òia da fèr?"

"Brìsa preocupèret, spàusa quàlla ch'at piès, tànt tó pèder al né brìsa tó pèder!"

L’URBÉN E LA CESÌRA (n. 289)

Un urbén al và al casén e als fa cumpagènr só int la stanzia d'la Cesìra:


"Disó, Cesìra, mé ai ò sintó c'càrrer dimóndi ed té, mó ant pós brìsa vàdder: dìm cùmm t'i e cùmm t'i f'tè".

"Ai ò la camisàtta avérta, la minigònna e a sàn sànza mudànt".

L'urbén, ch'l'éra bèle inaré cumpàgn a un sumàr, ai dìs:

"Alàura ch'sa fàggna?".

E lì: "Mé a pós fèr d'incósa".

E ló: "Fèt s'santanóv?".

E lì: "Soncamé: al g'dót ed nuvàmber!".

SASSI

Sia in italiano che in dialetto, tutto è abbastanza chiaro per quanto concerne le varie terminologie che riguardano i sassi e affini, i problemi cominciano quando si vanno a raffrontare le due parlate! In italiano abbiamo:
sasso, che è un frammento di roccia, generalmente abbastanza piccolo, altrimenti è:
macigno, sasso più grande
pietra, è un po’ la stessa cosa di “sasso”, con la differenza che questo termine è usato per definire una infinità di cose (p. di paragone, filosofale, tombale, miliare,ecc.)
mattone, è il laterizio da costruzione.
In bolognese innanzitutto manca completamente il termine “roccia” e, se qualcuno volesse usare l’inesistente “rócia” o il bruttissimo “róza” lo farà a suo rischio e pericolo! Noi abbiamo:
sàs, che è normalmente un pezzo di roccia o di ghiaia, quasi sempre piuttosto piccolo, ma che non ha nulla a che fare con la pietra (préda) come accade in italiano. I “sàs” si lanciano (anche col “tirén”) e danno vita a qualche modo di dire, come “sàs bèle tràt” (voce verbale antica, oggi sostituita da “tirè”) che vale “il dado è tratto, la cosa è decisa”oppure “sèlta-sàs” che è il gioco del rimbalzello fatto sull’acqua, oltre a vari altri modi di dire come “una sasè”, nel calcio, un tiro fortissimo, ecc.
masàggna, sarebbe il macigno, ma in dialetto è femminile.Mi vengono in mente cose del passato: i “masgnón” grandi macigni e la “cà ed masàggna” un’antica casa che sorgeva sulla via San Vitale (attuale via Massarenti, all’altezza dell’imbocco della tangenziale), così chiamata perché era in buona parte costruita con grandi “masgnón” e che qualche irresponsabile imbecille ha deciso di demolire qualche anno fa!
préda, che sarebbe la traduzione di “pietra” (con la sua brava metatesi “etr=red” come nei dialetti meridionali “preta”, a differenza del piemontese “péra”), ma che qui ha un significato tutto nostro: non vuol dire “pietra” o “sasso”, ma…mattone! Unicamente il laterizio da costruzione. Perciò, se qualcuno vi ha tirato una “preda” oppure ha dato una “spardè int i vìder” (anche nel senso figurato di cosa improvvisa e sgradita), avrà tirato inequivocabilmente una mattone da muratore! Anche questo termine ha dato vita a vari modi di dire: “èt la préda a cà tó?” (domanda che si fa a chi non chiude la porta), “avàir al mèl d’la préda” (che ha il doppio significato di calcolosi, epatica o renale, e quello di chi ha l’assillo di possedere case), “la préda d’aguzèr” che sarebbe il cote, ecc.
madàn, infine, non è affatto il “mattone, ma la “zolla”, parola che in dialetto non esiste, anche se abbiamo Zola Predosa, ma è probabile che questo nome derivi dalla lingua o che un tempo esistesse “zóla” anche in dialetto o che abbia altra origine!
E’ parola maschile e si usa soprattutto al plurale: madón, dove dà origine ad altri modi di dire, come “avàir i madón al sàul” (essere proprietari terrieri, mentre in italiano “avere mattoni o pietre al sole” significa essere proprietari di case!), “ràmper i madón” (spaccare le zolle, come fa il contadino). Una discreta confusone, nella quale tuttavia noi bolognesi ci sappiamo destreggiare abbastanza bene, ma è certo che ogni volta che qualcuno, parlando italiano, dice “pietra” nell’invisibile fumetto che c’è sulla nostra testa appare…un mattone!

Paolo Canè

TÀS E TÀSS

Giorni fa, nel corso di una delle mie tante ricerche linguistiche, ho osservato che in italiano la parola “tasso” ha almeno quattro significati, a parte… il grande poeta napoletano (e suo padre!):
1) Il carnivoro dormiglione, simile al ghiro
2) L’albero delle conifere dal legno durissimo
3) Un indice numerico collegato al tempo (di interesse, di natalità, ecc.)
4) Un’incudine quadrata, senza coni, usata dai fabbri.
E questo per limitarmi al maschile, escludendo perciò…la tassa!
In dialetto abbiamo qualcosa di simile, ma solo per due o tre casi.
Infatti l’animale si chiama “tàs” (assolutamente con una sola “s” e non due come scritto su alcuni vecchi dizionari) e alcune fonti citano anche l’albero omonimo (anche se io, in tutta una vita di parlante, non ho mai udito chiamarlo così!), ma non mi risulta che esista un simile termine per la particolare incudine dei fabbri. Quanto all’altro caso, può darsi che si possa dire “al tàs d’intarès”, e magari si dice pure, ma credo che si tratti di una traduzione dall’italiano al dialetto! Una volta gli interessi si chiamavano semplicemente “frùt” (frutti), ma non possiamo pretendere che il dialetto resti inchiodato ai secoli passati!
Quanto alla “tassa”, detta al singolare è “tàsa”, ma al plurale (el tàs) viene ad aggiungersi ai casi suddetti…creando confusione! In fondo quest’ultimo caso viene a sostituire l’inesistente incudine, così anche in dialetto abbiamo quattro significati!

Scherzi a parte, quest’argomento da adito ad un ulteriore ragionamento che riguarda la lunghezza del suono delle vocali, invadendo così il campo minato della pronuncia con le sue regole…che non esistono!
Oltre ai casi suddetti, abbiamo un’altra parola in dialetto che suona simile ad essi ed è “la tàss” (la tosse) che io scrivo così, escludendo che scrive erroneamente “tòss” e chi vuole scrivere “tåss”, usando quest’inconsueta “å… svedese”, come faceva ancora mezzo secolo fa Mainoldi, ma come Menarini decise di non fare più!
Un sistema che, come ho detto più volte, ci costringe a fare una serie di ragionamenti prima di capire quale sia la pronuncia esatta, ciò che è in parte inutile, poiché io e migliaia di bolognesi pronunciamo (e scriviamo) esattamente tàss non tòss e, men che meno, tåss!
Eppure tra i casi, visti prima, scritti tàs e questo tàss c’è una sostanziale differenza: i primi comportano una “s” e questo invece due. Da un punto di vista morfologico non ci dovrebbero essere differenze, poiché se l’italiano fa “tasso” e “tosse” (con 2 “s”), anche il dialetto dovrebbe fare in entrambi i casi “tàss” o al massimo “tàs”!
Non è così, poiché, per motivi tutti nostri (vedi qui sotto), abbiamo deciso di pronunciare lunga la “a” di “tàs” e breve la “a” di “tàss” ed è proprio la presenza (nella pronuncia e nella grafia) di una o due “s” che sancisce tale differenza!Infine, quanto al “perché”, potrei osservare che il latino ha due diverse accentazioni: “taxāre” ha la quantità lunga e “tăxum” ha quella breve. Non è detto che sia quello il motivo, ma, dato che il bolognese discende direttamente dal latino,… hai visto mai?

Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 79)

Quando si vuole acchiappare una lucciola:
Lucciola, lucciola vieni a me,
ti vo’ dare un pan da tre,
pan da tre e pan da quattro,
lucciola, lucciola vieni a basso!


Oppure:
pan da cinque e pan da sei,
lucciola, lucciola ti vorrei!


Oppure anche:
Lucciola, lucciola vieni a me,
ti vo’ dare un pan da del re,
pan del re e della regina,
lucciola, lucciola vien bassina!


***


E, infine, quando si dà da mangiare al bimbo:
Testa santa,
naso tinto,
barba bianca,
nacchere di qua, nacchere di là,
boccon santo entrami qua!


***


Cantilena di bimbi, per far apparire il sole: (dall’antologia “Di ramo in Ramo”)
Cecco fogliuto


sonami l’imbuto, risponde la gallina;
sonamelo bene, madonna Menichina
la pecorina viene; s’affaccia alla finestra
viene di Roma, colla grillanda in testa
mi porta la corona passa tre fanti
d’oro e d’argento, con tre cavalli bianchi
che costa cinquecento; bianca la sella
cento e cinquanta, bianco il parasole
canta lo gallo. Gesù ci mandi il sole.


***


Micca dire la micca,
perché la mamma non vuol micca che dici micca
perché la micca non si mangia micca!
(è una reminiscenza di un gioco di noi bambini, in cui le dita di una mano parlavano, dal pollice (ho fame) al mignolo, similmente a quanto sopra, ma non riocordo altro).

Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 78)

Uccellin che passa il mare,

tiene strette le sue ale,

tiene strette l’ale e il becco,

parla italiano, francese e tedesco. (La lettera)

(Mia personale osservazione: per capire occorrono veri indovini, più che bambini!)

***

Conte: “…quando i ragazzi son lì per fare qualche giuoco, per vedere chi dev’essere il primo, uno di loro dice una delle seguenti strofette…”

Pippolo uccello

del buono e del bello;

gallina zoppa

sta sulla pioppa;

àle e vàle

cìccia canàle,

tocca alla lepre

a andare a cercare.

(NDR: è parente della filastrocca bolognese “Pimpnèl da l’óli bèl…”)

***

Sotto la pergola nasce l’uva

prima acerba poi matura;

zeffirin che zeffirava,

pepe, cannella, garofano e fava.

***

Per fare il girotondo:

Gira gira tondo!

Il pane sotto il forno,

un mazzo di viole

le dono a chi le vuole;

le dono alla mia zia

se non le vuole le butti via!

***

Quando si trova una lumaca (chiocciola, in toscano):

Chiocciola, chiocciola marinella,

metti fuori le cornicella!

Se non ce le metterai,

calci e pugni prenderai!


Paolo Canè

giovedì 25 giugno 2009

INZIDÀNT ED PERCÀURS (n. 288)

- "Màma, at ò da dìr un quèl: a sàn inzénta!"
- "Bàn, mó dit dabàn? T'an stè mai aténti, mó dùvv'avèvet la tèsta?"
- "Ói, in vàtta al cófen!"

LA CÀ BIÀNCA E LA PIÀZA RÀSSA (n. 287)

Un róss e un americàn, ch'i éren d'vintè amìgh, i én al bàr a bàvver insàmm. I éren bèle un póch instiatinè e i tachénn à fères del cunfidànz.
"Da nuèter ai é sàmper stè la domocrazì" al dìs l’americàn. "Pànsa che un dé, int l'85, mé ai ò pisè cànter al rastèl d'la Cà Bianca a Uòsinton!"
"Ch's’ai é ed spezièl?" l'arbàt al róss. "Mé, int l'86 ai ò adiritùra caghè dànter al Mausolèo ed Lénin int la Piàza Ràssa!"

I vàn drétt a bàvver un èter póch e, quànd i én bèle tótt dù in ciarén-na, a l'amercàn ai vén al scróppel d'avàirla cuntè grósa e al dìs:
" 'scàulta, a t'ò da dìr la veritè: mé ai ò pisè dabàn càntr'al rastèl d'la Cà Bianca, mó l'éra el dàu d'la nót e an i éra inción!".

Alàura ànch al róss al sèlta só e al dìs:
"Vésst t'am è détt acsé, a sarò sinzér ànca mé: mé ai ò caghè dabàn int al Mausolèo ed Lénin, mó an um sàn mégga tirè zà el brègh!".

I DÙ TENÙR (n. 286)

Gìsto e Mario i avèven tótt dù una bèla vàus da tenàur. I éren amìgh amìgh, mó strà'd làur ai éra ànch un póch ed rózzen, un póch ed gelosì, par vì d'la concurànza ch'is fèven. Un dé i s'incàntren e Gìsto al dìs:
"Dì só, Mario, èt cantè té par Nadèl?"
"Soncamé, ai ò cantè in San P'tróni e, at dirò, ai ò cantè acsé bàn, che la Madóna las é méssa a zighèr! E té?"

Gìsto, ch'ai éra v'gnó só un póch ed narvàus, l'arspànnd:
"Mó guèrda, ànca mé ai ò cantè in San P'tróni, mó ed sìra però!"
"E cùmm'éla andè?"
"Benéssum, pànsa che a la fén l'é v'gnó da mé Gesó Crésst, ch'al m'à détt: "Té sè ch'ét cànt pulìd, èter che ch'al g'graziè che incù l'à fàt zighèr mì mèder!"

CICÀTT

E’ parola d’origine francese “chiquet” (bocconcino), che in italiano ha almeno tre significati:

1) bicchierino di liquore (il goccetto)
2) rimbrotto, rimprovero
3) immissione supplementare di carburante per avviare i motori

Curioso è che nel dialetto bolognese “cicàtt” abbia gli stessi tre significati, più altri due, come si può vedere qui di seguito:

1) bicchierino: “al s’é fàt dù o trì cichétt (o cichtén)” significa che si è bevuto due o tre bicchierini e il diminutivo non ne limita la quantità, me ne sottolinea l’evento!

2) rimprovero: “l’à ciapè un bèl cicàtt!” ciò che è una cosa diversa da “una gràn magnè ed gróggn” poiché quest’ultima la può fare chiunque, mentre il “cicàtt” e soprattutto il rimprovero di un superiore, non così grave, ma ugualmente pungente! In quest’accezione, “cicàtt” non ha il diminutivo!

3) immissione di carburante: “dài bàn un cicàtt!” Non so se ci sia ancora ma, una volta ogni moto o scooter aveva un bottoncino, pigiando il quale si immetteva un supplemento di carburante che facilitava l’avviamento del motore. Anche in questo caso si può usare il diminutivo “cichtén”.

Oltre a questi significati, che sono più o meno uguali anche in lingua (a parte forse la variante dei diminutivi), ecco gli altri due del bolognese:

4) il pezzetto di cuoio usato dal calzolaio per la riparazione di una scarpa: “ch’ai métta bàn un cicàtt (o un cichtén) int al tàch”, ma può essere anche un pezzetto di qualsiasi altro materiale per qualsiasi altro uso, come il siciliano “tacca, taccariédda” che è un pezzetto di legno usato dal falegname per riparazioni o altro.
Ma questo significato sta rapidamente tramontando presso le giovani generazioni, poiché ora non si ripara quasi più nulla: si butta il vecchio e si compra il nuovo, che spesso… costa meno della riparazione!

5) ritaglio di salumi! “A v’révv un étto ed cichétt!”. Quest’altro significato è, se possibile, in via di ancora più rapida sparizione. Una volta, quando fame e miseria erano tante, si andava dal pizzicagnolo (al lardaról) a comprare gli avanzi dei ritagli di salumi vari, mischiati tutti insieme. Il buon uomo ne faceva un cartoccio (un scartuzén) che costava molto poco, ma era tanto buono!
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Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 77)

Canzoncine: ”…ve ne sono alcune di un genere strano, fatte con accozzi strambi di cose buffe e d’idee impossibili a stare insieme…”

Sapevo una canzone alla rovescia,
alla diritta non la so cantare.
Mi levai ‘na mattina, era di festa,
presi una falce e me n’andai a vangare.
Di sull’uscio montai sopra una quercia
e lì cerage principiai a mangiare.
Venne fuori il padron di quelle sorbe
e disse: -Lascia star le mie cipolle!-
Avessi tanti occhi e tanto fiato,
quante delle tue noci t’ho mangiato!
Avessi tanto fiato e tanti occhi,
quanti ho mangiato io dei tuoi finocchi!

***

Disse il sordo: Sento un tordo!
Disse io cieco: Anch’io o vedo!
Disse il zoppo: L’acchiapperemo!
Disse il nudo: Lo metto in seno!

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Indovinelli: “…come per isciogliere la lingua ai bambini furono inventati gli scioglilingua, così per aguzzare la loro testina furono inventati gl’indovinelli…”

Bella donna d’alto palazzo,
bianca son, nera mi faccio,
casco in terra e non mi sfaccio;
vado in chiesa e lume faccio - (L’oliva)

C’è un botticino
che mesce due sorte di vino, - (L’uovo)

C’è una vecchiaccia
su una finestraccia:
le scuote un dente
e chiama tutta la gente! - (La campana)

E’ un cosino in un cantuccino,
che non chiede n acqua, né vino
e si nutre come un cardellino,sai dirmi cos’è? - (Il lume)
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Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 76)

FIOR DA FIORE è una vecchia antologia, presumibilmente ad uso della scuola media, curata da Giovanni Pascoli, della quale non conosco né data di edizione, né Casa Editrice, poiché …manca la prima pagina! In ogni caso è sicuramente anteriore al 1912, anno della scomparsa del Poeta. Tra le oltre 550 pagine di racconti e di poesie del Pascoli, ma soprattutto di diversi altri Autori, ve ne sono alcune dove egli elenca alcuni “scherzetti”,”giochetti” e “indovinelli” per bambini,con una sua breve presentazione. Sono cose che appartengono alla lingua, ma le voglio ugualmente inserire in questa raccolta. Si tratta di giochi prevalentemente toscani.

Giochetti: “…sono strofette che si accompagnano con gesti, toccando una parte o l’altra del bimbo o sono canzoncine di senso ridicolo e curioso.”

Toccando un occhio - Questo è l’occhio bello,
“ l’altro - questo è il suo fratello,
“ la bocca - questa è la chiesina,
Prendendo il naso - e questo è il campanello;
Scuotendolo leggermente - dilin dilin dilin dilin.


***

Toccando il pollice - Questo dice: non c’è pane
“ l’indice - Questo dice: come faremo?
“ il medio - Questo dice: lo compreremo
“ l’anulare - Questo dice: ce n’è un pezzettino
“ il mignolo - Questo dice: datemelo a me che sono il più piccino!

***

Solleticando il palmo della mano - Piazza, bella piazza! Ci passò una lepre pazza!
Pollice - questo la chiappò!
Indice - questo l’ammazzò!
Medio - questo la cucinò!
Anulare - questo se la mangiò!
Mignolo - e a questo, piccin piccino, non gli restò nemmeno un briciolino!

***

Una variante:

Solleticando il palmo della mano - Piazza, bella piazza! Ci passò una lepre pazza!
Pollice - questo va a caccia;
Indice - questo l’ammazza;
Medio - questo la pela;
Anulare - questo la cuoce;
Mignolo - e questo la mangia!

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Paolo Canè